martedì 28 luglio 2015

VIOLA NELLA TESTA E NEL CUORE: IL GIGLIO NELLA POLVERE



C’è un clima surreale, a dir poco, attorno a questa Fiorentina che si appresta a festeggiare il tredicesimo compleanno del patronato della famiglia Della Valle. Nel 2002, una vita fa, questi erano i giorni della passione, morte e mancata resurrezione di Vittorio Cecchi Gori e della sua società. Che aspirava a rimanere in pianta stabile la Settima Sorella del calcio, a diventare nel frattempo il Terzo Polo televisivo e perché no, l’Ago della Bilancia politica italiana. E che quando entrò in difficoltà serie, che più serie non si poteva, non trovò un cane disposto a dargli una mano. Anzi, come sempre succede in questi casi, ne trovò molti più che disposti a mordergliela.
E’ storia arcinota, anche perché la riscriviamo e riassumiamo tutti gli anni di questi tempi, aggiungendo soltanto l’ultimo nuovo capitolo rappresentato dalla stagione appena conclusa e chiosando con le aspettative relative a quella che va ad incominciare. E’ una storia che a Firenze sanno tutti. E’ una storia che ha segnato Firenze. Al punto che una buona parte della sua tifoseria non ne ha mai superato conseguenze e strascichi, soprattutto psicologici.
Tutti sanno ormai, dal più vecchio al più giovane, che mentre nessuno si prodigava per tendere la mano allo sprovveduto Cecchi Gori, qualcuno si era già adoperato per trovargli un successore, nella gestione di quel titolo sportivo che era stato fino ad allora “vanto e gloria” della città. Dal certificato di morte dell’A.C. Fiorentina all’atto di nascita della Fiorentina 1926 Florentia Viola intercorsero solo due giorni. Quanti bastarono a molti per subire un trauma irrecuperabile (Firenze per 48 ore non ebbe più una squadra di calcio). Un record, tuttavia, a ben guardare.
Nessuno conosceva prima di quel 3 agosto 2002 la famiglia Della Valle, se non pochi addetti ai lavori e pochissimi fortunati aficionados del marchio Tod’s. Diego prima e Andrea poi divennero in breve tempo personaggi pubblici assai rilevanti e popolari. La parola “Firenze” – il brand, come si dice oggi sempre tra addetti ai lavori o aficionados di tutto ciò che è trendy – prese a far bella mostra di sé, a campeggiare subito sotto il marchio di famiglia. Impreziosendo una ditta che, con tutto il rispetto, fino a quel momento aveva potuto dispiegare le assai più modeste insegne di Casette d’Ete.
Firenze, è un fatto, deve qualcosa ai della Valle. Altre città italiane nobili cadute in disgrazia ci hanno messo molto più tempo e fatica a ritornare – calcisticamente parlando – alle posizioni prestigiose di un tempo. I Della Valle, è un fatto altrettanto certo, devono molto di più a Firenze. Il Ponte Vecchio è un brand che non ha eguali al mondo. Poterlo mostrare sulla confezione di ogni prodotto della holding marchigiana o in ogni spot pubblicitario è tanta, tantissima roba. Ognuno lo capisce da sé.
Non c’è aria di festa quest’anno per il tredicesimo compleanno dell’A.C.F. Fiorentina, come si chiama la società viola da quando abili commercialisti scongiurarono il rischio di farle ereditare i debiti della precedente gestione. Non ci può essere, perché qui a partire dai primi di giugno è successo un terremoto, e ancora siamo a cercare di stimare i danni. Al termine di una stagione travagliata ma alla fine decisamente prestigiosa nei risultati, chi ha a cuore le cose viola ha visto andare via in successione un giovane tecnico brillante che forse parlava troppo e troppo in pubblico ma che alla fine il suo quarto posto e le sue semifinali o finali le portava a casa, vecchi o meno vecchi senatori che fino a prova contraria hanno pochi o zero sostituti nella nuova generazione, campioni affermati che forse prima di essere ceduti per fare – per ora – esclusivamente plusvalenza bisognava immaginarsi per tempo come sostituirli. Il tempo era più o meno quello in cui fu ceduto il primo di una lunga serie, Juan Guillermo Cuadrado, e al suo posto arrivò Mohamed Salah. Gli altri nomi sono anche in questo caso arcinoti, e non stiamo qui a ripeterli.
Firenze è dal 2002 in poi una città spaccata in due. Da una parte chi non ha digerito i fatti di quella estate, e sogna prima o poi di rivedere un presidente in piedi sulla balaustra della Tribuna del Franchi ed un Batistuta sfondare le reti a tutti gli avversari. Dall’altra chi vive nel terrore incontrollabile di ritornare a Gubbio, a Gualdo Tadino e via dicendo. Difficile ragionare. Con una parte o con l’altra. Per i primi i Della Valle non dovrebbero neanche essere a Firenze, per i secondi tutto quello che fanno è insindacabile, per il solo fatto che loro ci mettono i soldi.
Ma forse, questa fantasmagorica campagna acquisti – si fa per dire – dell’estate 2015 sta creando un terzo partito, trasversale. Quello di chi non ci capisce più niente. A maggio, la Fiorentina era quarta in campionato ed in Europa League, e pareva bisognosa soltanto di pochi, sapienti ritocchi per tentare la scalata a cime più alte. E’ partita una campagna cessioni che forse è più giusto definire una campagna smobilitazione. Tale da rendere addirittura verosimili, se non credibili, le voci cittadine che vogliono la holding Della Valle in procinto di passare la mano. O almeno desiderosa di farlo.
Fin qui poco male, cose che nel calcio succedono e succederanno sempre. Magari prima o poi arriva anche qui l’azionista proveniente da un paese lontano, dal Sol Levante, e si comincia tutti a ridere 24 ore su 24 e a 360 gradi come fanno al Milan e all’Inter. Quello che però risulta difficilmente tollerabile è il clamoroso ripetersi di una vecchia figuraccia in mondovisione. Anzi, l’affaire Milinkovic Savic fa impallidire di gran lunga quello di Berbatov.
Lasciamo perdere quello che è successo fino a dieci giorni fa, non capisco ma mi adeguo, diceva il Ferrini di Quelli della Notte. Ma poi? Stai dieci giorni a fare una guerriglia con la Lazio che nemmeno si trattasse di portar via Andres Iniesta al Barcellona! Per chi? Per un ragazzotto senza né arte né parte, tale Sergej Milinkovic Savic in forza nientemeno che al Genk. Dopo vicissitudini degne dei Promessi Sposi del Manzoni, lo fai venire a Firenze con atterraggio a Peretola e conferenza stampa al Franchi dove l’ineffabile ragazzotto annuncia che non ha nessuna intenzione di trasferirsi qui e che con ogni probabilità proseguirà per Roma, sponda Lazio. Grazie del passaggio e tanti saluti.
Ecco, forse la città che ha dato così grande lustro e visibilità alla fabbrica di scarpe di Casette d’Ete meritava di essere trattata con altrettanto rispetto. Sotto il brand del Ponte Vecchio forse non era il caso di far campeggiare la scritta RIDICOLO come hanno fatto i signori Diego e Andrea della Valle, o chi per loro. Lasciamo perdere le zero vittorie nel palmarés di quella che fino a prova contraria è la seconda proprietà per durata della storia della Fiorentina. Lasciamo fare considerazioni di ordine politico, economico e di bacini di utenza che condizionano da qualche anno i pronostici calcistici. Ma il RIDICOLO no, cari signori. Questa non era la moneta con cui dovevate ripagare Firenze di quello che vi ha dato.
Sentire Norberto Neto appena arrivato a Torino dichiarare, a proposito della sua nuova società, “Qui la prima cosa che si nota è la precisione. Non c’ero abituato”, e rendersi conto che – piaccia o no – ha platealmente ragione, non fa bene per niente.
Ma peggio ancora fa sentire tale Gianluca Baiesi, accreditato sui motori di ricerca web come Chief Operating Officer presso l’A.C.F. Fiorentina lamentarsi pubblicamente dei fiorentini dicendo che “diecimila biglietti soltanto venduti per l’amichevole con il Barcellona sono una vergogna per la città”. Questo signore, che fino ad oggi poteva essere tranquillamente assimilato al Carneade di manzoniana memoria, ha indubbiamente scelto tempi, toni ed argomenti tra i più sbagliati per salire alla ribalta delle cronache. Ha detto – come si dice a Firenze – una “bischerata”, e per di più nel momento che era meglio stare zitti.
Qualcuno ieri, alla conferenza stampa per la presentazione del nuovo prato del Franchi (di qualcosa gli addetti stampa della Fiorentina dovranno pur occuparsi) ha molto più intelligentemente esposto una maglietta viola con su il numero 18 ed il nome di M. ERBOSO. Come dire, finalmente presentiamo qualche acquisto anche noi.
Il genio irriverente di Firenze è ancora vivo. Chissà se basterà a tenere sereni gli animi di chi assiste allo sfacelo della sua squadra del cuore. E magari si è stancato di poter soltanto vedere al di qua della vetrina, e mai potersi permettere, un paio di preziose e costosissime scarpe di fattura marchigiana. Con il brand appannato e adesso anche coperto di polvere del giglio di Firenze.

martedì 21 luglio 2015

VIOLA NELLA TESTA E NEL CUORE: Plusvalenza vo cercando ch'é sì cara.....

Sarà una lunga estate calda. L’avevamo scritto in chiusura della stagione 2014-15, prendendo a prestito il titolo di un celebre film di Martin Ritt con protagonista Paul Newman. Per inciso, la storia del film di Ritt gira attorno alle vicende di un piromane nel mid-west americano. Qui invece siamo alle prese con una serie di secchiate d’acqua gelida piovute a ripetizione sulle schiene paurosamente accaldate dei tifosi della Fiorentina. La temperatura non si abbassa, anzi oggi è atteso il nuovo record stagionale ed epocale. L’ansia dei suddetti tifosi invece cresce. 
La Fiorentina è volata a New York per una serie di amichevoli di lusso, di quelle che dovrebbero servire a fare passerella, incassare qualche soldarello e mettere a punto qualche schema (se uno ha la squadra pronta per discutere di schemi). Diciamo la verità, non sarà certo il risultato a contare. Chelsea, Barcellona e compagnia bella sono squadroni che se dicono di sbranarti ti sbranano, a prescindere da chi gioca titolare di qua e di là. L’anno scorso la vittoria sul Real Madrid fece un enorme piacere agli aficionados viola, ma lasciò poi il tempo che aveva trovato, e si rivelò anzi ingannevole. Pochi giorni dopo, l’inizio del campionato fu da provinciale in lotta per la salvezza, e si capì che non sarebbe stata una stagione affatto facile. 
E’ finita bene, la squadra tutto sommato c’era, e sarebbe potuto arrivare anche qualcosa di più. Poi siamo arrivati invece alla periodicamente ormai consueta resa dei conti. Via il tecnico dei tre quarti posti consecutivi, squadra affidata a Paulo Sousa (che per ora somiglia al povero John Cazale nei panni del fratello problematico del Padrino Michael Corleone e basta, e non può onestamente vantare referenze più sostanziose), via diversi dei protagonisti della scorsa stagione per ora non rimpiazzati, acquisti rimandati al termine della tournée americana. Ipse, Andrea Della Valle, dixit. Diego tace, ma non è più una novità.
 Sempre in tema di cinematografia, un altro titolo adatto potrebbe essere Ore 10 calma piatta. Siamo a giocare con le parole, in attesa del pallone, le lunghe ed afose giornate di questa estate scorrono lente, e le notizie scarseggiano. E’ una classica situazione da bicchiere, anzi giornale, mezzo pieno o mezzo vuoto. Gli ottimisti si aggrappano ai rinnovi di Babacar e Bernardeschi, oltre che alla ricomparsa in campo di Pepito Rossi, assist-man contro il Carpi. I pessimisti salutano in Stevan Savic un altro pezzo pregiato che se ne va, senza essere a tutt’oggi adeguatamente sostituito. Gli ottimisti pensano che per ripetere i fasti (moderati) del recente passato basti un 4-2-3-1 composto da Tatarusanu, Tomovic, Gonzalo, Basanta, Alonso, Milinkovic, Mario Suarez, Joaquin, Borja, Bernardeschi, Babacar. I pessimisti temono che con questa squadra sarà dura salvarsi. 
E’ un gioco vecchio come Firenze, e spesso ha riservato anche sorprese. Nell’estate del 1968, che in quanto a caldo se non ricordiamo male non scherzò neppure essa, la torcida viola era quasi convinta che con le cessioni di Hamrin, Brugnera e Albertosi la squadra del cuore sarebbe finita dritta in B. Finì a cucirsi il secondo scudetto sulla maglia, e tutto quello che ne seguì e che tutti sanno. Per contraltare, ci sarebbe invece il precedente del 1993…… Lasciamo fare. 
Nel calcio non si può mai dire. Ed è il suo bello, altrimenti sai che noia. Certo però che a 40 giorni dalla fine del calciomercato qualche punto interrogativo c’é. A parte quello – esistenziale - relativo a capire che bisogno c’era di chiudere completamente il ciclo di Montella (che forse abbisognava soltanto di essere rafforzato con pochi ritocchi, come disse a suo tempo l’interessato), restano gli altri legati al nuovo ciclo aperto da Paulo Sousa. La difesa dello scorso anno senza Savic perde molto, e anche un fuoriclasse come Gonzalo Riodriguez da solo lì nel mezzo potrebbe non farcela a colmare tutte le lacune. A tappare tutti i buchi, come si dice a Firenze. Con i soldi di Savic si sta trattando oltre al già acquistato centrocampista dell’Atletico Mario Suarez anche il giovane centrocampista serbo del Genk Sergej Milinkovic Savic. La cifra richiesta dalla società belga pare francamente eccessiva, è uno di quegli affari che sono destinati a destare perplessità (precedenti a sfare nelle ultime stagioni) almeno finché il ragazzo non facesse vedere qualcosa di veramente buono in campo. 
Quello che c’è da augurarsi è che alla fine da tutto ciò esca un centrocampo magari meno estroso di quello dell’anno scorso ma più solido, perché dietro di esso c’è una difesa sicuramente inferiore, almeno allo stato attuale. E Joaquin ha un anno di più, mentre Borja e Mati difficilmente diventeranno due mastini là in mezzo al campo. L’attacco segna due punti in positivo con le riconferme di Baba e Berna. Almeno non si perderanno due promesse del vivaio senza colpo ferire, come è successo in passato. Qualcuno vede in positivo anche la quasi definita partenza di un Mario Gomez ormai deludente perfino nelle amichevoli estive con la Selezione Trentino. Marione se ne dovrebbe andare a breve in Turchia, liberando anche in questo caso tanti soldi. Di Rossi non ne parliamo, sarebbe come scommettere alla SNAI e prima ancora di sapere l’esito della scommessa prendere accordi per ristrutturare la casa con i soldi della vincita. 
L’orizzonte alternativo dei viola spazia attraverso un range che va da Gilardino a Destro. Il primo riscattato da GuanghZou (anche se a peso d’oro), il secondo preso a prestito da una Roma alla quale a quanto pare è stata promessa una non interferenza nella trattativa con il Chelsea per Salah. Alzi la mano chi si entusiasma in uno qualunque dei casi sopra indicati. Nel calcio non si può mai dire. La fine del calciomercato è ancora lontana. E allora perché ci torna in mente prepotentemente l’estate del 1979, quando una Fiorentina che veniva da una salvezza drammatica all’ultimo secondo e da un campionato successivo men che mediocre abbisognava disperatamente di essere rinforzata, e in tutta l’estate finì per arrivare il solo Alessandro Zagano? 
Alla fine, se non ricordiamo male, fu sesto posto. Il compianto Paolo Carosi ed i suoi ragazzi furono salutati all’ultima giornata dai lacrimogeni della polizia che sgombrarono uno stadio travolto dalla contestazione. Adesso ci sono tanti che su un sesto posto ci metterebbero la firma. Anche se il babbo, come dice qualcuno, adesso sarebbe molto più ricco di allora. Non esistono più le mezze stagioni. Nemmeno le mezze misure. O forse, non sono mai esistite.

VIOLA NELLA TESTA E NEL CUORE: Ricominciamo?

Dove eravamo rimasti? Un povero cronista non può prendersi qualche giorno di ferie alla fine di un campionato lungo e faticoso e per più che giustificati motivi di famiglia, che quando torna manca poco non riconosce più nulla. Almeno di quella Fiorentina che aveva lasciato pochi giorni prima abbastanza soddisfatto e moderatamente speranzoso di veder addirittura migliorata nella prossima stagione. Macché. Di quel Vincenzo Montella ai cui pregi e difetti dopo tre anni avevamo fatto bene o male l’abitudine (sperando che fosse sulla strada di migliorare ancora insieme alla squadra ed alla società) non rimane più nulla dalla sera alla mattina. Dicono che fosse una crisi irreversibile ed insanabile. Sarà. Personalmente abbiamo ancora da capire quale fu il motivo della crisi con Prandelli, per questa con Montella rimandiamo ai posteri. Fatto sta che al posto del prode Vincenzo nel frattempo diventato ingrato e magari anche infame ci ritroviamo questo signore strappato – a quanto pare – con le unghie e con i denti niente meno che al Basilea. A guardarlo bene in faccia, in attesa di più sostanziose referenze calcistiche, ricorda molto il fratello problematico del Padrino Michael Corleone, Fredo, interpretato dal mitico e compianto John Cazale (che tra parentesi nel secondo episodio fa una finaccia, ma su questo lasciamo stare). E va bene, passi per Fredo, e passi anche per certi suoi trascorsi bianconeri. Anche perché, diciamocelo chiaramente, dalla Juventus non ci sono mai arrivati “pacchi”, se mai glieli abbiamo spediti noi. Ogni riferimento a Felipe Melo è assolutamente voluto. Il colpo alle poche ma solide certezze accumulate nella scorsa stagione arriva girando lo sguardo piuttosto verso il parco giocatori. Se ne sono andati in tanti, tutti a fine di contratti scrupolosamente non rinnovati. Totale 14 milioni di euro di monte ingaggi risparmiati. Col cuoricino stretto diciamo: va beh, almeno in epoca di autofinanziamento c’è sostanza per reinvestire. Per ora invece tutto tace, sulle pagine dei giornali specializzati alla voce “acquisti” la Fiorentina presenta un elenco di circa otto giocatori più o meno famosi, tutta gente già di proprietà viola e rientrata dal prestito. Perché non ne poteva fare a meno, pensiamo noi. E poi più nulla. Uno di questi esodati, sicuramente a parere di chi scrive il più doloroso da salutare, messer Alberto Aquilani da Roma (che forse ci tornerà ora che certi suoi concittadini illustri sono prossimi al passo d’addio), ha detto in conferenza stampa poche ma sentite parole, che sintetizzano bene il momento viola: “alla Fiorentina c’è un gran caos”. Ecco. E ho detto tutto, avrebbe chiosato il grande Totò. Nel momento dell’ennesimo trampolino da imboccare per l’ennesimo tentativo di fare quel benedetto e sospirato salto di qualità promesso da Diego e Andrea Della Valle tanti anni or sono ormai, arriva l’ennesima boccata almeno per quanti dei tifosi credevano e credono alle dichiarazioni societarie, ai comunicati stampa, ai discorsi – da bar o da stadio in genere – fatti o alimentati da esponenti viola più o meno qualificati. Che dobbiamo pensare? Come diceva un altro mitico e compianto, la buonanima del senatore Giulio Andreotti, a pensar male si fa peccato ma ci si indovina sempre,o quasi. A pensar male, la Champion’s League costa una ballata d soldi. Entrare in quel giro vuol dire impegnarsi per la vita e per la morte. Guai a mancare un colpo, o una stagione, vorrebbe dire un tracollo finanziario. Questo, cari tifosi vicini e lontani, i Della Valle è un rischio che non vogliono correre. Il calcio è un bel giocattolo, ma la loro passione è altrove. La Fiorentina rende, soprattutto visibilità. Ma quel fosso che si chiama salto di qualità, con tutti gli annessi e connessi, ormai pare di poter dire che i fratelli marchigiani non lo salteranno mai. Altrimenti non mandi via Montella ai primi di giugno dopo averci questionato per un intero campionato. Altrimenti non ti disfi di una decina di giocatori senza avere in mano uno straccio di sostituto. Altrimenti non arrivi a luglio per scoprire che per trattenere l’esoso (ma chi non lo è tra i calciatori?) Mohamed Salah non hai in mano niente. Ma è possibile che imprenditori avveduti come i Della Valle, quando si tratta di calcio, si dimostrino regolarmente così sprovveduti? Meglio pensar male, e concludere che un tormentone all’anno leva il calciomercato di torno. L’anno scorso ci fu la telenovela Cuadrado, quest’anno Salah. Risultato: alibi già confezionato per presentarsi il 1° settembre con una squadra che è frutto di tutto meno che della programmazione. Magari non andrà malaccio nemmeno stavolta. Però, andiamo un po’ a rivedere ogni tanto l’albo d’oro. La proprietà Della Valle è la seconda per durata dopo quella del Marchese Ridolfi, il leggendario fondatore. L’ultima in quanto a trofei vinti. Neanche una Coppa Italia, o un trofeo Anglo-Italiano, la consolazione dei tempi bui. Qualcosa vorrà pur dire. Non ci si può allontanare un attimo. Viola significa non dover mai dire mi dispiace.

mercoledì 1 luglio 2015

Sergio Mattarella eletto Presidente, la Balena Bianca torna al Quirinale

Moriremo democristiani. Sergio Mattarella è il dodicesimo Presidente della Repubblica Italiana. L’applauso parte alle 12,58, allorché la presidentessa del Parlamento in seduta comune Laura Boldrini legge per la cinquecentocinquesima volta il suo nome sulle schede scrutinate a seguito della quarta votazione, la prima nella quale è sufficiente la maggioranza assoluta e non più quella dei due terzi.
In realtà, i consensi ottenuti dal professore palermitano ammontano alla fine dello scrutinio a ben 665, quasi il numero necessario a farlo trionfare già alla prima votazione. Ma le prime tre votazioni sono servite alla nostra classe politica per regolare tutti i conti in sospeso al proprio interno, e per stabilire quelli che saranno in sospeso nel prossimo futuro. Così funzionano le cose nella nostra democrazia “parlamentare”.
E’ una delle elezioni più veloci della storia d’Italia. I giorni della Merla sono stati sufficienti a stabilire chi sarà il capo dello stato dal 2015 al 2022, raccogliendo la difficile eredità di Giorgio Napolitano. E anche a stabilire il fatto che la si può chiamare come si vuole, la si può riformare quanto si vuole (o far finta di farlo): la Repubblica, seconda o terza che la si voglia definire, in realtà è sempre la prima.
La Balena Bianca risorge dalle sue ceneri riportando un suo uomo al Quirinale 16 anni dopo Oscar Luigi Scalfaro. Non è un caso che tra i pochi passanti intervistati dai media in Piazza Montecitorio l’unica cosa di positivo che cittadini distratti trovano da dire a elogio del neo-Capo dello stato è un aggettivo qualificativo tra i più generici e tra i più abusati in questo paese: è una persona “onesta”. Stessa cosa si disse di Scalfaro, stessa mancanza di altre qualità, umane e politiche, da farsi venire alla mente, così su due piedi.
Sergio Mattarella è un politico di lungo corso, la cui carriera cominciò forse il giorno in cui il fratello Piersanti, allora presidente della Regione Sicilia, fu ucciso dalla mafia in un agguato il giorno dell’Epifania del 1980. La famiglia Mattarella era allora considerata a Palermo una sorta di famiglia Kennedy locale, un po’ come i Matarrese a Bari. Il padre Bernardo era stato il capostipite della dinastia politica, ministro nei governi De Gasperi. Era stato per la verità accostato anche ad ambienti e personaggi meno raccomandabili, Gaspare Pisciotta – ex braccio destro del bandito Salvatore Giuliano – aveva fatto il suo nome tra i responsabili dell’eccidio di Portella delle Ginestre, la strage mafiosa di braccianti avvenuta il 1° maggio 1947 nell’isola. Le responsabilità di Mattarella senior non erano poi state peraltro confermate da nessuna indagine successiva.
Per quanto le vicende della Democrazia Cristiana in Sicilia necessitino da sempre del ricorso alla massima cautela in sede di analisi storica, nessuno ha invece mai avuto dubbi che il figlio maggiore Piersanti sia stato nient’altro che la prima vittima di quel bagno di sangue immane che portò all’inizio degli anni 80 i Corleonesi ad assumere la leadership della mafia siciliana e della guerra successiva allo Stato.
Il 6 gennaio del 1980 il giovane professor Sergio decise di seguire le orme del fratello Piersanti appena crivellato di colpi dal killer delle cosche. E lo fece nell’unico partito possibile, almeno dalle sue parti. Sergio Mattarella, ordinario di diritto all’Università di Palermo, divenne ben presto un notabile dello Scudo Crociato. E lasciò subito un segno di sé sulla Repubblica che un giorno sarebbe stato chiamato a guidare. Nel 1990 fu tra i ministri del Governo Andreotti che si dimisero per protesta contro la Legge Mammì, quella che in pratica consacrò l’esistenza delle reti Mediaset a pieno titolo e a pari peso con la RAI.
Nel 1993 fu l’autore della proposta di legge di riforma del sistema elettorale che prese il suo nome. Il Mattarellum dette in apparenza attuazione al referendum consultivo con cui gli elettori italiani avevano chiesto la sostituzione del sistema elettorale proporzionale con quello maggioritario. Ma lo fece alla maniera democristiana, lasciando una quota proporzionale del 25% che era volutamente una mano tesa alla Balena Bianca ed agli altri partiti della prima repubblica che di lì a poco avrebbero visto stilare il loro certificato di morte. Almeno in apparenza.
Nel ventennio in cui la vita politica italiana è stata egemonizzata da quel Silvio Berlusconi il cui impero economico Sergio Mattarella avrebbe voluto strozzare nella culla molto volentieri, il professore onorevole si orientò verso un cursus honorum giudiziario. Dapprima membro di vari comitati parlamentari, poi giudice costituzionale, era uno di quei post-democristiani a cui i post-comunisti avevano consegnato da tempo le chiavi del partito democratico. Inevitabile che il suo nome ricorresse più o meno ad ogni elezione presidenziale degli ultimi decenni, e che prima o poi risultasse essere quello giusto. L’attuale segretario del PD, il Renzi triumphans di cui parlano le cronache degli ultimi mesi e soprattutto degli ultimi giorni, è uno stesso esponente della sua specie politica, a cui non è parso vero di giocare una carta (peraltro accuratamente tenuta nascosta fino all’ultimo) così facile e così produttiva.
Matteo Renzi esce da Montecitorio accreditato di una vittoria clamorosa, con corrispondente sbaraglio di tutti gli altri attori, amici o nemici che siano. La scelta di ricompattare un partito democratico che già in occasione delle precedenti elezioni presidenziali aveva mostrato di cosa era capace (soprattutto contro se stesso) appare pagante nell’immediato, anche se lo riconsegna in ostaggio di quella minoranza interna e di quell’alleato – o presunto tale – esterno, il S.E.L. di Vendola, che presto gli presenteranno il conto.
Silvio Berlusconi viene dato per il maggiore sconfitto di questa tornata elettorale presidenziale. In realtà, il leader di Forza Italia sconta in parte la sua condizione di capo politico in libertà vigilata, almeno finché la sentenza Mediaset produrrà i suoi effetti. Sconta inoltre l’assenza di scrupoli e la spregiudicatezza del suo giovane epigono toscano, che se da un lato fa il paio soltanto con quella mostrata da lui stesso ai tempi d’oro, dall’altro si spinge fino a tirare la corda del cosiddetto Patto del Nazareno alla massima tensione possibile. Cosa succederà quando – presto, ad occhio e croce – il presidente del consiglio Renzi avrà bisogno per le sue riforme e le sue leggi e leggine dei voti di Forza Italia in sostituzione di quelli che il suo partito tornerà a fargli mancare? A Silvio, o a chi per lui, l’ardua sentenza.
Sono ben più rotte comunque le ossa con cui escono Angelino Alfano e il Nuovo Centrodestra da queste giornate della Merla. L’ex delfino di Berlusconi ha dimostrato una disponibilità al compromesso degna di un Mastella d’annata. E una capacità di sottomissione ai diktat di Renzi (o Mattarella o fuori dal governo) che ne hanno fatto giustamente – secondo una definizione estremamente azzeccata proveniente dal Transatlantico di Montecitorio – lo Schettino di questo Quirinale 2015.
Il resto dell’emiciclo resta seduto mentre la Grosse Koalition applaude Sergio Mattarella Presidente della Repubblica. Ma se la Lega esce dall’aula con la faccia pulita di Matteo Salvini che si è chiamato fuori per tempo da questa sceneggiata in seduta comune e che potrà presentarsi con buone chance davanti ad un paese/elettorato che vi ha assistito distratto e sconcertato dai riti di una Casta ormai impresentabile, il Movimento Cinque Stelle si consacra ormai come quella banda sbandata che da due anni a questa parte non ne indovina più una, chiuso nel suo Aventino mediatico. A Sergio Mattarella contrappone infatti un altro arnese da prima repubblica come Ferdinando Imposimato, un altro che in questo paese ha contribuito tra l’altro a mantenere diritto e giustizia sulla falsariga della messa in latino prima del Concilio Vaticano II. Più fastidioso dell’atteggiamento dei grillini c’è solo la voce monocorde di Laura Boldrini, che officia questo rito circondata esclusivamente dalle sue ancelle.
Chissà se c’è uno soltanto dei 1.008 grandi elettori che si chiede stasera, mentre si affretta al paesello natio (a spese dello Stato) ed al meritato riposo, se quel rito officiato nella Basilica di Montecitorio abbia ancora un senso per la plebe immensa ammassata nei villaggi e nelle piazze italiane, che si vede nominare da un senato ormai discreditato al massimo questo ennesimo imperatore scovato nelle aule sorde e grigie di un potere lontano, ingiustificabile, osceno ai più.
E mentre Sergio Mattarella, con la sua aria un po’ sinistra e un po’ sorniona, che sembra dire “ho visto cose che voi umani non potete immaginare”, si appresta a vivere i suoi ultimi due giorni da privato cittadino prima del giuramento da prestare lunedi prossimo alla Camera, neanche un giornalista che gli chieda – e si chieda – come mai non abbia nemmeno da fare la fatica di recarsi al Quirinale dopo quel giuramento. Perché ci vive già. Nella foresteria, come gli spetta in quanto giudice costituzionale. O tempora o mores.
La settimana che si è aperta con le elezioni in Grecia si chiude con quelle del Presidente in Italia. Domenica il popolo ellenico è andato a votare, lunedi ha proclamato la vittoria di Alexis Tsipras, che martedi ha giurato e si è insediato. E venerdi ha già denunciato tutti gli accordi capestro con la Trojka europea e i vari Quisling della Germania. Che differenza con il nostro Matteo Renzi, uno di quei Quisling che nessuno ha votato, che nei giorni della Merla ha fatto eleggere presidente un altro che come lui ha visto giorni migliori e che probabilmente vorrà rivederli.
Moriremo DC.

Storia dei presidenti della repubblica: Napolitano II (2013-15)

Narra la leggenda che la somiglianza fisica tra l’attuale Presidente della Repubblica e l’ultimo Re d’Italia Umberto II di Savoia non sia affatto casuale, sottintendendo una discendenza reale, ancorché illegittima, per colui che il Times ormai ha ribattezzato Re Giorgio e un noto settimanale politico italiano, scimmiottando la prestigiosa rivista americana Time, ha nominato “uomo dell’anno 2011”. Di leggende simili è pieno il mondo politico, come l’altra che vuole il giornalista Bruno Vespa figlio naturale del Duce (concepito durante la sua prigionia al Gran Sasso), anche in questo caso con nessun altro fondamento che una certa rassomiglianza.
Che Giorgio Napolitano fosse fuori dagli schemi lo si poteva intuire fin da quando Henry Kissinger lo definì il suo comunista preferito. E ancor prima di diventare migliorista, forse fin dagli esordi in politica. La Svolta di Salerno del 1944 lo aveva visto impegnato con il gruppo che fece rientrare clandestinamente in Italia Palmiro Togliatti, colui che sarebbe diventato il suo mentore una volta affiliato al P.C.I. Togliatti era un maestro della politica fuori dagli schemi, al limite della spregiudicatezza. Il suo appoggio clamoroso ad una monarchia traballante (e nelle cui patrie galere era morto pochi anni prima lo scomodo rivale Antonio Gramsci), per quanto dettato da ragioni tattiche, mostrò ad una generazione di comunisti che quando il fine giustificava i mezzi non c’erano regole o schemi che tenessero.
Il destino reale di Napolitano più che nella genetica era scritto nell’esperienza politica, dunque. Troppo giovane per far parte di coloro che scrissero la Costituzione, ha fatto in tempo a farsi promotore di provvedimenti che potrebbero averla stravolta per sempre. Dopo l’annus mirabilis 2011 in cui cavò dal cilindro il governo di salute pubblica di Mario Monti (mentre negli altri paesi europei analoghi governi venivano più propriamente cavati dalle sorgenti naturali, le urne elettorali), il bello aveva ancora da venire, per dirla con Barack Obama, un altro presidente di repubblica assai amante della retorica fine a se stessa.

Nel febbraio 2013, una delle legislature più controverse e sofferte era finalmente arrivata a scadenza, ma le urne elettorali - non più rimandabili o evitabili - avevano dato come responso uno stallo clamoroso: entrambe le Camere divise in tre parti uguali tra Partito Democratico, Popolo delle Libertà e Movimento Cinque Stelle, la nuova formazione fondata dallo showman Beppe Grillo su cui si era riversato il malcontento e la protesta di chi non aveva da ringraziare il salvatore della patria Mario Monti e il suo deus ex machina del Quirinale e tuttavia non se la sentiva di ingrossare le fila dell’astensione (corrispondente ad un altro quarto dell’elettorato).
La pantomima dell’incarico a Bersani, giustificato da quei pochi voti in più presi dal PD al fotofinish elettorale (complice anche il meccanismo di attribuzione dei seggi non a caso definito Porcellum), trascinato per quasi un mese senza esito dall’interessato tra il rifiuto di alleanza ricevuto da Grillo e quello opposto ad un Berlusconi seduto sulla sponda del fiume, era poi stata seguita dall’incredibile nomina dei cosiddetti Dieci Saggi, un organismo di cui non si trova traccia in nessun dettato costituzionale né in alcuna prassi conseguente. L’escamotage, che di altro non si trattava chiaramente in quel momento, poteva spiegarsi soltanto come un voler prendere tempo in attesa della scadenza del mandato presidenziale, non potendo a causa del semestre bianco e comunque non volendo Napolitano sciogliere di sua iniziativa le Camere.
Il 15 aprile, un mese prima di quella scadenza, il Parlamento in seduta comune si riunì per eleggere il nuovo Presidente, che sarebbe stato il dodicesimo della storia. Il gioco stavolta era chiaro: trovare qualcuno che andasse bene sia al centrosinistra (determinato a non perdere l’esiguo vantaggio elettorale) che al centrodestra (determinato a far fruttare la sua posizione di ago della bilancia) e che tagliasse fuori i Cinque Stelle, più che mai determinati ad agire in funzione anti-sistema ed anti-casta. Tra le figure proposte allo scopo, non era infrequente quella di un Napolitano bis, a cui peraltro l’interessato in un primo momento aveva risposto picche. A quasi 88 anni, l’inquilino del Colle sognava di ritirarsi a occuparsi dei nipoti, e con lui e per lui lo sognava probabilmente tanta gente che non aveva molto di che ringraziarlo per questa patria salvata a così caro prezzo negli ultimi due anni.
La Costituzione italiana non dice niente a proposito della rielezione del Presidente in carica. E com’è noto, nel diritto ciò che non è espressamente vietato è permesso. I costituzionalisti in una prima fase si affannavano a sostenere che i padri costituenti non desideravano in linea di principio la rielezione, un mandato lungo quattordici anni sarebbe stato troppo lungo. Ma a parte il fatto che se i costituenti desideravano una cosa del genere avrebbero potuto scriverla e nessuno avrebbe potuto impedirglielo, i costituzionalisti di mestiere trovano le giustificazioni quando le cose sono già successe. Due mesi dopo i loro discorsi sarebbero stati di segno del tutto diverso.
Nelle prime votazioni, la situazione precipitò in maniera tale da scompigliare tutti i giochi. La nomenklatura PD presentò alcuni candidati su cui non era d’accordo nemmeno con se stessa, rimediando una figuraccia epocale e forse compromettendo seriamente lo stesso avvenire del partito. Dapprima Franco Marini e poi Romano Prodi furono esposti al pubblico ludibrio di una bocciatura nata principalmente in casa propria. Nel secondo caso, la sera del 19 aprile l’aria che si respirava nella sede PD era di disperazione. E fu allora che il cavalier Berlusconi decise di agire, calando l’asso.
Colui che da due anni si era posto come il salvatore della patria non poteva resistere alla sollecitazione di un nuovo intervento in tal senso. L’offerta di una riconferma di Napolitano, avanzata dal PDL e prontamente accettata da un PD in stato preagonico, fu accolta nel breve volger di una notte dallo stesso Napolitano. Per spirito di servizio ovviamente. Ogni obiezione costituzionale cadde come per magia, il 20 aprile il presidente uscente fu riconfermato, stabilendo un record storico grazie ai voti dei democratici e del centrodestra. Si consumava l’ultima farsa, che vedeva l’ex comunista Rodotà sostenuto dal Movimento Cinque Stelle e dagli ex alleati del PD Sinistra Ecologia e Libertà contro il suo partito che presentava un altro ex comunista ma voluto da Berlusconi.
Con questo viatico poco rassicurante, Giorgio Napolitano prestò il suo secondo giuramento da Presidente della Repubblica il 22 aprile 2013. La sera prima a Montecitorio una folla inferocita fu controllata con una certa apprensione dalle forze dell’ordine schierate a difesa del palazzo, mentre Beppe Grillo, che aveva promesso di essere in piazza con i manifestanti, fu fermato da una telefonata di qualche autorità che gli sconsigliò la comparsata per motivi di ordine pubblico.
Nel discorso di insediamento, Giorgio Napolitano dette un ultimatum alle forze politiche che l’avevano rieletto che meritava oggettivamente una sorte migliore fin dal giorno dopo essere pronunciato, malgrado l’applauso scrosciante e surreale ricevuto sul momento dall’auditorium. Ma del resto, uno dei suoi primi atti fu la nomina del governo Letta, da lui incaricato sulla base delle cosiddette larghe intese e poco tempo dopo ribattezzato ironicamente il governo senza fretta. Ed era più che evidente che ciò faceva parte del pacchetto comprendente la sua stessa rielezione.
L’uomo che ha compiuto da poco 88 anni e a cui non c’era alternativa, secondo la nostra classe politica, per succedere a se stesso è il simbolo di un mondo e di un’epoca che sono arrivati alla scadenza, ma che non vogliono o non possono abdicare a se stessi, sopravvivendosi secondo un fenomeno storico già osservato più volte. Del resto, la stessa storia ci insegna che sono i popoli in genere a costringere i propri governanti ad abdicare. Nessuna casta ha mai fatto la rivoluzione contro se stessa.  Nessuna costituzione è mai stata riformata da coloro che (magari in modo distorto) ne traevano i maggiori benefici. E nessun capo di stato rinuncia alla corona, se non costretto.
Come avrebbe detto il re d’Italia, in Casa Savoia si regna uno per volta. E’ ancora il tempo di Giorgio Napolitano, dunque, ma per quanto? 

Storia dei Presidenti della Repubblica: la monarchia costituzionale di Re Giorgio

Luglio 2011. Il superministro dell’Economia Giulio Tremonti annuncia al paese che la locomotiva Italia non ha mai tirato così forte e che l’economia del nostro paese è tra le più sane e solide del mondo. Gli italiani possono andare in ferie tranquilli, la crisi è un’invenzione di chi vuole minare l’azione di governo e con essa i buoni effetti sulla ripresa italiana dopo le bolle speculative americane del periodo 2007-09.
Gli italiani in ferie ci vanno, più o meno tranquilli come sempre, al massimo al ritorno - credono - troveranno qualche balzello in più o qualche bolletta rincarata, come sempre. E’ difficile peraltro non credere a un Tremonti apparso fino a quel momento un genio della finanza mondiale, uno dei probabili prossimi Premi Nobel per l’Economia.
Al ritorno, gli italiani trovano la crisi economica più spaventosa della loro intera storia. E un Presidente della Repubblica che con volto grave e voce costernata annuncia che il paese si trova sull’orlo di un baratro a cui confronto l’8 settembre era roba da ragazzi. Che l’Europa – prima ancora che la nostra dignità nazionale e la necessità di assicurare un futuro alle prossime generazioni – ci chiede scelte dolorose, difficili e irrinunciabili.
E’ un uomo da sempre amante della retorica Giorgio Napolitano. Avrebbe fatto la sua figura nell’epopea risorgimentale o dannunziana, i suoi discorsi avrebbero rivaleggiato con quelli di Camillo Benso Conte d Cavour, di Vittorio Emanuele II, di Francesco Crispi o perfino del Vate, nei suoi momenti più alti ed ispirati. Ebbene, ci vuole tutta la sua retorica migliore per far digerire ad un popolo italiano frastornato, stordito da un precipitare di una situazione che neanche credeva esistesse tutta una serie di cose che in altri tempi e soprattutto in altri luoghi avrebbero forse scatenato reazioni di piazza o altre manifestazioni di quelle che solitamente vengono associate al termine democrazia.
Margaret Thatcher è stata uno dei più forti Premier della storia inglese, eppure fu abbattuta da una serie di dimostrazioni popolari allorché la gente comune nel suo paese decise che la Poor Tax andava contro il diritto comune e la stessa giustizia. Parigi ogni pochi anni rivede le barricate nelle strade, allorché il governo francese si azzarda a riproporre qualche provvedimento impopolare, come la contestatissima riforma della scuola superiore che, insieme ad altre cose, nel 2005 costò la poltrona al primo ministro Raffarin.
In Italia, nel mese e mezzo circa che occorre alle Istituzioni per informare il popolo che da locomotiva siamo improvvisamente diventati fanalino di coda dell’Europa, appena un gradino sopra delle Grecia in bancarotta e costretti per sopravvivere ad adeguarsi a una serie di diktat di ispirazione franco-tedesca, non succede niente di tutto ciò. Siamo abituati a sopportare, e il Presidente Napolitano questo lo sa bene, dall’alto dei suoi oltre sessant’anni di vita politica ha visto le rivolte di piazza a Budapest e a Praga (e ha inneggiato a chi le soffocava), in Italia al massimo ha visto l’Autunno Caldo e la Strategia della Tensione, roba da niente al confronto. Sa che la svolta che ha in mente avrà successo, il popolo stringerà i denti e la cinghia, e con ogni probabilità lui avrà il suo ritratto nella galleria dei veri o presunti Padri della Patria, dal Risorgimento in poi.
Non si saprà mai da dove è partita veramente la fantomatica telefonata di Angela Merkel che secondo la leggenda lo mise al corrente che l’Europa non tollerava più la permanenza al governo italiano di Herr Berlusconi. Non si sa quanto c’è di vero in quella leggenda, e soprattutto da quale cilindro uscì la soluzione che il Presidente pose davanti al paese perché l’Europa ce lo chiede. Sta di fatto che l’8 novembre 2011 Napolitano accetta le dimissioni di un Berlusconi che non ha più la fiducia del Parlamento, che il giorno precedente ha visto andare in fumo in Borsa il 30% dei titoli della sua Mediaset e non si sa quanto dei titoli dello stato di cui è Premier. E’ chiaro che qualcuno di molto potente non lo vuole più, come è chiaro che qualcosa nell’assetto politico-economico europeo sta precipitando. Quello che non è chiaro è ciò che succede dopo. Tutti, dalla Grecia alla Spagna all’Irlanda tornano a votare, scegliendo – a torto o a ragione – nuovi esecutivi più confacenti alle nuove necessità. Noi no.
Come se in Italia fosse ancora in vigore lo Statuto Albertino e la forma di governo monarchica, con una operazione perfettamente in linea con quella che portò il Maresciallo Badoglio a succedere al Cavalier Benito Mussolini, Giorgio Napolitano si inventa senatore a vita lex-commissario U.E. Mario Monti (fino a quel momento un oscuro travet della politica economica più legato alle grandi banche d’affari internazionali che al paese che ha rappresentato) così come il suo predecessore Ciampi si era inventato lui, e più o meno per gli stessi meriti. E due giorni dopo gli conferisce l’incarico di Presidente del Consiglio.
E’ un governo tecnico, secondo una tradizione italiana dei tempi di crisi che da Badoglio fino a Giuliano Amato ce ne ha fatte vedere – e inghiottire – di tutti i colori. Ma di solito si trattava di pochi mesi, giusto il tempo per arrivare alle elezioni successive e per gestire l’ordinaria amministrazione. Qui invece no, c’è qualcosa che non va, e da subito. Passi la dichiarazione iniziale di Monti, è una bellissima giornata (per chi? Per lui forse, non per chi sta perdendo in massa il lavoro o vede bruciarsi in poche settimane risparmi della vita di più generazioni), passi il sostegno (genuino o obbligato) di tutte le forze del Parlamento o quasi a lui e alla sua politica di “sudore, lacrime e sangue”. Quello che non va davvero è l’intenzione dichiarata di questo governo che ha avuto solo il voto di Giorgio Napolitano di porre mano a tutta una serie di riforme strutturali ed istituzionali per le quali la Costituzione rimandava a ben altre procedure, tra l’altro coinvolgenti necessariamente i cittadini.
Di tutto ciò, nella retorica di colui che comincia ad essere chiamato re Giorgio I (il primo a farlo è il Times di Londra, nientemeno) non ce n’è traccia. Solo richiami alla necessità di sacrifici sempre maggiori, di destini comuni europei insindacabili, di riforme istituzionali che un parlamento di esautorati non può e non potrà mai fare. E tante strette di mano a quella Angela Merkel e a quel Nicolas Sarkozy che se la sono ridacchiata in pubblico al nome di Berlusconi, senza rendersi conto che era alla faccia di un paese intero che ridevano, o forse sapendolo benissimo, come lo sa quel Monti che è fisso a casa loro, che elimina le prospettive di futuro di milioni di persone (lui che ogni mese guadagna settantamila euro circa), lui che al pianto di chi non ha più lavoro ostenta il pianto del ministro del lavoro Elsa Fornero.
E alla fine un solo scatto d’orgoglio, un’unica volta in cui il Presidente si ricorda di rappresentare gli italiani, quando dopo le elezioni del 2013 si trova in Germania e il leader della SPD Peer Steinbruck (che deve incontrarlo) non trova di meglio che dichiarare che gli italiani hanno eletto due clown, Grillo e – di nuovo – Berlusconi. Visita annullata, e ci sarebbe mancato altro che il contrario.

Le elezioni cadono nel periodo conclusivo del suo mandato, con il semestre bianco che complica un’impasse politica pressoché totale. Non si dimette in anticipo come Cossiga, non si ricandida come qualcuno gli chiede, da destra e da sinistra. Sarebbe l’ora di prendere il posto nella galleria dei ritratti. Ma evidentemente resistere a certe pressioni e a certi richiami non si può. Re Giorgio è destinato a succedere a se stesso.

Storia dei Presidenti della Repubblica: Napolitano I° (2006-2013)

Dopo la morte di Enrico Berlinguer e ancor più dopo che sotto i colpi della Perestrojika di Gorbaciov morì anche l’Unione Sovietica, sembrò di nuovo che il tempo del comunista liberale Giorgio Napolitano fosse venuto. Come avrebbe detto Boris Eltsin (e non solo lui), però, il comunismo non è riformabile, né quello sovietico né quello italiano.
La base una volta di più avrebbe preferito uno dei “suoi”, duri e puri, respingendo ancora l’uomo del dialogo e del compromesso con la “destra”. Fu Alessandro Natta a diventare segretario del P.C.I. dopo Berlinguer, e a Napolitano non restò che continuare la battaglia iniziata per il cambio di nome e ragione sociale del Partito: da Partito Comunista Italiano a Partito democratico della Sinistra. Battaglia tardiva, che sarebbe stata vinta e poi vanificata da Achille Occhetto, esponente della nouvelle vague post-Berlinguer che avrebbe rottamato (almeno in apparenza) il P.C.I. e mandato per sempre in soffitta la Falce ed il martello.
Nel 1992, un anno dopo la nascita della Cosa post-comunista ed in piena Tangentopoli, toccò a lui succedere a Oscar Luigi Scalfaro, nominato Presidente della Repubblica, come Presidente della Camera dei Deputati. Fu il primo incarico istituzionale della sua vita, e già allora non avrebbe mancato di causare sconvolgimento e scalpore con alcune sue importanti decisioni. Da presidente, Napolitano negò l’accesso agli atti della Camera alla Guardia di Finanza che indagava per conto del Pool Mani Pulite sui bilanci dei partiti politici e su presunti compensi irregolari percepiti da parlamentari.
con Bettino Craxi
Decisione formalmente ineccepibile secondo una visione asettica del diritto pubblico, ma in completa controtendenza rispetto ad un’opinione pubblica che sollecitata da Tangentopoli chiedeva conto dell’impiego legittimo o meno di quelli che il giudice Di Pietro aveva definito brutalmente ma efficacemente “i nostri soldi”.
Quando poi si trattò di votare l’autorizzazione a procedere contro il leader socialista Craxi, Napolitano ratificò la decisione dell’Assemblea che l’aveva respinta, ma subito dopo – con decisione che non mancò di assumere un connotato inevitabilmente polemico e “mirato” - dispose che analoghe votazioni si tenessero in futuro in forma palese, innovando così ad una prassi parlamentare ultrasecolare.
Questa decisione ebbe ovviamente il plauso di un’opinione pubblica ormai largamente ostile a quello che veniva definito il “Parlamento degli inquisiti”, ma parve un voltafaccia ai suoi colleghi con i quali aveva intrattenuto cospicui rapporti ultraventennali. Lo stesso Craxi non mancò di farglielo rimarcare, allorché durante la deposizione al Processo Cusani (alla fine, l’unico processo celebratosi per Tangentopoli e che finì per diventare di fatto un processo alla classe politica della Prima repubblica) lo accusò apertamente di aver preso parte al sistema di corruzione generalizzato, avendo fatto parte di un partito che non aveva mai fatto mistero di ricevere aiuti economici da uno stato estero per di più nominalmente ostile, l’Unione Sovietica.
Dopo la vittoria di Berlusconi nel 1994, Napolitano, tornato ad essere un semplice parlamentare del PDS (per quanto di spicco) ebbe il plauso del neo Presidente del Consiglio per il discorso ufficiale in rappresentanza del suo partito nel dibattito sulla fiducia. Per quanto simile plauso non fosse granché condiviso dal partito in nome del quale Napolitano aveva parlato, il rapporto con Berlusconi era stato tuttavia instaurato ed era destinato a mantenersi più che buono per almeno i successivi 15 anni.
Dopo la fine del primo governo Berlusconi, Napolitano fu poi ministro dell’Interno per Romano Prodi. Il suo periodo al Viminale viene ricordato principalmente per due motivi: l’aver promosso insieme a Livia Turco quella legge che istituendo i centri di permanenza temporanea per gli immigrati clandestini aprì di fatto le porte del nostro paese all’invasione degli extracomunitari irregolari, e l’aver scarsamente vigilato su Venerabile Licio Gelli, Gran Maestro della P2, che fuggì all’estero il giorno stesso (28 aprile 1998) della condanna definitiva per strage e altri delitti da parte della Cassazione.
Dopo la caduta di Prodi, nel 1999 fu eletto al Parlamento Europeo, mentre al Quirinale saliva il suo amico Carlo Azeglio Ciampi che alla scadenza della legislatura, nel 2005 lo nominò Senatore a vita, insieme al designer di autovetture Sergio Pininfarina.
Un anno dopo, credendo di stabilire una continuità con la apprezzatissima presidenza Ciampi, la maggioranza parlamentare in quel momento in mano all’Ulivo di Prodi, lo elesse Presidente della Repubblica alla quarta votazione. L’ultimo pezzo del Muro di Berlino era caduto, e un ex comunista saliva per la prima volta al Quirinale.
La Presidenza Napolitano si aprì in pratica all’Olympiastadion di Berlino, dove alla sua presenza gli azzurri di Marcello Lippi vinsero il 9 luglio 2006 il quarto titolo mondiale di calcio della storia d’Italia. Ma più che a quella di Sandro Pertini, che aveva assistito alla vittoria del terzo nell’82 al Santiago Bernabeu di Madrid, la sua presidenza era destinata almeno per i primi cinque anni ad assomigliare a quelle incolori, notarili, eccessivamente concentrate sugli aspetti formali e formalistici del proprio ruolo di un Giovanni Leone o di un Francesco Cossiga prima di diventare il picconatore.

In realtà, Giorgio Napolitano fu da subito assai più interventista di quanto sembrasse a prima vista, intervenendo pesantemente nelle varie guerre tra le Procure in qualità di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura (i casi Woodcock e De Magistris furono clamorosi) e soprattutto intervenendo nelle varie guerre intestine all’Ulivo, cercando di salvare dapprima Prodi e poi comunque la legislatura a maggioranza di sinistra, con un incarico a Franco Marini degno dei giorni migliori (o peggiori) della Prima Repubblica. Ma era nella legislatura successiva alla vittoria elettorale di Berlusconi nel 2008 che la Presidenza Napolitano avrebbe dispiegato i suoi effetti – è il caso di dire – più devastanti, conquistandosi a torto o a ragione un posto di clamoroso rilievo nella storia di questo paese.

Storia dei Presidenti della Repubblica: Napolitano, il comunista liberale

“Non possiamo non dirci liberali”. Con questa frase, retorica come nel suo stile, Giorgio Napolitano ha riassunto la sua vita in apertura della lunga intervista concessa ad Eugenio Scalfari pochi giorni dopo la sua rielezione a Presidente della Repubblica e pochi giorni prima di compiere 88 anni. Doveva essere la prima intervista privata concessa dal vecchio Presidente al termine del suo mandato e, presumibilmente, della sua lunga e controversa carriera politica, un bilancio della propria vita, del XX secolo che ha attraversato, del XXI° il cui sviluppo futuro sta fortemente condizionando. E’ stata invece, clamorosamente, la prima intervista pubblica concessa dal nuovo Presidente, nelle stanze del Quirinale dove si è appena reinsediato poco dopo aver prestato giuramento ad una Repubblica e ad un Popolo Italiano più sbigottiti che mai.
C’era un sacco di gente quella sera in cui è stato rieletto Presidente a manifestare inferocita in Piazza Montecitorio. Ce n’era peraltro molta di più a Budapest a manifestare nelle strade il 4 novembre 1956 quando i carri armati sovietici arrivarono a stroncare i sogni di libertà del popolo ungherese. La storia di Giorgio Napolitano, politicamente non ancora conclusa, si è snodata finora tra queste manifestazioni, egualmente frustrate anche se in modo decisamente diverso. Nei giorni successivi alla repressione della rivolta ungherese fu proprio il giovane deputato napoletano, in rapida ascesa grazie al favore personale nientemeno che dell’allora leader comunista Palmiro Togliatti, a rendersi autore di una delle prese di posizione più spietate contro gli insorti, elogiando quell’intervento sovietico che aveva “non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ma alla pace nel mondo”.
Cominciò così la carriera politica dell’uomo che sarebbe diventato il primo Presidente della Repubblica eletto due volte, oltre che il primo Presidente della Repubblica proveniente dal mondo comunista. Il P.C.I. dopo i fatti di Budapest visse al suo interno la sua prima grande crisi, con una frattura tra quanti vedevano negli ungheresi dei "teppisti controrivoluzionari” e quanti cominciavano a chiedersi invece se valesse la pena sognare quel paradiso dei lavoratori che aveva mandato in Ungheria più uomini e carri armati (200.000 e 4.000 rispettivamente) di quanti ne avesse mandati Hitler in Unione Sovietica nel giugno del 1941. La frattura fu in qualche modo ricomposta negli anni successivi, per manifestarsi di nuovo dopo la morte di Togliatti allorché nel 1968 fu la volta della Cecoslovacchia di ribellarsi all’U.R.S.S. e fare la stessa fine dei compagni ungheresi di 12 anni prima.
In tutti quegli anni Napolitano aveva prosperato, salendo fino al rango di vicesegretario del partito insieme a Luigi Longo (figura carismatica di ex-partigiano). A suo dire, in questi anni era maturata la crisi interiore che da fedele alla linea l’avrebbe portato a convertirsi al riformismo di Giorgio Amendola (figlio del liberale Giovanni, martire a causa dei fascisti), che con i tempi storici e i metodi bizantini tipici del centralismo comunista stava elaborando la presa di coscienza che il capitalismo non fosse un sistema da abbattere, ma piuttosto da riformare stando al suo interno e cercando di migliorare progressivamente le condizioni di vita delle classi lavoratrici. Era una svolta che nei paesi anglosassoni e nella Repubblica Federale Tedesca era avvenuta fin dagli anni 40 e 50 con il passaggio alla Socialdemocrazia ed il rifiuto dell’Internazionale Comunista. Nel P.C.I. ancora a fine anni 60 se ne discuteva aspramente e in maniera inconcludente. La parte riformista in ogni caso non era certo quella prevalente.
con Nicolae Ceausescu
Quando anche Praga fu occupata dai russi, la spaccatura all’interno del mondo comunista italiano esplose insanabile. Il gruppo che faceva capo alla rivista Il Manifesto, Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Aldo Natoli, Luciana Castellina, Lucio Magri, Valentino Parlato e altri si posero in aperto dissidio con la Segreteria del partito, nel frattempo finita nelle mani di Enrico Berlinguer che aveva rimontato e superato proprio Napolitano. I dissidenti furono espulsi e dettero vita alla sinistra extraparlamentare italiana, Berlinguer criticò l’U.R.S.S. senza metterne in discussione l’alleanza, Napolitano dette vita a una vera e propria corrente alla destra di un partito che fino a quel momento si era vantato di non prevedere correnti. Fu chiamata, con una nota di disprezzo da parte dei suoi avversari interni, la corrente dei “Miglioristi”, di coloro cioè che non volevano più la rivoluzione dal capitalismo ma si accontentavano di un suo miglioramento.
con Enrico Berlinguer
Per tutti gli anni 70 e 80, Giorgio Napolitano sembrò essere diventato un esponente minoritario e in disgrazia di un partito che stentava ad adeguarsi a tempi che stavano prepotentemente cambiando. La sua attività principale consistette in un giro di conferenze in Gran Bretagna, Germania (dove erano gli anni della ostpolitik, l’apertura all’Est sovietico, di Willy Brandt) e perfino negli Stati Uniti (fu il primo esponente comunista ad avere il visto nel 1978) perlopiù incentrate sul tema dell’evoluzione della sinistra europea verso l’Eurocomunismo e delle prospettive della socialdemocrazia nel Vecchio Continente.

Ebbe di fatto anche un ruolo sostanziale di mediatore-ambasciatore tra campi ancora formalmente contrapposti, il P.C.I. (a cui Berlinguer aveva fatto digerire l’ombrello atomico della NATO e lo strappo da Mosca dopo l’invasione dell’Afghanistan ma che stentava a trarne le conseguenze politiche), il P.S.I. che sotto la guida di Bettino Craxi aveva preso la leadership del campo riformista e rimesso in un angolo i comunisti dopo gli anni del compromesso storico ed il delitto Moro, la NATO che viveva gli anni della recrudescenza della Guerra fredda con Reagan e la Thatcher. Fece scalpore la dichiarazione dell’ex segretario di stato americano Henry Kissinger nel 1986, secondo cui Giorgio Napolitano era il suo comunista preferito.

Storia dei Presidenti della Repubblica: Ciampi (1999-2006)

Ci sono delle immagini istantanee che riescono a sintetizzare e a riassumere una intera vita politica, o comunque pubblica, più di centomila parole. Qualunque cosa un personaggio abbia fatto prima o farà dopo, quello è il momento (immortalato dalle telecamere o dai fotografi) in cui egli ha consegnato alla storia il suo paradigma umano e politico. Così, ci ricordiamo Giovanni Leone per il gesto scaramantico delle corna rivolto agli studenti che lo contestavano, Sandro Pertini per il gesto della mano al secondo gol di Tardelli al Santiago Bernabeu di Madrid nella finale del Mondiale 1982 a significare «Non ci riprendono più!», Oscar Luigi Scalfaro per l’indice sollevato ed il pugno quasi sbattuto sul tavolo durante il celebre messaggio agli italiani del «Non ci sto!».
Carlo Azeglio Ciampi, Presidente della Repubblica italiana dal 1999 al 2006, ce lo ricorderemo soprattutto per quella mano appoggiata per lunghissimi istanti sulla bara di uno dei militari italiani appena riportati in patria dopo l’attentato di Nassiryia, il fatto di sangue più tragico e con il maggior numero di vittime in cui è stato coinvolto il nostro esercito dopo la Seconda Guerra Mondiale.
E’ stato tante cose Carlo Azeglio Ciampi, nella sua vita privata prima e nella sua carriera politica poi. Studente modello dai Gesuiti e poi alla Scuola Normale di Pisa, alla quale fu ammesso addirittura da un esaminatore celeberrimo quale Giovanni Gentile, poi laureato in Lettere e subito dopo, si era nel 1941, sottotenente del Regio Esercito italiano comandato in Albania. L’8 settembre lo sorprese mentre era in permesso in Italia. Rifiutò di aderire alla Repubblica Sociale Italiana e si unì ai partigiani andando a rifugiarsi sulle montagne dell’Abruzzo, dove il suo vecchio maestro, il filosofo Guido Calogero lo avvicinò al Partito d’Azione, la formazione di resistenti che si ispirava alle idee liberali e socialiste di Giustizia e Libertà dei Fratelli Rosselli e che era la più importante per consistenza dopo quella di matrice comunista.
Nell’inverno del 1944 il suo gruppo attraversò le linee tedesche per andare a ricongiungersi con gli Alleati, in quel momento fermi davanti alla Linea Gustav, il fronte tedesco che correva da Cassino ad Ortona. La durissima marcia tra le montagne innevate della Maiella si concluse felicemente, ed il Sottotenente Ciampi, giunto a Bari, poté fare due cose: arruolarsi nel ricostituito Esercito Italiano che proseguiva la guerra al fianco degli Alleati, ed iscriversi formalmente al Partito d’Azione.
Tornato alla vita civile, nello stesso anno – il 1946 – sposò la fidanzata Franca Pilla conosciuta negli anni di studio a Pisa, sempre a Pisa alla Normale conseguì una seconda laurea, questa volta in Giurisprudenza, e partecipò vittoriosamente al concorso come impiegato della Banca d’Italia, dove sarebbe rimasto per 47 anni, gli ultimi 14 dei quali da Governatore. La sua carriera dentro la Banca fu rapida, come era in carattere con il personaggio. Nel 1960 era già all’Amministrazione Centrale, nel 1973 segretario generale, nel 1976 vicedirettore generale e nel 1978 direttore generale. Nel 1979, allorché il Governatore Aurelio Baffi fu travolto dallo scandalo del crack di Michele Sindona e addirittura arrestato (poi scagionato), Ciampi era in pole position per succedergli, e così fu.
I suoi anni al Governatorato videro una ripresa dell’economia italiana che indubbiamente resero la sua opera più facile di quella dei predecessori. Gli anni 80 erano quelli delle vacche grasse, economicamente parlando, e tutto sommato anche politicamente godettero di una stabilità raramente verificatasi nel sistema politico italiano, con i governi Spadolini, Craxi e De Mita che ressero agevolmente il timone di una barca italiana che sembrava procedere a gonfie vele, dopo la fine degli Anni di Piombo. Al Governatore non furono mai richieste scelte drastiche o epocali, anche se Ciampi ebbe modo di farsi conoscere per la sua personalità e competenza anche al di fuori del ristretto mondo dei banchieri.
Cosicché, quando le vacche smagrirono tra il 1992 ed il 1993 e per uscire dalla crisi innescata dal crollo del Serpente Monetario a livello europeo e da Tangentopoli a livello italiano serviva un governo tecnico che per una volta lo fosse veramente, alle forze politiche ed al Presidente Scalfaro venne in mente un nome solo: quello di Carlo Azeglio Ciampi. Il Governatore era ben visto da tutti, dalla destra liberale e cattolica in quanto uomo rigoroso di cui nessuno aveva mai potuto parlare meno che bene, dalle sinistre di ogni tipo in quanto vecchio iscritto alla C.G.I.L.
fintantoché i suoi ruoli istituzionali glielo avevano consentito.
La nomina di Ciampi, imposta dagli eventi e dalla crisi di rappresentatività in cui versavano le forze politiche in quella primavera del 1993, fu storica, in quanto si trattò del primo Presidente del Consiglio non scelto tra i membri del parlamento della storia della Repubblica. Un evento unico e mai più ripetuto, poiché quando anni più tardi Napolitano conferì l’incarico a Mario Monti lo aveva prima nominato senatore a vita, cooptandolo in tal modo nel Parlamento. L’extraparlamentarietà di Ciampi sollevò qualche polemica proprio perché si trattava di una figura al di fuori della rappresentanza popolare, ma si trattò di obiezioni minoritarie a cui i molti sostenitori dell’ex Governatore poterono obiettare (oltre alla caratura del personaggio) che l’art. 92 della Costituzione non poneva nessun vincolo circa l’appartenenza del Premier a una delle due camere.
Stabilizzata la situazione politica ed economica ed esaurito il suo compito, nel 1994 Ciampi passò la mano a Berlusconi, uscito vincitore dalle urne, e tornò a ricoprire un incarico direttivo in un istituto bancario, questa volta a livello comunitario. Vi rimase fino al 1996, allorché con la vittoria dell’Ulivo l’incarico a formare il nuovo governo fu dato a Romano Prodi, che lo chiamò subito a far parte della squadra dei ministri. E anche questa volta la nomina di Ciampi implicò aspetti innovativi. Il funzionario di banca livornese fu trasformato in un Superministro dell’Economia, assommando nella sua persona le cariche del Bilancio e del Tesoro.
Nei tre anni successivi, nel governo di Prodi e poi in quello di D’Alema (dopo che Bertinotti fece al professore bolognese quello che Bossi aveva fatto a Berlusconi quattro anni prima), fu Ciampi ad occuparsi dell’opera di riduzione del debito pubblico italiano per farlo rientrare nei parametri previsti dal Trattato di Maastricht sottoscritto dai Paesi membri della Comunità Europea in funzione dell’adozione a livello continentale della moneta unica, l’Euro. Fu inoltre lui ad occuparsi dell’avvio delle privatizzazioni di aziende e servizi pubblici per conto di quel Prodi che era stato una volta Presidente dell’Istituto Ricostruzione Industriale (I.R.I.), l’Ente che gestiva l’industria di Stato e che adesso si faceva carico della sua dismissione a privati. Tra i servizi privatizzati, i casi più eclatanti furono le Poste, le Ferrovie e l’Azienda Telefonica di Stato, o Telecom. Anche qui non mancarono le polemiche, che anzi sotto diversi aspetti durano tutt’ora.
Nel 1999 venne in scadenza il mandato di Oscar Luigi Scalfaro. Spettava al centrosinistra che aveva la maggioranza proporre un candidato. D’Alema propose il suo ministro che in quel momento, per quanto ovviamente di area ideologica ulivista, non era iscritto a nessun partito e non era neppure ancora membro del Parlamento. E pertanto, oltre che per la sua personalità rispettata da tutti, incontrava (unico tra gli ulivisti) il gradimento anche del centro-destra. Dopo Cossiga, fu il secondo Presidente eletto alla prima votazione. Per la seconda volta, l’uomo venuto da fuori del Parlamento fu promosso all’incarico, e nessuno praticamente ebbe da ridire.
con i Caduti di Nassyiria
Carlo Azeglio Ciampi fu il Presidente che dopo Sandro Pertini ebbe l’indice di gradimento più alto tra gli italiani. Nel suo settennato l’Italia si affacciò non soltanto sulla nuova realtà dell’Euro e delle sue contraddizioni ma anche su un contesto internazionale in cui le veniva chiesto di esercitare un nuovo ruolo attivo di forza di pace (o di guerra, a seconda dei punti di vista), a prezzo di lacerazioni che partivano da lontano, da quell’art. 11 della Costituzione che recitava: L’Italia ripudia la guerra (….) come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Nessuno meglio del vecchio e onorato sottotenente di Fanteria era in grado di governare questa transizione verso una riscoperta da parte degli italiani dei valori di Patria, Risorgimento e Resistenza ritrasmettendo loro sentimenti positivi verso quei simboli costituiti dal Tricolore e dall’Inno di Mameli. Che purtroppo, come nei giorni successivi a quel tragico 12 novembre 2003 in cui tornarono in Italia da Nassiryia 19 feretri fasciati dalla bandiera bianca rossa e verde, in questo periodo riprese a suonare spesso in occasione di onoranze funebri rese a nostri militari caduti in servizio in missioni di pace (o di guerra) all’estero.
Quando nel 2006 il suo mandato si concluse, il gradimento per la sua opera era giunto a livelli tali tra le forze politiche (per non dire tra la popolazione), che molti gli chiesero la disponibilità ad un secondo mandato. Carlo Azeglio Ciampi non ebbe esitazioni a dire no. Sia per ragioni anagrafiche, essendo egli del 1920 e avendo compiuto allora 86 anni, sia per ragioni di opportunità istituzionale, Ciampi si espresse decisamente a sfavore di un Ciampi-bis: «Il rinnovo di un mandato lungo quale è quello settennale, mal si confà alle caratteristiche proprie della forma repubblicana del nostro Stato», furono le sue parole, purtroppo in seguito ed in altre circostanze inascoltate.

con il suo successore Giorgio Napolitano
Pochi mesi prima di dimettersi, il 15 maggio 2006, aveva nominato senatore a vita un uomo politico a cui era legato da rapporti di amicizia personale, oltre che da stima: Giorgio Napolitano. Poiché anche in quel momento era il centrosinistra ad avere la maggioranza, il Partito Democratico intese candidare quest’ultimo proprio nel senso di una continuità con il mandato che si era appena concluso. Come gli eventi si sarebbero incaricati di dimostrare, fu la classica scelta che si rivelò improvvida, almeno in relazione alle motivazioni che l’avevano dettata. Tanto Ciampi era stato super partes, tanto il suo successore sarebbe stato di parte. Ma questa è un’altra storia.

Storia dei Presidenti della Repubblica: Scalfaro (1992-1999)

Nei momenti più difficili, la politica italiana tira sempre fuori dal cilindro il coniglio bianco, il volto presentabile per ripulire l’immagine compromessa di tutta la Casta. Era stato così nel 1978, allorché un Parlamento scosso dall’omicidio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse e dagli scandali in successione che avevano finito per coinvolgere anche il Quirinale nella persona del suo inquilino pro-tempore Giovanni Leone aveva individuato nell’ex partigiano socialista Sandro Pertini l’uomo capace di riconciliare il popolo con la politica e di evitare che la fragile democrazia italiana fosse travolta dagli attacchi concentrici di terrorismo e corruzione.
Fu così anche nel 1992, quando la bomba scoppiata a Capaci si portò via Giovanni Falcone, la moglie, i cinque agenti di scorta e le residue illusioni di quanti, politici o cittadini, speravano ancora di salvare la Prima Repubblica ormai in ginocchio dopo le picconate del Presidente Cossiga e i primi risultati dell’azione del Pool Mani Pulite.
Quando Giovanni Brusca premette il detonatore sulla collina sovrastante Capaci, il Parlamento era in seduta comune, impegnato a trovare un successore a Francesco Cossiga che si era dimesso con due mesi di anticipo per evitare la concomitanza tra elezioni parlamentari ed elezioni presidenziali. L’attentato mafioso colse completamente di sorpresa l'Assemblea, che credeva di poter ripetere grandi manovre e rituali delle precedenti elezioni (con l’eccezione proprio dell’ultima, che aveva portato proprio Cossiga al Quirinale e che era stata concordata in sede extraparlamentare) con l’esito prevedibile - almeno secondo la logica in vigore fino a quel momento - dell’ascesa al Colle di uno dei generali democristiani, se fossero riusciti a superare la forte opposizione dell’altro protagonista del momento, il segretario socialista Bettino Craxi.
Né Arnaldo Forlani né il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti ce la fecero, finché la bomba spazzò via tutto e impose la scelta di qualcuno che fosse stato fino ad allora al di fuori dei grandi giochi di potere, o che almeno la gente comune potesse ritenere tale. Fu il radicale Marco Pannella a tirar fuori il nome di Oscar Luigi Scalfaro, parlamentare democristiano di secondo piano, in quel momento Presidente della Camera e universalmente ritenuto persona di specchiata onestà al di sopra di ogni sospetto. Da De Mita a Craxi, i leader del Pentapartito (la coalizione che aveva governato l’Italia fino a quel momento) accettarono, ed anche la nuova Cosa che aveva preso il posto del Partito Comunista, il Partito Democratico della Sinistra di Achille Occhetto, fu ben felice di votarlo per sbarrare la strada al nemico storico Andreotti. Così nacque la Presidenza Scalfaro, che doveva ricondurre il Paese all’unità nazionale come aveva fatto Pertini. E che invece, per gli sviluppi successivi altrettanto drammatici, era destinata a dividerlo ancora di più.
Oscar Luigi Scalfaro era un piemontese di famiglia originaria della Calabria. Era di famiglia nobile, un suo antenato era stato ufficiale dell’esercito di Gioacchino Murat, e da questi aveva ottenuto la baronia, in quel di Lamezia Terme. Lui era nato a Novara, da madre piemontese, e si definiva figlio dell’Unità d’Italia. Iscritto all’Azione Cattolica fin da giovanissimo, si laureò in Giurisprudenza alla Cattolica di Milano e intraprese la carriera di magistrato. Negli anni della guerra entrò in contatto con l’antifascismo e la futura classe dirigente democristiana, che allora operava al riparo della FUCI, la federazione universitaria cattolica. Finite le ostilità, il magistrato Scalfaro fu reclutato dagli angloamericani per far parte delle Corti di Assise straordinarie che dovevano giudicare gli ex fascisti ed i criminali di guerra, in luogo dei processi sommari e dei linciaggi che spesso e volentieri si erano verificati all’indomani della Liberazione. Scalfaro si fece un nome in questa attività come Pubblico Ministero assai severo, che in diverse circostanze non si fece scrupolo di chiedere la pena di morte per gli imputati.
La sua attività in ambito giudiziario ebbe comunque termine allorché si presentò come candidato indipendente nelle liste DC all’Assemblea Costituente, alla quale fu eletto con moltissimi voti di preferenza, il che attesta la sua popolarità in un momento in cui la gente aveva gran voglia di giustizia, di vendetta, di cambiamento e di normalizzazione insieme. Per quanto Scalfaro si ritenesse più adatto a operare nell’ambito del Potere Giudiziario e si considerasse - come dichiarò in seguito - transitato nel Legislativo solo per necessità, in realtà si dimostrò un deputato altrettanto inflessibile di quanto lo era stato da magistrato. Alla Costituente lavorò nel gruppo incaricato della eliminazione dal Codice Penale di quella pena di morte che aveva chiesto di comminare più volte.
Nel 1948 fu in prima linea nella Democrazia Cristiana impegnata ad arginare il Fronte Popolare social-comunista. All’inizio degli anni ’50, accaddero i due episodi che avrebbero caratterizzato, per non dire etichettato, la sua personalità politica per il tempo a venire. Nel 1950 in un noto ristorante romano il giovane onorevole Scalfaro ebbe un vivace alterco con una altrettanto giovane signora colpevole a suo dire di ostentare un abbigliamento sconveniente, in quanto mostrava le spalle nude. La cosa degenerò a tal punto che Scalfaro chiese addirittura l’intervento delle forze dell’ordine, mentre la signora finì per querelarlo per ingiurie. La stampa lo bollò immediatamente come moralista e bigotto, ed il padre della signora lo sfidò addirittura a duello per lavare l’onore della figlia. Ma i duelli, come i titoli nobiliari, erano cose che appartenevano ad un passato spazzato via dalla nuova Repubblica, e Scalfaro se la cavò con una cattiva rassegna stampa alla quale prese parte addirittura Antonio De Curtis, in arte Totò, che gli dette pubblicamente del villano e del codardo.
con Silvio Berlusconi
Nel 1952, allorché in Parlamento infuriava la battaglia pro o contro la cosiddetta Legge Truffa (la prima storica proposta di legge, di iniziativa DC, di concessione di un premio di maggioranza alla coalizione che vinceva le elezioni, che fu così ribattezzata da una opposizione ancora scottata dalla sconfitta del ’48 e preoccupata di essere ridotta all’impotenza), ad un Emiciclo in cui si respirava ormai una atmosfera al calor bianco Scalfaro non trovò di meglio che proporre di sedere in permanenza, domenica compresa, fino a votazione avvenuta. Raccontò poi Pietro Nenni, leader socialista, che andò a finire “con un pugilato come non si era mai visto. Volarono perfino le palline del banco delle commissioni. Ci furono parecchi contusi e un ferito grave, un usciere”. Decisamente, Scalfaro non era destinato ad essere un uomo che favoriva le mediazioni e le riappacificazioni.
Politicamente, Scalfaro si collocava alla destra DC, nella corrente di Mario Scelba, il Ministro dell’Interno che divenne famoso per l’uso abbondante e senza remore della Celere, il reparto di polizia di pronto intervento da lui creato e spesso mandato a fronteggiare i tumulti di piazza. Nel primo e unico governo Scelba, Scalfaro fu sottosegretario alla Presidenza del Consiglio ed al Turismo e Spettacolo. La scelta non fu felice, il suo proverbiale moralismo e la conseguente censura che pretese di esercitare sulle opere soprattutto cinematografiche gli attirarono contro gli strali di pressoché tutti gli intellettuali italiani.
All’avvento del centrosinistra, da uomo di destra inviso ai socialisti, Scalfaro entrò in un lungo periodo d’ombra, da cui lo trasse fuori dopo vent’anni un altro socialista, quel Bettino Craxi che nel 1983 formò il suo primo storico governo e che volle all’Interno un DC che non fosse uno dei cosiddetti notabili. Craxi non amava Scalfaro, ma amava anche meno De Mita o Andreotti.
con Papa Giovanni Paolo II
I quattro anni della sua permanenza al Viminale furono contrassegnati da diversi fatti tragici: dai colpi di coda del terrorismo con l’omicidio di Ezio Tarantelli e Lando Conti, alle stragi nere come quella del Rapido 904, ai delitti di mafia come quello di Rocco Chinnici e Ninni Cassarà. Per due anni fu presidente della commissione di inchiesta sulla ricostruzione in Irpinia dopo il terremoto del 1980. Quando Cossiga si dimise nell’aprile 1992, era stato appena eletto Presidente della Camera quando la scelta per il successore al Quirinale cadde su di lui.
Il sollievo per la designazione di un volto pulito (ancorché controverso) come il suo durò poco. Il Paese era ormai scosso, per non dire travolto da Tangentopoli. Scalfaro fece poco o nulla per frenare la valanga. Cominciò opponendo un no alla candidatura alla Presidenza del Consiglio di un Craxi che ancora non aveva ricevuto avvisi di garanzia ed aprì invece la strada al suo ex luogotenente Giuliano Amato, che sotto le mentite spoglie dell’ennesimo governo tecnico operò – senza una parola di dissenso da parte del Quirinale – scelte epocali quali l’uscita dal Serpente Monetario, la svalutazione selvaggia della Lira e perfino i prelievi forzosi dai conti correnti dei cittadini. In generale, Scalfaro si schierò a fianco dei suoi ex colleghi magistrati operando nel senso di favorire almeno un ricambio generazionale nei partiti, di fatto ottenendo la loro dissoluzione.
Più ancora del suo predecessore il picconatore Cossiga, Scalfaro risultò determinante nel crollo della Prima Repubblica, anche se poi contrastò altrettanto fieramente l’avvento della Seconda. Nel 1993, l’anno in cui lo Stato si ritrovò sotto attacco da parte di una Mafia che aveva rivolto la propria strategia dinamitarda contro il patrimonio artistico, anche l’intransigente Presidente della Repubblica finì sotto attacco. Lo scandalo SISDE relativo alla gestione dei suoi fondi riservati finì per coinvolgere anche l’inquilino del Quirinale, e perfino la stessa figlia Marianna, la cui figura peraltro stava acquisendo rilevanza pubblica quasi pari a quella del padre. Le indagini dimostrarono che la famiglia presidenziale era assolutamente al di fuori di qualsiasi reato connesso all’uso distorto di fondi pubblici.
Scalfaro tuttavia ritenne opportuno rivolgersi alla nazione protestando la sua innocenza. La sera del 3 novembre 1993 fece interrompere addirittura una partita di calcio di Coppa UEFA per rivolgere un messaggio a reti unificate agli italiani. Fu il discorso del famoso “Non ci sto!” che portò il climax politico e sociale a livelli di calor bianco raramente raggiunti nella storia repubblicana. Scalfaro lamentò nei suoi confronti una rappresaglia del mondo politico e dei cosiddetti apparati per fargli pagare il ruolo avuto nella loro caduta in disgrazia durante Tangentopoli.
con la figlia Marianna
Ma fu dal 1994 con la discesa in campo di Silvio Berlusconi e la irresistibile e repentina ascesa di Forza Italia che la Presidenza Scalfaro entrò - come si suol dire – nel vivo. Il Presidente della Repubblica ed il futuro Presidente del Consiglio vincitore delle elezioni non si presero fin dal primo istante. Fin dalla presentazione da parte di Berlusconi della lista dei ministri, nella quale spiccava il nome di Cesare Previti (indagato ma non ancora condannato) al Ministero della Giustizia. Scalfaro l’ebbe vinta, ottenendo la sostituzione di Previti con Alfredo Biondi, ma la guerra era solo rimandata.
Quando a dicembre la Lega di Bossi mise in crisi il governo Berlusconi, quest’ultimo chiese il ritorno alle urne, adducendo a sostegno lo spirito della nuova legge elettorale maggioritaria, che andava nel senso di far scegliere il premier direttamente dal popolo. Scalfaro gli si oppose con tutte el sue forze, adducendo invece che quella italiana era ancora una repubblica parlamentare, che in Parlamento si poteva trovare una maggioranza alternativa per fare un nuovo governo. E così fu, il governo Dini (l’ennesimo governo tecnico che poi tecnico non era) tenne lontano il centrodestra, almeno nominalmente, dal potere per due anni, preparando lo spostamento dell’asse politico verso il centrosinistra, che con Romano Prodi e la coalizione detta dell’Ulivo vinse le elezioni nel 1996.
In questo periodo, il consenso unanime di cui la Presidenza Scalfaro aveva goduto nel momento dell’agonia della Prima Repubblica ebbe termine, per lasciare il posto ad una spaccatura coincidente con i due schieramenti che si contendevano il potere nella Seconda. Dalla parte del Quirinale era l’Ulivo, preoccupato principalmente di evitare il ritorno al potere di colui che era diventato in un battibaleno lo spauracchio della Sinistra, Silvio Berlusconi, e che vedeva in Scalfaro un baluardo. Contro di lui era il Polo della Libertà, la formazione in cui si articolava il campo dell’Uomo di Arcore.

La legge sulla par condicio nei mezzi di comunicazione, patrocinata senza mezzi termini da Scalfaro, fu vista dal centrodestra come un attacco esplicito alla dirompente potenzialità del sistema mediatico di Berlusconi, ed una delle cause principali della sua sconfitta nel 1996. Gli ultimi anni della Presidenza di Oscar Luigi Scalfaro, l’uomo che avrebbe voluto essere considerato super partes come la sua formazione giuridica gli avrebbe imposto, trascorsero in realtà in un progressivo spostamento verso l’area di governo di centrosinistra, dal quale invocava sempre più esplicitamente sostegno ogni volta che subiva un attacco. Quando nel 1999 cessò il suo mandato, Scalfaro da senatore a vita poté finalmente uscire allo scoperto votando la fiducia al secondo governo di Massimo D’Alema, al quale lui stesso aveva conferito il primo incarico.