venerdì 11 ottobre 2013

Dieci italiani per un tedesco

Erich Priebke era un capitano delle SS, le Schutzstaffel costituite da Hitler nel 1925 come propria guardia personale, una sorta di corpo di Pretoriani che con il tempo aveva sistematicamente arruolato i nazisti più fanatici ed era arrivato all’epoca della Seconda Guerra Mondiale a costituire l’unità combattente e di polizia militare più letale ed efficace di tutto l’apparato bellico tedesco. Reclutato personalmente dal suo capo, Heinrich Himmler, il giovane Priebke si era distinto per le proprie capacità organizzative pari alla sua fedeltà all’ideologia nazionalsocialista ed aveva fatto carriera.
La mattina del 23 marzo 1944, quando l’Obersturmbannführer Herbert Kappler, comandante della piazza militare di Roma occupata dai nazisti gli ordinò di organizzare ed eseguire la più feroce delle rappresaglie compiute dall’esercito tedesco in Italia, Priebke portava appunto i gradi di capitano ed era uno degli uomini di fiducia di Kappler. Inevitabile che il massacro delle Fosse Ardeatine fosse affidato a lui, che non si fece pregare e non deluse la fiducia accordatagli, andando perfino al di là dei crudeli, disumani ordini ricevuti.
Roma era sotto il controllo della Wehrmacht e della Gestapo fin da subito dopo l’8 settembre, e aspettava la fine di uno degli inverni più lunghi e duri della sua storia, combattuta tra la speranza che gli Alleati – ormai vicini alla città ma bloccati dal caposaldo tedesco arroccato nell’antica Abbazia di Montecassino – riuscissero a sfondare le linee nemiche prima possibile ed il terrore della legge marziale germanica, dei rastrellamenti di ebrei, partigiani e di quanti semplicemente incappavano nel capriccio degli occupanti. Pur avendo conosciuto tante invasioni e saccheggi durante il corso della sua storia plurimillenaria, niente era paragonabile all’orrore vissuto dai romani in quei nove mesi intercorsi tra la resa dei Granatieri di Sardegna a Porta San Paolo il 12 settembre 1943 e l’entrata delle avanguardie del generale Clark, la benedetta V^ Armata, la mattina del 4 giugno 1944, il giorno della Liberazione.
Era il periodo magistralmente immortalato da Roberto Rossellini con la grande Anna magnani nel capolavoro “Roma città aperta”. A fine marzo, la Linea Gustav reggeva ancora, la luce in fondo al tunnel era tutt’altro che in vista, e i Gruppi Armati Partigiani (G.A.P.) adottarono pertanto la decisione controversa di compiere una azione dimostrativa per scuotere il morale delle truppe tedesche occupanti e risollevare quello dei romani, dando impulso nel contempo allo sforzo degli Alleati nella difficile marcia verso la Capitale dopo lo sbarco di Anzio.
Fu prescelta Via Rasella, traversa della centralissima Via del Tritone. Il cuore di Roma, dove la bomba partigiana avrebbe riecheggiato ancora più forte. Vittime designate, un battaglione di altoatesini, il Polizei-Regiment Bozen, che transitava da quella via quotidianamente di ritorno dalle esercitazioni. La mattina del 23 marzo 1944 le Brigate Garibaldi, ricevuto l’ordine esecutivo del Comitato di Liberazione Nazionale presieduto in quel momento tra gli altri da Sandro Pertini e Giorgio Amendola, passarono all’azione. La data non era stata scelta a caso, si trattava del 25° anniversario della fondazione del primo Fascio di Combattimentoda parte di Mussolini a Milano. La guerra si faceva e si fa ancora anche - e a volte soprattutto - con i simboli, per quanto sanguinosi.
Il Battaglione Bozen fu spazzato via dalla bomba dei GAP, che appostati in zona finirono i superstiti con bombe a mano e pistole. Subito dopo, partì l’inevitabile rappresaglia delle SS, il cui morale – lungi dall’essere stato fiaccato – si rivelò quanto mai rafforzato nella propria crudele determinazione ad andare fino in fondo in quella guerra dove ormai si reggevano soltanto sul proprio estremo fanatismo. Herbert Kappler applicò il codice militare tedesco, che prevedeva una rappresaglia ai danni di dieci civili locali per ogni soldato tedesco caduto. Il rastrellamento, l’organizzazione e l’esecuzione furono affidate come detto al capitano Priebke, al quale né allora né in seguito fino al suo ultimo istante di vita balenò nel cervello la possibilità di non ottemperare agli atroci ordini ricevuti. Nessun tedesco in quegli anni lo avrebbe fatto, avrebbe dichiarato in seguito.
Per buona misura, i 33 morti del Battaglione Bozen furono vendicati con il massacro di 335 civili rastrellati a caso per le vie di Roma e integrati con detenuti “politici” di Regina Coeli, il carcere di Roma. Cinque in più del necessario, perché lo zelo di Priebke non tollerava eventuali mancanze, meglio abbondare. Le vittime furono portate alle Fosse Ardeatine, antiche cave di materiale ghiaioso lungo la Via Ardeatina fuori Roma. L’esecuzione ebbe luogo neanche 24 ore dopo l’attentato di Via Rasella. I corpi dei giustiziati rimasero nascosti nelle cave fino a dopo la Liberazione. I tedeschi si erano preparati – moralmente parlando, secondo loro – una via di fuga occultando le tracce del massacro. Come per lo sterminio degli ebrei, un giorno se le cose fossero andate male e si fosse dovuto render conto delle proprie  azioni si sarebbe sempre potuto affidarsi al Negazionismo. Tanto le tracce degli eccidi erano state cancellate, o sottoterra o nei forni dei campi di concentramento.
Le cose andarono male, alla fine, per la Germania nazista. Kappler venne catturato al pari del Feldmaresciallo Kesselring – comandante della Wehrmacht nell’Italia occupata e governata tramite il regime fantoccio di Salò – e inizialmente condannato a morte, sentenza poi commutata nell’ergastolo che si concluse anzitempo con la clamorosa fuga dall’ospedale militare del Celio nel 1977. Priebke invece riuscì ad evadere nel 1945 dal campo di prigionia dov’era detenuto e grazie ai buoni uffici della famigerata Organizzazione Odessa ricevette documenti falsi con i quali poté imbarcarsi per il Sudamerica. Trovò rifugio nell’Argentina governata dal dittatore Juan Peron, filotedesco da sempre e ben disposto ad accogliere gli ex nazisti in fuga.  A San Carlos de Bariloche, ai piedi delle Ande argentine, Erich Priebke visse i successivi cinquant’anni sotto la protezione della comunità tedesca e delle organizzazioni neonaziste.
Era uno dei bersagli principali del Centro di Documentazione Ebraica di Simon Wiesenthal, il cacciatore di nazisti che era già riuscito ad assicurare alla giustizia postbellica belve come Adolf Eichmann. Ma riuscì a farla franca fino al 1994, quando finalmente il mutato clima internazionale post guerra fredda e la fine delle dittature fasciste in Sudamerica permisero agli investigatori ed ai giornalisti di penetrare la spessa cortina alzata sui reduci del Terzo Reich da organizzazioni come l’Odessa e dai loro simpatizzanti nel mondo politico e finanziario internazionale. Priebke fu arrestato ed estradato in Italia nel 1995, cinquant’anni dopo i fatti che l’avevano reso tristemente famoso. Nel 1996 si presentò di fronte al tribunale Militare di Roma, dichiarato competente a giudicare essendo l’eccidio delle Fosse Ardeatine un crimine di guerra. In prima istanza, il Tribunale non trovò di meglio che giudicare Priebke non perseguibile, in quanto il reato era prescritto dato il lungo tempo trascorso. La clamorosa sollevazione del pubblico già nell’aula del Tribunale indusse il governo italiano a farsi promotore di un nuovo procedimento giudiziario. Stavolta, malgrado il tentativo grottesco della difesa di Priebke di farlo passare per un mero esecutore di ordini (e semmai di chiederne la persecuzione soltanto per quei cinque morti in più rispetto alla proporzione di 10 ad 1!), per l’ex capitano delle Schutzstaffel non ci fu scampo.
Erich Priebke fu condannato all’ergastolo, da scontare agli arresti domiciliari in considerazione dell’età avanzata, con sentenza definitiva del 1998. Nel 2007, dopo che per anni l’opinione pubblica italiana si era divisa tra fautori della severità e partigiani della clemenza per ragioni umanitarie (siamo sempre pronti a provare simili moti dell’anima per chi non ne ha mai provati in vita sua), a Priebke venne concesso il permesso di uscita da casa a determinate ore del giorno, per recarsi “al lavoro” nello studio del suo avvocato. Negli ultimi anni della sua vita aveva fatto discutere il regime di semilibertà sempre più lasco di cui aveva beneficiato (pur sotto stretta sorveglianza della polizia più che altro per la sua incolumità personale). Quest’anno, infine, in occasione del suo centesimo compleanno aveva potuto festeggiare con una passeggiata da cittadino praticamente libero per le strade di quella Roma in cui aveva seminato il terrore a piene mani settant’anni prima.
E’ morto senza una parola o un pensiero di pentimento Erich Priebke, a giudicare dal testamento che si è lasciato dietro e dall’atteggiamento fermo fino all’ultimo istante con cui si è rifiutato di rinnegare anche una sola singola azione del suo passato. “Negli anni 40, gli ordini si eseguivano e basta”. E’ la sintesi della sua vita, la perfetta rappresentazione di quella “banalità del male” di cui parlava Hannah Arendt fin dai tempi del processo Eichmann. Un male tra l’altro che in tempi divenuti nuovamente difficili quasi come all’epoca in cui la civile Berlino si affidò ad Adolf Hitler può reincarnarsi di nuovo con banale facilità.

Forse è per questo che, a chiudere l’ultimo tormentone lasciato in eredità da questo impiegato della morte a quell’opinione pubblica italiana che ha così a lungo torturato, è opportuno che si decida di disperderne le ceneri al vento. Perché non possano tornare a riunirsi come le vestigia di un mostro mitologico,  in un nuovo orrore che già da più parti viene invocato a gran voce.

giovedì 10 ottobre 2013

Tragedie di mare e di terra

Di questa straziante tragedia del mare (siamo a 280 bare allineate nell’hangar dell’aeroporto di Lampedusa) l’immagine simbolo, quella che rimarrà nella memoria collettiva come sintesi di questo nuovo calvario delle nostre coscienze italiane è quella del poliziotto che trattiene a stento le lacrime davanti alle telecamere, mentre è in servizio di sorveglianza a fianco di quelle bare.
E’ difficile per tutti trattenere la commozione, in questo momento. Dentro quelle casse ci sono i resti di uomini, donne e soprattutto bambini, le cui vite sono state stroncate nel modo più atroce dall’ultima in ordine di tempo e più allucinante in ordine di gravità sciagura provocata dal naufragio di uno dei barconi che, possiamo dirlo, ormai fanno servizio di linea tra il Nord Africa e Lampedusa, avamposto dell’immaginario El Dorado italiano per queste persone che vi si accalcano sopra affrontando i rischi di un viaggio pericolosissimo, oggi come ai tempi dell’Odissea.
E’ difficile ragionare, sotto l’influsso dell’emozione che provoca la vista di quelle bare. Dentro una di esse, una madre con il bambino appena partorito negli ultimi istanti di vita. Non hanno neppure separato il cordone ombelicale, resteranno così per l’eternità. Senza nome, però, come tutti gli altri. Non c’è una anagrafe funzionante nella maggior parte dei paesi di origine di queste povere salme. Non ci sono registri di bordo sui barconi di quei commercianti di false speranze che sono gli scafisti, i negrieri dell’età moderna.
Eppure, una volta celebrati i funerali di Stato, la cerimonia con cui la nazione italiana tributerà l’ultimo omaggio a persone che credevano di venire qui da noi a trovare la soluzione ai loro problemi e invece hanno incontrato una fine orribile (che impedirà loro tra l’altro di scoprire amaramente che qui al massimo di problemi venivano a trovarne altri, di diverso tipo), una volta scontate tutte le strumentalizzazioni che la politica nazionale ed europea sta operando cinicamente a carico di questa sciagura e dell’inevitabile strascico emotivo lasciato tra la popolazione, bisognerà finalmente guardarci negli occhi e parlarci molto chiaramente, noi italiani, perché a prescindere da questa ultima tragedia le cose sono arrivate ad un punto oltre il quale non si può più andare avanti.
Con la consapevolezza di essere da soli, peraltro. L’Europa ha già risolto il problema dell’immigrazione, rispolverando in ciascuno dei suoi stati membri la sovranità nazionale, ivi compresa la facoltà di chiudere più o meno “garbatamente” le porte all’immigrazione dal Terzo, Quarto e Quinto Mondo. L’Italia, che una sovranità nazionale reale non l’ha mai avuta ma che in compenso ha il maggior tratto di coste esposte agli sbarchi dal mare di tutto il territorio continentale, si sta facendo trovare da anni a brache calate, divisa al suo interno, con idee contraddittorie circa l’accoglienza (per non parlare dell’asilo politico) e senza un governo degno di questo nome in grado di affrontare questo o qualsiasi altro problema come non solo Dio ma anche gli uomini (che lo eleggono) comanderebbero.
La gente di Lampedusa che ieri fischiava la proménade indigesta di Barroso e Letta ha interpretato il sentimento di una nazione, disgustata dall’essere costretta a subire quotidianamente quella che quando va bene si configura come una vera e propria invasione, senza regole e senza prospettive (per noi italiani e per gli extracomunitari), quando va male sfocia in episodi come questo, che la vox populi adirata non ha avuto peraltro torto a definire un “assassinio”.
Altro che “inadempienze”, caro presidente Letta. Qui siamo al marasma totale. Il “politicamente corretto” che è tanto in voga da vent’anni a questa parte scaglia anatemi su chi si prova a contestare il teorema in base a cui bisogna dare asilo politico ed accoglienza a chiunque, perché lo vuole la nostra Costituzione. E’ un mantra, come l’altro recitato da anni, “lo vuole l’Europa”. In questo caso l’Europa se n’è fregata, stando a vedere come se la cavavano gli italiani con i loro governicchi. Oppure ha fatto scelte politiche anche legittime, tanto che adesso il governo francese può permettersi addirittura di invocare una messa in mora per l’Italia (con relative sanzioni) per aver causato in ultima analisi questa tragedia con la sua assenza di controllo: politico, giuridico e di polizia.
Dall’altra parte del mondo, l’Australia – il paese che più civile ed avanzato non si può, patria storica dell’accoglienza e delle opportunità di rinascita “altrove”, per di più attualmente governato da una maggioranza laborista – ha recentemente votato un inasprimento delle regole per l’immigrazione, rafforzando tra l’altro la persecuzione del reato di clandestinità (quello che ieri sera il governo italiano, sulla spinta di vari settori più o meno in preda all’isteria dell’opinione pubblica, ha deliberato di cancellare con proprio decreto). Funziona così: se vuoi entrare nel Paese dei Canguri, ti presenti a Christmas Island, un isolotto a 500 km al largo di Giakarta e a 2.000 km dalla costa australiana, dove la tua domanda di immigrazione viene esaminata. Non ti provare a sbarcare sulle coste della madrepatria senza autorizzazione, perché come ha ribadito di recente il primo ministro laburista Kevin Rudd nessuno sbarco di questo genere sarà tollerato. E in un paese di cultura anglosassone sappiamo bene cosa questo possa comportare.
Negli Stati Uniti Ellis Island è stata chiusa da tempo, ma provatevi ad entrare, o a rimanere una volta entrati , senza visto di ingresso o permesso di soggiorno. In Europa, provatevi a sbarcare non autorizzati nella penisola iberica o balcanica, o sulle coste francesi. Resta la penisola italiana, con l’avamposto di Lampedusa per chi vuole fare le cose secondo un minimo di procedura, oppure con qualunque altra località di approdo, che comunque non verrà impedito da niente o da nessuno. Allora come la mettiamo? Tutti cattivi, europei, americani, australiani, e noi siamo gli unici ad avere un cuore?
Che cuore è allora quello che lascia aperta la porta di un paese che non ha più di che sfamare, tra poco, i suoi stessi cittadini? Un paese che ha una sola inadempienza nei confronti degli extracomunitari migranti, quella di non dire chiaramente che qui l’economia è a rotoli, non c’è più trippa per nessun gatto, e che a sbarcare – superati i rischi di una traversata che dai tempi di Ulisse ha sempre riservato insidie, anche quando i marinai non sono pirati – si va incontro ad un avvenire “diversamente” incerto e comunque gramo, in centri di accoglienza dello Stato le cui condizioni sono altrettanto indegne di quelle delle carceri (lamentate recentemente dal presidente della repubblica), oppure in centri di accoglienza della criminalità organizzata.
Dice, ma la Costituzione, allora? Risposta: quanti sono i paesi in guerra o in preda a convulsioni politiche e sociali tali da giustificare l’invocazione della categoria giuridica dell’asilo politico? Pochi. Molti di più sono invece i paesi dove, o per effetto di “primavere arabe” sulla cui sollevazione sarebbe stato più opportuno riflettere prima o per effetto di strutturali, endemiche condizioni di vita primitive, le popolazioni hanno un tenore di vita quale nel nostro continente non ricordiamo più dall’epoca medioevale. Il processo storico di emancipazione e di progresso  normalmente i popoli lo affrontano secondo percorsi di cui non si possono saltare le fasi fondamentali, a pena di creare benefici effimeri per tutti e disastri sociali sicuri. Certo, la televisione mostra a questa gente la facciata di un nostro tenore di vita sicuramente più appetibile, ma non mostra né cosa c’è dietro in termini di consapevolezza e di progresso culturale né quanto sia diventato precario sull’onda di una crisi economica planetaria che rende tutto più difficile, se non impossibile.
Si può strepitare quanto si vuole, chiamare cattivi senza cuore leghisti come Salvini (peraltro uno dei più ragionevoli e responsabili) e farsi incantare da sirene quali le onorevoli Kyenge e Boldrini, che non hanno – senza con questo voler affermare nessun vilipendio – la più pallida idea di cosa vuol dire amministrare un paese come quello in cui rivestono la loro carica. Di cariche dello Stato ancora più alte, meglio non parlare, sempre per non incorrere in quello che qualche anima bella potrebbe interpretare come vilipendio.
Sta di fatto che esiste un solo precedente al periodo storico che stiamo vivendo. Era il quinto secolo dopo Cristo, quando la più grande società politica e civile dell’Antichità collassò rovinosamente, per il semplice fatto di non poter accogliere e dare sostentamento entro i propri confini alla marea di popoli che premevano per entrare nel “Limes” e diventare – con le buone o con le cattive – cittadini dell’Impero Romano. Malgrado i tentativi di integrazione, il risultato fu che quel mondo sparì nel giro di pochi anni, travolto da un corto circuito culturale ed economico senza possibilità di rimedio. Per ritornare a condizioni di vita paragonabili a quelle della civitas romana, la popolazione europea ci mise poi qualcosa come mille anni.

E’ difficile dirlo in questo momento, con negli occhi quelle 280 bare allineate nell’aeroporto di Lampedusa. Ma esistono tragedie ancora peggiori di quest’ultima che ha avuto luogo nel nostro mare e che ha ributtato sulle nostre coste quei poveri corpi. L’unica cosa sicura è che questa classe politica, che noi insistiamo a mantenere per acquiescenza o supposta convenienza, non ce ne risparmierà sicuramente neanche una.

mercoledì 2 ottobre 2013

L'ultima cavalcata di Ringo

L’ultima cavalcata di Ringo non si è conclusa a Tucson, Dodge City, Laredo o in qualche altra località di quelle rese immortali dal Western all’italiana. Il suo cavallo l’ha disarcionato a Cerveteri in provincia di Roma, dove viveva con la moglie, la giornalista RAI Baba Richerme e due figlie. Giuliano gemma è morto ieri all’ospedale di Civitavecchia dove era giunto in fin di vita a seguito di un grave incidente stradale occorsogli presso la cittadina laziale. Nell’incidente sono rimaste coinvolte altre due persone, le cui condizioni non sono gravi.
L’attore aveva 75 anni, era nato a Roma il 2 settembre 1938. Al cinema aveva cominciato giovanissimo. Pur desiderando diventare uno sportivo, in realtà la sua carriera aveva preso le mosse da Cinecittà, la Hollywood sul Tevere degli anni cinquanta, dove Giuliano spesso era stato impiegato come stunt-man, e a volte come comparsa, nei kolossal storici in voga in quegli anni, i cosiddetti “peplum”, o volgarmente “sandaloni”, i film in costume. La comparsata da centurione in Ben Hur di William Wyler aveva segnato il suo debutto nella recitazione. Il suo primo personaggio da protagonista era stato poi l’eroe epico Maciste.
Sul set di uno di questi sandaloni incontrò Duccio Tessari, regista destinato a fama e successo, che lo lanciò definitivamente nel film Arrivano i Titani. Lì fu notato anche da Luchino Visconti che lo volle nel suo Gattopardo, nel ruolo del generale garibaldino amico di Tancredi interpretato da Alain Delon. Dopo la serie di Angelica, tratta dai romanzi dei coniugi Golon, arrivò la consacrazione definitiva con gli spaghetti western. Duccio Tessari, Sergio Corbucci, Tonino Valerii lo consegnarono alla leggenda del cinema italiano ed internazionale dapprima con il nome d’arte di Montgomery Wood e poi con il suo proprio. Giuliano Gemma resterà sempre nell’immaginario collettivo come Ringo, il cavaliere solitario di Un dollaro bucato e di tante altre avventure nel Far West del nostro immaginario.
Negli anni settanta arrivò anche la consacrazione in un cinema più impegnato. Nel 1976 Valerio Zurlini lo volle nel ruolo del fanatico Maggiore Matis nell’adattamento del Deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Seguirono altri film di grande spessore come Un uomo in ginocchio di Damiano damiani ed Il Prefetto di ferro di Pasquale Squitieri, probabilmente la sua interpretazione più forte e suggestiva.
Negli anni 80, dopo Tenebre di Dario Argento, altri due capisaldi della sua carriera: la divertentissima commedia di Mario Monicelli Speriamo che sia femmina, in cui interpreta il ruolo di Guido Nardoni, il fattore/amante di Elena/Liv Ullmann (“chi vende, unn’è più suo!”), e poi il ritorno al vecchio amore, il western, nei panni dell’eroe per antonomasia, il ranger Tex Willer in Tex ed il Signore degli Abissi.
Dopo Tex, dopo l’apoteosi conseguita interpretando finalmente un personaggio inseguito per 30 anni, fu come se al cinema avesse dato tutto e dal cinema tutto avesse ricevuto, e si era dedicato soprattutto alle fiction televisive. Nella sua bacheca faceva bella mostra un David di Donatello, un Globo d’oro ed un Nastro d’argento alla carriera (oltre 100 film interpretati) e tre Premi de Sica. A 75 anni conservava un aspetto estremamente giovanile. Al Giffoni Film Festival, nel luglio scorso, gli avevano chiesto qual era il suo segreto per non invecchiare mai. La sua risposta era stata “l’entusiasmo per la vita, l’interesse per tante cose (aveva l’hobby della scultura, n.d.r.) e soprattutto la passione, una grande passione”.

I lunghi giorni della vendetta sono ormai finiti, riposa in pace Ringo. Sei stato un grande personaggio, e soprattutto una bella persona.