giovedì 20 marzo 2014

RENZIADE: La Procura indaga sull'affitto di Renzi


La Procura della Repubblica di Firenze ha aperto un fascicolo per fare luce nei rapporti tra il Presidente del Consiglio Matteo Renzi e Marco Carrai, imprenditore fiorentino notoriamente legato al premier che qualcuno già definisce “il Gianni Letta di Renzi”. Carrai risulta aver pagato, dal 14 marzo 2011 al 22 gennaio scorso, l’affitto dell’appartamento di via degli Alfani 8, nei pressi di palazzo Vecchio, dove viveva l’ex sindaco di Firenze.
L’obiettivo della Procura in particolare è quello di stabilire se Carrai abbia ottenuto favori in cambio del pagamento degli affitti del Sindaco. Per il momento non sono state formulate ipotesi di reato, né sono state iscritte persone sul registro degli indagati. Giuliano Giambartolomei, procuratore aggiunto di Firenze, intenderà semplicemente accertare che non sia stato danneggiato in alcun modo l’interesse pubblico.
Matteo Renzi aveva trasferito la residenza a Firenze all’inizio del suo mandato di Sindaco, dopo averla avuta a Pontassieve. Nei primi tempi, aveva vissuto in una mansarda nei pressi di Palazzo Vecchio, il cui affitto tuttavia sarebbe stato proibitivo anche per il suo stipendio. Ecco allora intervenire Carrai, che avrebbe -  secondo quanto ricostruito dai mezzi di informazione – offerto al Sindaco di pagare l’affitto del nuovo appartamento via degli Alfani, prima ammontante a 900 euro, poi a 1.200.
Proprietario dell’appartamento è Alessandro Dini, consigliere d’amministrazione della Rototype, il cui sito web è stato realizzato dalla Dotmedia, l’agenzia di comunicazione di cui è socio anche il cognato di Renzi. Marco Carrai, imprenditore alla guida in passato di una società partecipata del Comune, la Firenze Parcheggi, è oggi presidente di ADF, società che gestisce l’aeroporto di Firenze. Carrai è inoltre socio della C&T Crossmedia, azienda operativa nel campo multimediale che si è aggiudicata un appalto del comune per l’organizzazione di un servizio per visitare Palazzo Vecchio con la guida di un tablet interattivo. Per ogni dispositivo noleggiato dai turisti, la C&T riceve una percentuale.

Da questo complesso di rapporti deriva evidentemente l’interesse della Procura della Repubblica per la situazione abitativa del Presidente del Consiglio negli ultimi tempi del suo mandato di amministratore del capoluogo toscano.

mercoledì 19 marzo 2014

RENZIADE: Rossi sfida Renzi e dice no all'Europarlamento


Aria di resa dei conti nel Partito Democratico toscano. Se nel Centrodestra la situazione vede un leader, Silvio Berlusconi che vorrebbe tanto candidarsi alle prossime europee per riguadagnarsi uno status di parlamentare malgrado l’ennesimo stop impostogli dalla Corte di Cassazione (che ha confermato ieri i due anni di interdizione), nel Centrosinistra si va verso uno scontro al vertice, una vera e propria sfida all’OK Corral.
Il segretario premier Matteo Renzi ha offerto una candidatura “blindata” alle prossime elezioni europee al governatore della Toscana Enrico Rossi, personaggio evidentemente sempre più scomodo nel quadro politico locale e nazionale malgrado le recenti svolte tattiche e gli apparenti accordi intercorsi tra Roma e Firenze, o per meglio dire tra Roma e Pontedera, visto che ormai Rossi nel partito toscano riscuote un credito sempre più minoritario, come le primarie nazionali stesse hanno dimostrato.
Per Renzi si tratta di liberarsi di una figura ingombrante, che si porta dietro un modello di gestione – ed una gestione concreta – sicuramente deficitario dal punto di vista sia economico che amministrativo, al netto delle questioni ancora aperte presso varie procure della repubblica. Si tratta altresì di pacificare il proprio partito nella propria terra d’origine, visto che alcune sacche di resistenza “bersaniane” (tra cui lo stesso governatore Rossi, in modo talvolta celato talvolta palese) permangono, come hanno dimostrato alcune recentissime consultazioni elettorali primarie minori, ma non per questo da sottovalutare.
Alla “renziana” Stefania Saccardi, insediatasi da poco meno di un mese nella carica di vicepresidente della Giunta regionale, con delega al welfare e al sociale, sono bastati pochi “giri di valzer” con i vertici dell’amministrazione per rendersi conto che le condizioni in cui versa quest’ultima sono drammatiche, con un bilancio per niente risanato e con politiche da ridisegnare completamente, in linea con i nuovi indirizzi impressi dal neo-leader alla politica nazionale.
Ecco allora che a quest’ultimo è riapparsa appetibile la scelta di favorire un’uscita di scena soft per il principale “oppositore interno”, sotto forma di candidatura alle prossime europee, con dimissioni ovviamente immediate per favorire l’inserimento dello stesso Rossi nell’apposita lista e conseguente voto anticipato a ottobre.
Il governatore ha esitato per qualche ora, per poi trarre nuova linfa e ulteriore vis polemica dalle sopra citate consultazioni che hanno visto un timido rialzar la testa degli anti-renziani. E ieri ha comunicato a gran voce, il suo niet. “Resto governatore, sono in tanti a chiedermelo.” C’è da crederci, tutto l’establishment che ha governato insieme la “cosa rossa” e la Toscana in questi ultimi anni non vuole arrendersi al rottamatore, e vede nel governatore l’ultima “ridotta” in cui resistere, in attesa di tempi migliori.
Una politica di ispirazione d’alemiana che nell’immediato proietta il PD toscano nell’atmosfera di un film western. Quella di Rossi a Renzi è una vera e propria sfida all’OK Corral. L’appuntamento a questo punto non è più a ottobre ma a febbraio, scadenza naturale della legislatura. La domanda è se questa sfida ha possibilità di successo, qualcuno dice che un anno è lungo anche per Renzi, altri sottolineano l’investitura della Merkel come una definitiva investitura papale di stampo medievale. L’altra domanda è in che condizioni arriverà la Toscana alla primavera del 2015. ma di questo è probabile che nelle segreterie locali del PD neanche si discuta.

sabato 8 marzo 2014

Afghanistan, crocevia degli Imperi

L’Afghanistan, data la sua posizione geografica, è stato da sempre uno dei corridoi del mondo. Crocevia per le grandi religioni, le grandi civiltà, i grandi imperi, per tutte le razze, tutte le ideologie e le arti, da Alessandro il Macedone ai Mongoli, ai Russi, agli Inglesi nell’800, l’Hindukush è sempre stato la posta di un gran gioco, ed è ancora così.
Gli Afghani avevano già conosciuto la memorabile vendetta di Gengis Khan, quando i Mongoli sgozzarono ogni essere umano e sradicarono ogni pianta ed ogni albero. Lottarono contro gli Inglesi per più di sessanta anni per difendere la loro indipendenza, che finalmente arrivò nel 1921. Il primo bombardamento nella storia dell’aviazione inglese, nel 1919, fu su Kabul e la sua popolazione civile.
Dal 1953 al 1963 Daud attuò per un decennio una politica del terrore eliminando gli oppositori e imprigionando i primi intellettuali. Dal 1979 al 1989 l’Afghanistan fu occupato da truppe sovietiche, ma la guerra civile continuò fino al 1991. Nel 1992 i Mujaheddin rovesciarono il governo filosovietico di Najibullah ed elessero presidente Burhanuddin Rabbani.
Nel 1994 si affacciarono sulla scena i Talebani, che nel 1996 riuscirono a conquistare Kabul, imponendo la legge coranica ed avviando una campagna iconoclasta tesa a cancellare ogni traccia del passato preislamico dell’Afghanistan. La distruzione dei Buddha di Bamjan sono solamente la parte più visibile di una distruzione capillare.
Il 9 settembre 2001 Massud, capo carismatico dei Mujaheddin dell’Alleanza del Nord e dell’opposizione ai sovietici prima e ai Talebani poi, muore in un attentato suicida lasciando un vuoto nella leadership afghana. L’11 settembre è storia contemporanea e ben conosciuta. Nell’ottobre dello stesso anno il regime talebano, ritenuto corresponsabile degli attentati terroristici a New York e contro il Pentagono, viene fatto oggetto di una vasta campagna militare da parte degli Stati Uniti e dei loro Alleati.
Nel dicembre 2001 la coalizione occidentale e le milizie locali dell’Alleanza del Nord riconquistano Kabul costringendo il governo dei Talebani ad abbandonare la capitale. Da quella data, l’Afghanistan sta faticosamente ricostruendo l’intero paese per ritornare, se possibile, ad un’esistenza normale. Ad ottobre 2003 ci sono state le prime elezioni democratiche dopo decenni di dominazione, con le quali è stato eletto presidente Hamid Karzai, tutt’ora in carica.
Per chi volesse approfondire la storia afghana, consigliamo Il grande gioco di Peter Hopkirk (Adelphi Edizioni), e Massud il leone del Panjshir di Michael Barry (Edizioni Ponte alle Grazie).

8 marzo, le donne dimenticate

 di Paola Stillo

Afghanistan, paese che evoca in molti immagini di guerra, di mine antiuomo, di terroristi, di Talebani dalle lunghe barbe, di bourqa azzurri al di sotto dei quali le donne vivono la loro “non condizione femminile”.
Eppure l’Afghanistan non è solo questo, è un paese ricco di storia e di cultura, di paesaggi magici nonostante la distruzione, dove ad ogni stagione dell’anno sembrano darsi ritrovo i più grandi pittori, da Van Gogh a Renoir, da Houssaki a Brugel in una gara interminabile di immagini e di colori. Di gente fiera e generosa, con un senso dell’umorismo che più di trenta anni di guerra non sono riusciti a spegnere.
La mia esperienza in questo paese è iniziata nel febbraio 2003 ed è continuata per altri quattro anni. Insieme ad una collega ostetrica ci siamo occupate dell’apertura di un ospedale materno infantile di Emergency a nord di Kabul, nella valle del Panjshir. Per poter capire almeno in parte il popolo afghano bisogna conoscere le sue vicende e la sua storia così drammaticamente crudele e sanguinosa.
Lavorare in questo contesto, soprattutto all’inizio, non è stato facile, anche se ormai questo paese e la sua gente sono entrati nei nostri cuori e nel lasciarlo parte di noi è rimasta nelle sue valli, con le donne e gli uomini che hanno condiviso insieme a noi questa meravigliosa esperienza.
I problemi che abbiamo dovuto affrontare sono stati molti sia dal punto di vista professionale e tecnico sia da quello umano e relazionale. Il lavoro più importante abbiamo dovuto farlo su noi stesse: formare donne afghane a prendersi cura di altre donne afghane, parlare loro di maternità e di sessualità. Per farlo, bisognava “capire”, uscire dal nostro vissuto di donne europee, emancipate, libere ma spesso frustrate, ed immergerci lentamente ma profondamente nella condizione femminile afghana.
Condizione precaria, caratterizzata da anni di guerra, da un sistema scolastico spesso inesistente, da un regime talebano che vietava alle donne il diritto di esistere, obbligate a nascondersi, a non uscire, a non lavorare. Ed è proprio con queste donne che abbiamo iniziato un periodo di formazione per l’assistenza di base ostetrica e neonatale.
Pur occupandomi da tempo di formazione di personale sanitario, mi sono resa conto per la prima volta che la definizione degli obiettivi formativi, così cari ai formatori, non può prescindere dalla trasmissione di valori e che questi ultimi non sono universalmente gli stessi.
Come si fa a parlare a queste donne della magia della maternità, di questo legame speciale che unisce madre e bambino ancora prima della nascita? Della preparazione al parto? Del prendersi cura del proprio corpo durante la gravidanza? Ma anche semplicemente del “prendersi cura”, del rispondere ai “bisogni della persona”!
Il “prendersi cura” per queste donne significa svegliarsi alle quattro del mattino, prendersi cura degli animali, raccogliere la legna ed accendere il fuoco, preparare da mangiare, raggiungere il fiume per raccogliere l’acqua, lavorare nei campi. Significa occuparsi degli anziani della famiglia (quella del marito), del marito, dei figli: figli ovviamente non desiderati o programmati, ma “dovuti”, e così è un susseguirsi di gravidanze, aborti spontanei e mortalità materna ed infantile tra le più alte al mondo.
Ancora oggi, la professione infermieristica si porta appresso un’immagine legata al femminile, al ruolo della donna nella cura e nell’assistenza, ma anche alla corporeità, perché è sul corpo, sui suoi vissuti e sui suoi prodotti che l’infermiere opera. Stranamente, ma neanche tanto se si pensa alla condizione di isolamento della maggior parte delle donne, il “mondo infermieristico” afghano è un dominio maschile. Nella cultura afghana, la corporeità e la fisicità sono vissute in maniera repressiva, basti pensare all’obbligo delle donne di coprirsi, ma anche agli stessi uomini ai quali è imposto ad esempio un abbigliamento che copra braccia e gambe ed ai bambini che seguono le stesse regole valide per gli adulti.
Ecco allora che diventa difficile “insegnare ad assistere” in un mondo di rigide regole comportamentali, che a volte si possono infrangere ma non si sa mai quando. Un uomo, in questo caso un infermiere, non può toccare una donna, ma questa regola non vale nel caso del pronto soccorso o della sala operatoria; eppure non può inserire un catetere vescicale o assistere durante un parto precipitoso o semplicemente eseguire l’igiene personale di una paziente allettata.
Vi è una netta separazione tra quello che è ospedale e malattia, e quindi sottoposto a concessioni, e quello che è normalità, vita quotidiana. La maternità, ovviamente e sfortunatamente, appartiene a quest’ultima sfera. Sfortunatamente perché non si possono infrangere le regole sociali, e così nel nostro ospedale non era consentito l’ingresso di nessun uomo se non per casi di emergenza, che diventavano “malattia”.
Trovare 32 donne con un minimo di istruzione (mediamente l’equivalente della nostra III media in termini di durata degli studi), iniziare con loro un percorso formativo che affrontava argomenti non di uso comune (ricordo come arrossivano tutte quando si parlava di mestruazioni), abituarle ad infrangere alcune regole (eseguire l’igiene intima, per esempio) è stata, non solo come formatore, una sfida.
Eppure lentamente, conquistando a poco a poco la loro fiducia, accendendo la loro curiosità ma soprattutto attingendo a quella complicità che nasce tra donne, fatta di affetto, di comprensione, di simpatia, siamo riuscite in un anno a formare un team capace di erogare autonomamente assistenza di base ostetrica, infermieristica e neonatale. La struttura ospedaliera era arrivata a visitare circa quattrocento donne al mese (visite prenatali e ginecologiche), con una media di settanta ricoveri e cinquanta parti al mese.
Il personale locale adesso è in grado di effettuare un triage ambulatoriale, prendersi carico della donna in travaglio e seguirla durante il parto, gestire il post-operatorio e la degenza ginecologica. Alcune di queste donne sono state addestrate da un’infermiera di sala operatoria e “strumentano” in maniera autonoma i principali e più frequenti interventi quali cesarei, isterectomie, raschiamenti. Dal giugno del 2003, quando la Maternità è stata ufficialmente aperta ad oggi, sono nati nel Panjshir circa ventiduemila bambini, una media di oltre duemila l’anno, e più di 175.000 donne si sono rivolte al Centro di Maternità per essere curate e assistite.
Quelle donne afghane che dal 2003 con determinazione e coraggio, superando numerosi ostacoli, hanno affrontato quell’esperienza formativa, hanno continuato nel loro cammino “rivoluzionario” contagiando così altre donne nell’acquisire il diritto ad essere curate, ascoltate, ad esistere!

Mi piace ricordare una frase citata da uno dei miei studenti del passato: “Chi educa un uomo educa una persona, chi educa una donna educa una generazione”.

venerdì 7 marzo 2014

L'album dei ricordi

A dar retta, quasi ogni giorno ci sarebbe una ricorrenza. Sarà che si invecchia, i giorni dietro le spalle sono molti di più di quelli ancora davanti, le cose accumulate sono tante, le persone da ricordare anche. Immagini e musica che scorrono, e che ogni tanto, anche da prima che esistessero i social network, viene voglia di fermare su un singolo fotogramma. Finché, passato il giorno fatidico, è ora di riporre la foto nell'album, fino all'anno prossimo...
Poi ci sono le ricorrenze che ti toccano personalmente. La prima settimana di luglio, per esempio, è sempre stata fatidica per me. Mio nonno e mio padre festeggiavano il compleanno a pochi giorni di distanza. Marzo e aprile, idem. Mia nonna e mio padre se ne sono andati lo stesso giorno, il 7, a 35 anni e un mese di distanza. Della nonna mi ricordo poco, mi ricordo che mi aveva insegnato le preghiere della sera, tra cui quella per i morti:
L’eterno riposo dona loro, Signore/Risplenda per essi la luce perpetua/Riposino in pace/Amen”.
Ora che non ci sono più, mi rendo sempre più conto che è vero il detto, "finché son vivo io, son vivi anche loro". Se Dio vorrà, tra un anno foto, musica e ricordi torneranno fuori per celebrare nient'altro che il fatto che siamo stati vivi un anno di più. E che vita.
Mio figlio ha 20 anni. La vita continua, tra un po’ i ricordi saranno tutti suoi. Quando io non ci sarò più, l’album  passerà a lui, e chissà cosa vorrà tenerci dentro.
All'anno prossimo, se Dio vorrà.

mercoledì 5 marzo 2014

John Belushi, dal Gruppo Delta all'eternità

«La scena è il solo posto dove sono consapevole di quello che sto facendo». Con queste parole emblematiche definiva se stesso e la propria breve ma intensa vita John Adam Belushi, nato a Chicago il 24 gennaio 1949 da immigrati albanesi (il cognome originario era Bellios) che si erano specializzati nella ristorazione, e avevano avuto successo, tanto che il giovane John Adam era potuto andare al college.
Alla Wheaton Central High School mise subito in mostra le sue doti istrioniche, divenendo ben presto popolare come il simpaticone della scuola, e scoprì anche quelle che sarebbero rimaste le sue grandi passioni per tutta la vita: il football americano, la batteria e la recitazione in teatro.
Capitano della squadra del college, batterista ricercato da tutti i complessini giovanili, attore comico che faceva furore nelle recite scolastiche, fu in quest’ultima delle sue attività predilette che decise di provare a sfondare. Dopo il diploma, dovette scegliere tra due borse di studio, una per il football e una per il teatro. Scelse la seconda, e si consegnò alla leggenda.
La prima volta che salì agli onori della cronaca fu nel 1968, quando partecipò a quelle manifestazioni a Chicago contro la Guerra del Vietnam che furono brutalmente represse dalla polizia. John fu tra i manifestanti travolti dai gas lacrimogeni e dalle manganellate, e pare che fosse ben riconoscibile in alcuni filmati d’epoca. A vent’anni, oltre a maturare un pacifismo convinto, aveva già acquisito tutte le esperienze fondamentali che avrebbe trasferito nei film che lo avrebbero reso immortale.
Nella prima metà degli anni settanta, il maggiore dei fratelli Belushi (nel frattempo erano nati anche i fratelli James – che sarebbe diventato famoso seguendo le sue orme - e William) si fece un nome e delle ossa sempre più robuste nell’ambiente teatrale americano, fino a quello che sarebbe risultato l’incontro decisivo della sua vita. A Los Angeles incontrò un altro fuoriclasse emergente della comicità, quel Dan Aykroid con il quale di lì a poco avrebbe messo a punto lo spettacolo di successo che gli avrebbe dato la vera notorietà, nonché il lancio nel firmamento delle stelle di Hollywood.
Il Blues Brothers Show nacque come una delle tante parodie in cui i due ragazzi terribili si cimentavano ai margini del Saturday Night Show della NBC. In realtà, la vicenda dei fratelli Blues vestiti di nero che cercano di "rimettere in piedi la Banda" attingeva direttamente ai ricordi di John Belushi circa la vita di quartiere a Chicago nella sua giovinezza. Fu un successo talmente clamoroso da spingere un regista anch'egli emergente come John Landis a farne un film, che a sua volta d ivenne una pietra miliare nella storia del cinema e della comicità mondiale, oltre che uno splendido musical impreziosito dalla voce dei mostri sacri della musica dell’epoca, da ray Charles ad Aretha Franklin.
Per John Belushi si aprirono le porte di Hollywood. Poco dopo il successo fu doppiato da Animal House, dove Joliet Jake Blues diventava Bluto Blutarsky e raccontava da par suo la vita di college nell’America degli anni sessanta. Seguirono alcune comparsate, tra cui il flop Verso il sud in cui interpretava il ruolo a lui evidentemente poco congeniale di vicesceriffo messicano a fianco del già consacrato Jack Nicholson. Il successo ritornò ad arridergli con 1941 Allarme a Hollywood, in cui la necessità da lui particolarmente sentita di mettere in ridicolo la stupidità della guerra evidentemente gli toccava di nuovo le corde giuste. Seguirono il gioiellino Chiamami Aquila, film che secondo suo fratello James (e secondo molti critici) fu il migliore da lui interpretato, e la commedia nera I vicini di casa, in cui ritrovava il suo partner preferito, Dan Aykroid.
Quando uscì I vicini di casa, a John restavano tre mesi di vita. Già da prima di varcare i confini del regno dorato di Hollywood, il giovane figlio di immigrati albanesi aveva conosciuto il lato oscuro del mondo dello spettacolo, cadendo vittima dei suoi due flagelli più ricorrenti: la droga e l’alcool. La dipendenza da questi due vizi rese invivibile il suo matrimonio con la moglie Judy e molto faticoso lavorare. Bob Woodward, nella sua biografia dell’attore intitolata Wired - The short life and fast times of John Belushi, racconta efficacemente il suo ultimo anno di vita, il suo carattere rovinato dalla dipendenza da cocaina ed alcoolici, le sue spese folli per procurarseli, i suoi rifiuti ostinati ad affrontare una seria disintossicazione, come gli amici – a cominciare da Dan Aykroid – gli consigliavano continuamente.
La sera del 4 marzo 1982 l’attore andò a una festa presso l'hotel Chateau Marmont ad Hollywood. Al party, a cui erano presenti anche Robert De Niro e Robin Williams si presentò con una dose di droga. Appartatosi con la sua amica la cantante Cathy Evelyn Smith, notoria spacciatrice e come lui a quel punto completamente ubriaca, pare che le chiedesse di preparare una dose. Come affermato dalla stessa Smith, lei tagliò male la droga e con una siringa la iniettò a John, il quale subito dopo si mise a letto. La mattina dopo fu trovato privo di vita. Inutili i tentativi di rianimarlo. La voce della sua morte si sparse subito, e una grande folla si radunò fuori dell’Hotel dove John Adam Belushi si era addormentato per l’ultima volta.
John Belushi riposa oggi all'Abel’s Hill cemetery a Martha’s Vineyard, Massachussetts. Ai suoi funerali, tenutisi con rito ortodosso, furono presenti il suo grande amico Dan Aykroyd sulla sua moto, seguito dal fratello Jim, dai genitori Adam e Agnes, dai fratelli Billy e Marian e da tutti i suoi amici e conoscenti che avevano lavorato con lui, da Bill Murray a Chevy Chase a tanti altri. Pochi mesi prima di morire, John aveva chiesto a Dan scherzando se al suo funerale gli avrebbe suonato la canzone The 2000 Pound Bee (in italiano come L'ape da una tonnellata) dei The Ventures. L'amico mantenne la promessa.
Si sa che dopo la morte di John, Dan ebbe una crisi depressiva che lo portò a ritardare i suoi impegni cinematografici, ai quali lo stesso Belushi avrebbe dovuto prender parte. A breve avrebbero dovuto cominciare le riprese di un nuovo film, Ghostbusters – Acchiappafantasmi (la prima versione della sceneggiatura, scritta da Dan Aykroyd insieme a Harold Ramis, vedeva infatti come interpreti principali Belushi, Aykroyd e Eddie Murphy, tre membri del cast originale del Saturday Night Live). L'improvvisa morte di Belushi fece ritardare di due anni il progetto, che venne realizzato solo nel 1984. Quello che doveva essere il suo ruolo fu ricoperto poi da Bill Murray. Oltre a Ghostbusters, Belushi avrebbe dovuto riaffiancare il suo amico Dan Aykroyd anche nel film Una poltrona per due nel quale fu sostituito da un altro dei primi comici del Saturday Night Live, Eddie Murphy.

E chissà quanti altri capolavori avrebbero potuto essere associati al suo nome, se il genio e la sregolatezza che gli scorrevano nelle vene come un fiume in piena non se lo fossero portato via così presto. Come già successo per James Dean, il mito della giovane star troppo presto andata a divertire quegli dei a cui doveva esser particolarmente grato continua comunque indistruttibile da una generazione all’altra.

sabato 1 marzo 2014

Il 2014 secondo Isaac Asimov



Almeno tre generazioni di ex ragazzi cresciuti a pane e fantascienza lo conoscono bene e lo venerano come il più grande di sempre. I più giovani magari non l’hanno letto ma apprezzano i molti film direttamente o indirettamente ispirati alla sua vasta e impareggiabile produzione letteraria. Isaac Asimov è stato davvero il più grande, le sue visioni del mondo futuro hanno ispirato tutti i suoi colleghi, affascinato tuti i suoi lettori e influenzato creazioni letterarie e cinematografiche a loro volta divenute un cult dei nostri tempi.
Dalla saga dell’Impero Galattico, la cui ispirazione gli venne dalla lettura del “Declino e caduta dell’Impero Romano” del grande storico inglese Edward Gibbon, non è un mistero che abbia tratto ispirazione a sua volta per esempio George Lucas per l’impianto scenico e per la sceneggiatura delle sue Guerre Stellari. L’intuizione di Asimov di una storia futura prevedibile entro certe grandi linee attraverso l’applicazione ad essa dello studio della psicologia di massa combinata con quello dello sviluppo tecnologico è non solo geniale ma rappresenta in effetti un esercizio al quale si stanno appassionando sempre più le nuove generazioni di storiografi.
La saga imperiale rivaleggia con quella dei Robot positronici per determinare l’eredità più importante di Asimov alla moderna letteratura, non solo fantascientifica. Gli uomini meccanici addomesticati dalle famose Tre Leggi della Robotica hanno condizionato qualunque successivo sviluppo letterario, se non addirittura la stessa ricerca scientifica in materia.
E’ stato l’uomo che è andato più vicino di tutti a fare della fantascienza una scienza esatta, se ci è consentito il gioco di parole. Era inevitabile che nel corso della sua lunga carriera, terminata con la morte nell’aprile del 1992, prima o poi si cimentasse con il tentativo di prevedere il futuro non a lungo, ma a medio-breve termine. Il che è molto più difficile.
Nell’agosto 1964 Asimov scrisse un articolo per il New York Times con il quale, a seguito della sua visita all’esposizione newyorchese del World’s Fair (una mostra dei progressi tecnico-scientifici improntata alla celebrazione delle “sorti progressive” dell’umanità che quell’anno aveva il tema beneaugurante del “Peace through understanding”, la Pace attraverso la conoscenza, la comprensione), azzardava alcune previsioni significative per i successivi cinquant’anni. La data su cui si focalizzò era appunto il 2014, un tempo che allora sembrava distante, come il 2001 dell’Odissea nello Spazio di Kubrick. Le sue previsioni, rilette oggi, si rivelano sorprendenti.
I progressi enormi fatti dall’uomo nei primi sessant’anni del ventesimo secolo spingevano ad immaginare qualcosa di ancora più eclatante, in modo esponenziale, in un lasso di tempo analogo successivo. La prima previsione di Asimov riguarda la tendenza dell’uomo a vivere una vita artificiale: l’uomo si ritirerà sempre più dalla natura nel tentativo di crearsi un habitat sempre più confortevole in cui vivere. Pannelli elettroluminescenti alle pareti combatteranno lo stress, finestre dai vetri polarizzati terranno lontana la luce del sole dalla delicata pelle dei terrestri. Prenderà piede la moda di costruire le abitazioni umane sottoterra, mettendo al bando le intemperie e gli sbalzi di temperatura e permettendo un controllo totale della qualità dell’aria al pari di quella della luce.
L’altra tendenza innaturale ma irresistibile dell’essere umano sarebbe stata quella di dotarsi di gadget sempre più imprescindibili. Esempio principale, quegli utensili da cucina che renderanno la confezione dei pasti un processo automatizzato e indipendente dall’intervento degli abitanti di casa. La cucina insomma sarà il regno principale dei robots che entreranno nelle case terrestri per assumerne sempre più il controllo. Anche se lo scrittore, con l’ironia che lo contraddistingueva, non può fare a meno di auspicare che nelle cucine del futuro rimanga almeno un angolino in cui sia possibile continuare a preparare i pasti “a mano”. Per esempio nel caso di improvvisate di amici.
I robots progressivamente assolveranno a tutte le mansioni domestiche, ed è lecito pensare che da lì a prendere piede anche all’esterno di casa il passo sarà breve. Uno dei principali campi della loro applicazione sarà il trasporto terrestre, che avverrà attraverso veicoli computerizzati che lasciano poco spazio di intervento a “guidatori” umani e che sfruttano la tecnologia del cuscinetto ad aria. Perderanno così importanza le vie di comunicazione. Ciò che non perderà importanza purtroppo sarà il problema del traffico, destinato ad aumentare per l’incremento di popolazione e l’elevazione delle sue possibilità di investimento in tecnologia avanzata.
Il mondo del futuro, caratterizzato dal trionfo del WI-FI (addio cavi elettrici!), dei pannelli che sfruttano l’energia solare, della colonizzazione delle aree tropicali, desertiche o comunque ritenute inospitali nelle epoche passate, dalle video-comunicazioni e dalla trasmissione dati alla velocità del suono sarà contraddistinto anche da una crescita della popolazione secondo una progressione geometrica. Nel 2014 gli abitanti della terra saranno sei miliardi e mezzo (in realtà siamo arrivati a sette, e per motivi del tutto diversi da quelli individuati dal grande scrittore americano di origine russa), ed è facile prevedere che continuando a crescere secondo questo modello matematico nel giro di cinquecento anni il mondo sarà – per usare le parole stesse di Asimov – diventato una enorme Manhattan (con una densità rilevata nel 1964 di 80.000 abitanti per miglio quadrato). Sarà giocoforza orientarsi verso metodi di controllo delle nascite sistematizzati, per quanto condotti (è l’auspicio di Asimov) con metodi umani e razionali. 


Ad ognuno l’ardua sentenza, se e quanto il più grande degli scrittori di fantascienza abbia disegnato esattamente la società umana nell’anno che stiamo vivendo, che era così distante dai suoi giorni. Certe sue previsioni possono essere lette con l’ottimismo di quei giorni a proposito di un mondo che non aveva ancora messo a fuoco il problema dell’inquinamento e del degrado ambientale, oppure con un po’ del sano pessimismo instillatoci dagli sviluppi dei 50 anni successivi nonché da una letteratura fantascientifica molto meno orientata al lieto fine del progresso umano sempre e comunque. Certe altre previsioni invece suscitano echi profondi nella nostra coscienza, e provocano brividi più o meno intensi alla luce della crisi che stiamo vivendo. Il mondo del 2014 è un mondo in cui le macchine avranno imparato a fare quasi tutto meglio dei loro creatori umani, e saranno diventate indispensabili. La materia più importante che i ragazzi studieranno a scuola sarà informatica, per ovvi motivi. E soprattutto, sarà una società in cui i suoi membri disporranno di molto tempo libero forzato, e come dice lo stesso Asimov in cui la parola più gloriosa del vocabolario sarà diventata: lavoro.
Senza scomodare il Terminator di Schwarzenegger, la crisi economica globale sta realizzando forse più di ogni progresso tecnologico le visioni di Asimov  in quel lontano 1964. Che prefigurava un uomo con pochi bisogni insoddisfatti e soprattutto afflitto dalla noia, in questo suo tempo libero forzato. Senza poter immaginare che forse il suo sentimento prevalente sarebbe stato piuttosto la disperazione.