martedì 29 gennaio 2013

LA NOTTE DELLA REPUBBLICA: Ustica, il Muro di Gomma è crollato. Lo Stato risarcirà le famiglie delle vittime



Trentatre anni. Tanti ce ne sono voluti perché la frase fatidica fosse scritta sui un documento ufficiale di un organo istituzionale della Repubblica Italiana, la sentenza con cui ieri la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato dai Ministeri della Difesa e dei Trasporti avverso la condanna a risarcire i parenti delle vittime della strage del 27 giugno 1980 sul tratto di mare compreso tra Ponza e Ustica.
La sentenza è quindi passata in giudicato, è definitiva. La frase che contiene, altrettanto definitiva, incancellabile, inappellabile, è quella che abbatte una volta per tutte il muro di gomma creatosi attorno alla strage e alle sue responsabilità, già all’indomani di quell’ormai lontana tragedia: a causare l’esplosione del DC9 Itavia decollato alle 20,08 da Bologna e di cui alle 20,59 i controllori di volo persero le tracce sopra Ustica, ha detto la Terza sezione civile della corte di Cassazione, fu un missile e non un’esplosione interna, un cedimento strutturale, come hanno sempre sostenuto le autorità militari e civili dello Stato, e come nessuno fino ad oggi aveva avuto la possibilità di smentire.
Adesso lo fa la Corte Suprema, squarciando il velo su quello che è stato uno dei più incredibili misteri di quella che Sergio Zavoli definì la Notte della Repubblica, il lungo periodo delle stragi senza risposta, da Piazza Fontana alla strage di Natale del rapido 904. In questo panorama di enigmi ricoperti di sangue, quella di Ustica è sempre stata una strage particolare. Fu chiaro da subito che il terrorismo non c’entrava nulla, che l’evento aveva avuto luogo semmai in un contesto che vedeva in gioco le forze armate di diversi paesi in un teatro estremamente delicato quale il Mediterraneo centrale, nonché i delicati equilibri di un mondo allora prigioniero della Guerra Fredda e dei rapporti altrettanto conflittuali fra oriente arabo e occidente cristiano. Fu altrettanto chiaro che la ricostruzione offerta all’opinione pubblica dalle autorità non convinceva, ed era semmai dettata da quella che era (e sarebbe rimasta fino ad oggi) una ragion di stato inconfessabile.
Un giovane Emilio Fede dà la notizia della strage al TG1
La tesi del cedimento strutturale sostenuta dal Governo italiano fu presto messa in discussione pesantemente dalle varie perizie eseguite più o meno ufficialmente, e dal lavoro di alcuni giornalisti coraggiosi, tra cui quell’Andrea Purgatori del Corriere della Sera che è stato interpretato dal compianto Corso Salani nel Muro di Gomma di Marco Risi, il film che nel 1991 effettuò una precisa e drammatica ricostruzione della tragedia, dei successivi dieci anni di indagine, delle prime verità emerse e della fatica per farle emergere, tra minacce, incidenti e umiliazioni subite da chi lottava per onorare almeno la memoria delle 81 vittime (tra cui 13 bambini), parenti o addetti ai lavori che fossero.
Molte cose tra quelle successe dopo la strage contribuirono infatti ad aggiungere mistero al mistero: dal caccia libico la cui caduta sull’Aspromonte fu evidentemente posticipata di un paio di mesi, alle
misteriose sparizioni a seguito di incidenti fortuiti di quasi tutti i testimoni dell’incidente, soprattutto il personale in servizio presso le sale controllo di Marsala e Palermo, alle minacce anonime ma non troppo ricevute da Purgatori e da altri, al muro di omertà e rigetto trovato dai parenti delle vittime presso le stesse istituzioni italiane, all’affidamento del recupero dei relitti dell’aereo ad una ditta francese, la Ifremer, quando già si erano diffuse voci di un coinvolgimento della stessa Francia nell’incidente, alla conturbante presenza della portaerei americana Saratoga nel porto di Napoli la notte del 27 giugno (ma - si badi bene la coincidenza - con tutti i radar inspiegabilmente fuori uso per manutenzione), al clamoroso contrasto tra le risultanze delle indagini della procura di Palermo e del giudice Rosario Priore prima e della Commissione Stragi di Libero Gualtieri poi, che suggerivano con evidente verosimiglianza una responsabilità ascrivibile ad azioni militari (in altre parole, all’abbattimento del DC9 Itavia da parte di un missile) e che tuttavia si arrendevano di fronte all’impotenza ad andare oltre nell’accertamento delle responsabilità accettando un non luogo a procedere forse peggiore dello stesso muro di gomma messo su da chi quelle responsabilità voleva nasconderle.
Il DC9 Itavia ricostruito dopo il recupero in mare
Dopo il film di Risi e Salani, non fu più possibile per l’opinione pubblica italiana e per le istituzioni mentire a se stesse, e la tesi del missile sparato da un aereo militare durante una vera e propria azione di guerra svoltasi sui cieli italiani acquistò sempre più fondamento, anche se una vera e propria azione penale nei confronti di chicchessia non è mai stata intentata. Ai parenti delle vittime non restò altro che l’azione civile contro lo Stato, per ottenere un risarcimento sicuramente più morale che materiale, motivato dall’omissione di una condotta tesa ad assicurare la sicurezza nel cielo ai velivoli dell’aviazione civile. In altre parole, il DC9 come qualunque altro velivolo non avrebbe dovuto esser stato fatto transitare in un corridoio aereo dove era in svolgimento una qualunque azione di tipo militare, sia di esercitazione che realmente operativa.
Si è sicuramente trattato della solita via traversa all’italiana, secondo cui una verità così scottante non può mai essere accertata per la strada principale ma deve emergere in modo accessorio, attraverso procedimenti tardivi e che comunque non investono il nocciolo della questione, lasciando intatte le responsabilità personali e collettive.
Tuttavia, confermando la sentenza della corte d’Appello di Palermo, la Cassazione ha stabilito che lo Stato risarcirà i familiari delle vittime, anche oltre il milione e 240 mila euro già concessi, riconoscendo finalmente la ragione delle vittime. Anche se né lo Stato né nessun altro soggetto, nazione o individuo, sono mai stati individuati come colpevoli di quanto successe ad Ustica. Neppure le ammissioni dell’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, all’epoca dei fatti Presidente del Consiglio, che nel 2007 dichiarò esplicitamente che la colpa della strage era da attribuire ad un missile lanciato da un aereo militare francese secondo quanto riportatogli dai servizi segreti italiani, hanno costituito la base per una azione penale o quantomeno per il sollevamento in sede internazionale della questione tra Stati.
E’ una amara vittoria per le famiglie delle vittime, quindi. E per chi ha lottato per buona parte della sua vita (o magari ce l’ha rimessa) per far sì che questa verità scomoda venisse fuori. Nel frattempo, oltre alle 81 vittime e a molti dei loro familiari, non ci sono più molti attori della vicenda, e lo stesso quadro internazionale è profondamente cambiato, con la deposizione sanguinosa di quel Muhammar Gheddafi che tutti ormai indicano come il bersaglio di quel missile che doveva toglierlo di mezzo con 31 anni di anticipo, e che invece andò a impattare sul volo tranquillo di 81 persone che nessuno aveva avvisato di essere finite in mezzo ad una guerra. 43 dei quali giacciono per sempre sul fondo del Mar Tirreno.
Una vittoria amara, ed una sensazione per descrivere la quale ricorriamo ancora una volta a Marco Risi ed alle immagini finali del suo Muro di Gomma, con Andrea Purgatori/Corso Salani che detta la sua notizia con la voce rotta dall’emozione, senza trionfo ma solo con stanchezza e tristezza, e poi la voce fuori campo che elenca il nome e cognome degli 81 passeggeri.




martedì 15 gennaio 2013

LA NOTTE DELLA REPUBBLICA: Muore Prospero Gallinari. Con lui se ne vanno i Misteri d'Italia



«Eravamo in guerra, come quei poveri ragazzi mandati in Vietnam. Il contesto nazionale e internazionale era questo. Tutto è partito dal movimento operaio. Alle nostre manifestazioni per una migliore condizione sociale, contro la disoccupazione, lo Stato ha risposto con le azioni di polizia, con le cariche. Le forze reazionarie hanno risposto con la strage di Piazza Fontana. A quel punto, non potevamo fare altro, a nostra volta, che rispondere con le armi. Una vera e propria dichiarazione di guerra».
Raccontava così Prospero Gallinari la storia sua e di una intera generazione che aveva visto trasformarsi gli anni più verdi, quelli che dovrebbero essere i più spensierati, in Anni di Piombo. E’ morto ieri mattina stroncato dall’ultimo e più grave di una serie di attacchi di cuore mentre usciva dal garage dell’abitazione dove da qualche anno scontava il resto della sua pena (trasformata da ergastolo in arresti domiciliari per motivi di salute) l’ex leader delle Brigate Rosse che non si era mai pentito, l’irriducibile ex-operaio passato alla lotta armata che era arrivato a diventare il capo militare della Stella a Cinque Punte.
Aveva 62 anni, 36 dei quali li aveva trascorsi tra carcere e arresti domiciliari, dai quali negli ultimi anni aveva il permesso di uscire per recarsi al lavoro nella ditta che l’aveva assunto come autista a Reggio Emilia, dove abitava attualmente. Era nato nel 1951 proprio a Reggio Emilia, da famiglia contadina e di idee comuniste, in una terra dove era rimasta viva più che altrove la memoria della lotta partigiana e dove il vento della ribellione alla fine degli anni sessanta soffiava inevitabilmente più forte. Iscritto giovanissimo alla FGCI, il giovane operaio Gallinari era uscito presto dal Partito Comunista Italiano, ritenendo come tanti giovani militanti di allora insoddisfacente e insufficiente la linea legalitaria adottata dai dirigenti di allora.
Proprio in provincia della sua città, a Pecorile, nel 1970, si era costituita una formazione politica estremista con ambizioni paramilitari destinata presto a diventare la più famosa, o famigerata, di tutte: le Brigate Rosse. Prospero Gallinari era stato tra i fondatori insieme a Renato Curcio, Alberto Franceschini, Roberto Ognibene, Mario Moretti, Adriana Faranda. Dopo un breve periodo di dissidenza, era rientrato nel gruppo ormai consacratosi al terrorismo puro, sotto la direzione di Moretti che aveva rilevato i leader più politici Curcio e Franceschini nel frattempo arrestati, e giusto in tempo per partecipare al rapimento del giudice Mario Sossi, uno dei primi sequestri spettacolari operati dall’organizzazione contro esponenti dello Stato. Gallinari, che nel sequestro e in altre operazioni di commando aveva già messo in luce le sue qualità di capo militare (in sintonia con la leadership politica di Moretti e Faranda), venne arrestato una prima volta a fine 1974.
Nel 1976, al processo di Torino dove si giudicavano i Capi storici BR, Gallinari si mise in mostra leggendo il volantino con cui si rivendicava l’omicidio del procuratore di Genova Francesco Coco ad opera di una colonna dell’organizzazione rimasta in clandestinità. Nel 1977 riuscì ad evadere
dal carcere di Treviso e da quel momento di lui si persero le tracce. Fino al 15 marzo 1978, quando riapparve agli onori della cronaca nel modo più drammatico.
Gallinari fu infatti il leader del commando che in Via Fani rapì il segretario della Democrazia Cristiana Aldo Moro (mentre si sta recando in Parlamento per ricevere il voto di fiducia al suo governo che per la prima volta avrebbe dovuto avere l’appoggio del Partito Comunista, il Compromesso Storico), e ne massacrò la scorta. Da quel momento, e per i fatidici 55 giorni, Gallinari insieme a Moretti, Anna Laura Braghetti (che poi avrebbe sposato in carcere) e – pare – Germano Maccari, fu uno dei carcerieri dello statista, e probabilmente quello che lo giustiziò il 9 maggio, nel bagagliaio della R4 poi ritrovata in Via Caetani, al termine dello psicodramma collettivo che cambiò per sempre la storia d’Italia.
Catturato nel 1979 dalla polizia al termine di una sparatoria a Roma nella quale venne gravemente ferito alla testa, riuscì a sopravvivere e ad affrontare il processo che nel 1983 lo condannò all’ergastolo insieme ai suoi compagni. Nello stesso anno subì il primo della serie di infarti che si è conclusa ieri.
Prospero Gallinari è sempre stato uno degli irriducibili delle Brigate Rosse, uno di quelli che non si è mai pentito e non è mai venuto a patti con lo stato, confessando alcunché di tutto ciò di cui era a conoscenza relativamente al periodo della lotta armata. Nel 1988 decise di unirsi allo storico documento con cui Curcio, Moretti ed altri riconoscevano che “la lotta armata è finita e lo Stato ha vinto”, ma senza alcuna concessione al pentimento né desiderio di fare chiarezza circa le responsabilità sue e dei suoi compagni negli eventi drammatici degli Anni di Piombo. Pochi anni dopo, Mario Moretti lo scagionò circa l’esecuzione materiale del delitto Moro assumendosene le responsabilità, ma pare che quel gesto fosse dettato dal tentativo di favorire l’uscita dell’amico e compagno dal carcere, per motivi di salute. Uscita che fu poi accordata nel 1996 con la sospensione della pena e la concessione degli arresti domiciliari.
Con la sua scomparsa, si riducono ulteriormente le possibilità per la giustizia italiana di far luce sul periodo più controverso della storia d’Italia contemporanea, ed in particolare sul sequestro e l’uccisione di Aldo Moro. Era veramente lui l’Ing. Altobelli che aveva preso in affitto l’appartamento di Via Montalcini in cui lo statista fu tenuto prigioniero? C’era veramente qualcun altro la mattina del 15 marzo 1978 in Via Fani insieme agli uomini delle Brigate Rosse capitanati da Gallinari? Chi ha bruciato o fatto sparire le carte di Moro conservate nel covo, e che cosa contenevano esattamente? E infine, la domanda più importante di tutte, che cosa sono state esattamente le Brigate Rosse? L’organizzazione terroristica che tenne in scacco lo Stato italiano per più di dieci anni nel tentativo idealistico e ideologico di riprendere e portare a compimento una lotta partigiana che si riteneva fosse stata interrotta troppo presto? O una pedina più o meno consapevole su una scacchiera e in un gioco in cui la posta era molto, ma molto più alta, attraversando addirittura i destini stessi dell’Occidente? Chi armò veramente la mano che sparò ad Aldo Moro, di Gallinari o di chiunque altro fosse?
Queste sono le domande a cui adesso si trova a rispondere Prospero Gallinari, davanti al Tribunale a cui si è presentato ieri, alla fine di una delle tante vite spezzate o distorte vissute in quei terribili e incomprensibili anni 70. Chissà se almeno per un attimo, in questi 62 anni in cui ha vissuto (molti di più di quelli che ha concesso a tante sue vittime), ha avuto un attimo non si dice di pentimento, ma almeno di dubbio. Su quei segreti di stato che si è portato con sé per sempre.

Prospero Gallinari e Mario Moretti