mercoledì 31 ottobre 2012

L’Impero ha colpito ancora. La Disney compra la Lucasfilm: arriva Star Wars 7

La fabbrica dei sogni non si ferma. L’Impero ha colpito ancora: quello di Walt Disney. 90 anni dopo la sua fondazione a Burbank, California, da parte dei fratelli Walter Elias e Roy Disney, 46 anni dopo la morte di Walt, la company che è ad oggi la più grande azienda del mondo nel campo dei media e dello spettacolo ha annunciato ieri la sua terza sorprendente acquisizione, dopo quelle dei Pixar Animation Sudios e della Marvel Entertainment:. Stavolta è il turno della Lucasfilm Ltd., la holding con cui George Lucas ha incantato il mondo per 35 anni a partire da quel 1977 in cui uscì il primo episodio della celeberrima saga di Star Wars.
Si tratta di un affare da oltre 4 miliardi di dollari, allo stato attuale. Quale sarà poi il valore dello sfruttamento del merchandising e dei franchise (le serie a suo tempo prodotte) della Lucasfilm da parte della nuova proprietaria, è soltanto ipotizzabile. O forse è meglio dire fantasticabile.
George Lucas aveva annunciato da tempo la sua intenzione di passare la mano, sia come manager che come produttore di film. Nel primo caso, aveva detto di essere intenzionato a cedere la poltrona di presidente al suo braccio destro Kathleen Kennedy, che a questo punto farà riferimento alla Disney. Nel secondo, aveva manifestato la sua ferma determinazione di non rimettere più mano alle sue creature più celebri: Star Wars, appunto, e la saga di Indiana Jones
Ma se l’ultimo episodio della serie avente per protagonista l’archeologo avventuriero interpretato da Harrison Ford sembra aver avuto un finale “conclusivo” che conferma l’intenzione del creatore, per quanto riguarda la lotta tra il Bene e il Male in una Galassia molto lontana, tra i Jedi e i Sith, sembra che ci siano novità clamorose.
Come parte dell’accordo concluso oggi, la Holding che passa dal controllo di Lucas a quello di Disney comincerà subito a lavorare a quello che i fan della Spada Laser aspettano da tempo e finora avevano solo potuto sognare. Star Wars Episode 7 si farà, e la sua uscita è prevista per il 2015. Il primo episodio della nuova trilogia, ambientata nella Galassia dopo la vittoria di Luke Skywalker sull’Imperatore, avrà come supervisor Kathleen Kennedy e come consulente creativo lo stesso George Lucas.
Non si sa altro al momento su trama, cast, regista e quant’altro. Si sa solo ciò che ha dichiarato il papà di Guerre Stellari, a commento del passaggio della sua creatura alla Disney: «Nel corso degli ultimi 35 anni, uno dei miei più grandi piaceri è stato veder passare Star Wars da una generazione a quella successiva. Ora è giunto il momento per me di passare Star Wars a una nuova generazione di registi. Ho sempre pensato che Star Wars potesse vivere a prescindere da me, e ho sempre pensato che fosse importante impostare questa transizione nel corso della mia vita. Sono sicuro che con la Lucasfilm sotto la guida di Kathleen Kennedy, e nella sua nuova casa nella organizzazione Disney, Star Wars vivrà a lungo e in prosperità per molte generazioni a venire».
Nel frattempo, mentre la notizia comincia a diffondersi nella rete, Twitter e gli altri social network stanno già impazzendo. Vecchi e nuovi fan si dichiarano affascinati dall’unione tra i due colossi dello spettacolo, e soprattutto estremamente eccitati all’idea di poter assistere al nuovo episodio della saga stellare. Qualcuno sogna già il primo parco a tema ispirato agli Skywalker.

Il sogno continua, insomma, più impetuoso e travolgente che mai. E come diceva Walt Disney, if you can dream it, you can do it.

domenica 14 ottobre 2012

APPUNTI DI VIAGGIO: Trieste è la Vela. Europa 2 e Onorato vincono la Barcolana più difficile di sempre

Alla fine vince sempre e comunque lei, Trieste. Non c’è niente da fare, la Coppa America può essere andata anche a Valencia, grazie ai bigliettoni spagnoli messi sotto il naso di Bertarelli, ma avrebbe dovuto essere disputata qui. Come ha detto Vincenzo Onorato, oggi skipper dell’equipaggio più bello ed emozionante di tutta la regata che qui chiamano Barcolana, Trieste è la vela. Punto e basta.
E lo ha dimostrato nel giorno più difficile. E’ stata la Barcolana più lenta degli ultimi 10 anni, una delle più lente di sempre. 5 nodi di vento, di media, forse anche meno, poco più di 2 nel lato conclusivo. Un’agonia, come essere in macchina e non mettere mai nemmeno la terza. Ma, dicono gli addetti ai lavori, è stata anche una delle più tecniche, perché è quando c’è poco vento che si vede il marinaio. E nelle lunghe pause della regata, almeno, il Golfo di Trieste ha potuto farsi ammirare in tutto il suo splendore.
Dal Castello di Miramare al Faro della Vittoria lungo la Riva di Barcola davanti alla quale si stende la linea di partenza della regata inventata 44 anni fa, nel 1969, dalla Società Velica di Barcola e Grignano con il nome di Coppa d’Autunno (perché chiudeva idealmente un’estate di regate nel golfo), la città che per ultima si unì al Regno d’Italia e per ultima ritornò alla Repubblica Italiana dopo due guerre mondiali oggi si è fatta ammirare in tutta la sua classe e la sua nobiltà che non decade. Dopo una settimana di happenings di tutti i tipi, stamattina ha schierato al via 1737 barche di tutte le classi veliche e di varie nazionalità. Meno delle oltre 2000 degli anni scorsi, ma comunque un bello schiaffo alla crisi. Qui c’è voglia di vivere, e la luce non l’ha spenta né il decreto Monti né il clima beffardo, che proprio oggi – nella città celebre per il vento – ha fatto mancare completamente proprio il vento.
Alla partenza, annunciata come sempre dal colpo di cannone, scattano in due, il veterano e già vincitore nel 2009 Mitja Kosminja con il suo Maxi Jena, barca di classe supermaxi, e l’enfant prodige di casa, Vasco Vascotto con il suo TP52 Aniene, barca di categoria 1a classe. Perché qui a Trieste alla Barcolana non c’è un regolamento rigido, possono partecipare tutti, con le loro barche di tutte le categorie. E’ la festa del mare, e basta. Poi vince il migliore. O chi si può permettere la barca più tecnologica. Cioè, negli ultimi 10 anni, Igor Simcic, miliardario sloveno divenuto tale con il petrolio e con l’hobby della vela, che gli ha dato otto Barcolane in un decennio (compresa quella di oggi) e negli ultimi due anni tutto quello che c’era da vincere nel Mediterraneo, e non solo.
La sua barca, Esimit Europa 2, è un gioiello di tecnologia. Progettata dai costruttori californiani per la rotta California- Hawaii, attraverso i venti ed i marosi del Pacifico, pur essendo attualmente di categoria non ammessa alla Coppa America è tuttavia una delle barche più versatili del mondo, capace di reagire a qualunque condizione di mare e di vento. E di vincere, come fa qui dal 2004. Oggi, partita senza troppa adrenalina nel groviglio delle mille navi e più, uno spettacolo unico dai tempi dell’Iliade, ha lasciato sfogare per metà del primo lato Vascotto e Kosminja per poi prendere la testa ed andarsene, lasciando ai contendenti la lotta per un prestigioso secondo posto.
Vascotto è riuscito a stare davanti al super Maxi Jena fino all’inizio del terzo lato, cioè finché il vento si è mentenuto sui 5 nodi. Poi, crollato a poco più di due, tanto da mettere in difficoltà perfino Esimit, che ha provato tutto il corredo di vele a disposizione per risalire il bordo fino alla terza boa e dopo all’arrivo, il fuoriclasse triestino ha dovuto cedere il passo ai due scafi di stazza superiore, Jena e l’outsider ungherese Wild Joe, concludendo comunque con un brillantissimo quarto posto.
L’arrivo è stata una agonia. La vincitrice Esimit ha impiegato 4 ore a compiere l’intero percorso di 17 miglia. La seconda è arrivata un’ora e mezzo dopo. Alle 17,00, tempo ultimo da regolamento di regata per completare il percorso, erano arrivate solo venti imbarcazioni. Da qui alcune polemiche, che hanno investito la Giuria, colpevole di non aver accorciato la gara come successo in circostanze analoghe negli anni passati.
Molte barche di stazza piccola, impossibilitate a muovere pochi passi oltre la linea di partenza, all’ora di pranzo avevano già disertato il campo di regata nell’impossibilità di fornire una prestazione che avesse un minimo di senso.
Ma le polemiche, qui a Trieste, fanno presto a passare in secondo piano. E’ stata anche oggi la festa del mare, anche in assenza di vento. E al di là del risultato tecnico, anche oggi sono stati consegnati alla storia barche ed equipaggi che hanno onorato la manifestazione. E anche qualcosa di più.
Uno su tutti, Vincenzo Onorato, armatore della Moby Lines, patron di quel Mascalzone Latino che ci ha resi orgogliosi in Coppa America. Oggi possiamo esserne orgogliosi ancora di più. Ha armato una barca, La Poste, già prestigiosa competitor della Whitbread, la celebre regata intorno al mondo, con un equipaggio tra i quali una decina di ragazzi affetti da Sindrome di Down.

Questi ragazzi, stravolti dalla fatica, sono stati fermati a 200 metri dalla linea d’arrivo al Castello di Miramare. Eppure, saranno d’accordo anche Simcic, ed il suo pluridecorato skipper Jochen Schumann, non c’è nessun dubbio che oggi abbiano vinto loro.

sabato 13 ottobre 2012

RENZIADE: Sulle Rive di Trieste a spasso con... Matteo Renzi

Vai a Trieste nella settimana della Barcolana, ti fai le Rive avanti e indietro ogni giorno ammirando i Maxi ed i Grand Soleil ormeggiati nel porto in attesa della regata, speri di incontrare magari un Mauro Pelaschier, un Vasco Vascotto, un Paul Cayard, e chi ti trovi? Non c’è che dire, comunque andrà a finire la sua avventura, Matteo Renzi va accreditato di un gran senso del momento. Non è una settimana qualsiasi questa per Trieste, e lui ha scelto oggi, quando la presenza e la fibrillazione della gente per la Barcolana stanno salendo ai massimi livelli, per fare qui la tappa del suo tour.
Qualcuno per la verità mugugna per l’arrivo del camper del candidato premier PD “a far confusione in un momento già di per sè di congestione urbana”. I più per la verità guardano incuriositi per la prima volta da vicino il sindaco di Firenze che aspira a diventare primo ministro. Nel suo blitz triestino, Renzi si è sicuramente fatto vedere nei luoghi giusti, visitando dapprima il Villaggio della Barcolana, con foto di rito tra i velisti. Poi, altra foto con la maglia della Triestina (dopo aver rotto il ghiaccio allo Stadio Franchi un mese fa, il Sindaco d’Italia ha scoperto che lo sportwear gli dona).
Quindi, accompagnato dal sindaco pidiessino di Trieste Roberto Cosolini e dal segretario provinciale del PD Francesco Russo, che nella sua lettera di benvenuto peraltro ha criticato la sua rottamazione indiscriminata, si è spostato nella centrale Piazza della Borsa, dove ha incontrato i lavoratori della Sertubi e di altre aziende in crisi dell’area della Ferriera che stanno manifestando contro il rischio di chiusura, confermando la sua recente svolta operaista soft.
Viene da dire, se il suo recente antagonista Marchionne non sembra capace d’altro che di tentare di vender frigoriferi agli eschimesi, e di sicuro non le Fiat a Firenze, Matteo Renzi sta dimostrando ogni giorno di più di saper essere al posto giusto nel momento giusto, a dire le cose giuste a chi è pronto ad ascoltarle. O almeno costretto. Al consigliere regionale della Venezia Giulia Bruno Marini che gli ha augurato una sfida finale Alfano- Renzi, ha risposto prontamente “Grazie, però dovete fare le primarie anche voi”.
In serata, Renzi si è trasferito a Udine a presentare la sua candidatura ufficiale per le Primarie della sinistra. Poi nella notte a casa. Il camper del sindaco on the road non si ferma mai. E domani al lavoro a Palazzo Vecchio. Business as usual, in attesa di scrivere la storia.

giovedì 11 ottobre 2012

APPUNTI DI VIAGGIO: Trieste capitale dalla vela alla cucina

La settimana che precede la famosa e prestigiosa regata velica detta La Barcolana (poiché si svolge nel tratto di mare prospiciente la riviera denominata appunto Barcola) restituisce a Trieste per un breve periodo quella che una volta era la sua dimensione usuale cosmopolita. E’ uno degli eventi in concomitanza del quale vale la pena di organizzare le proprie vacanze in questa città, anche per chi non ama o non si intende di vela, perché è in questa occasione che essa cerca di offrire il meglio di sé.
Negli stand e sulle bancarelle che vengono allestite in questa ed in altre circostanze sulle Rive e lungo il Canal Grande per il Mercato degli Ambulanti d’Europa, si può trovare una varietà di merci provenienti non soltanto dall’area del mediterraneo e del vecchio impero austro – ungarico, ma un po’ da tutto il mondo. Questa settimana, per qualche giorno, fino al colpo di cannone che darà il via alla 44^ Barcolana, Trieste ritorna la capitale del Mare. Nella suggestiva Piazza dell’Unità d’Italia si sta montando il palco su cui verranno ad esibirsi grandi artisti d’ogni genere. Stasera, Elio e le Storie Tese. E chi non è in cartellone questa settimana, probabilmente verrà sotto Natale, quando arriverà il grande tradizionale abete da una località delle Alpi retrostanti (spesso dal Trentino, Trento e Trieste sempre legate nella nostra storia, oppure dalla Carinzia austriaca) e sotto la sua luminaria il grande palco verrà rimontato.
Tra le due feste, chi cerca qualcosa di più tradizionale, ma altrettanto caratteristico di un mondo in via di estinzione, può andare per Osmize nei dintorni di Trieste, sul Carso italiano e sloveno. Le Osmize (nome derivato da una parola slava italianizzata) altro non sono che fattorie dove si vendono e si consumano vini e prodotti tipici (quali uova, prosciutti, salami e formaggi) direttamente nei locali e nella cantine dei contadini che li producono. In determinati periodi dell’autunno, a rotazione secondo un regolamento antichissimo, ciascuna di queste fattorie può vendere direttamente, al dettaglio, i propri prodotti senza pagar dazio, o altra gabella. L’usanza sembra risalire addirittura ala dominazione di Carlo Magno, ma la sua codificazione definitiva avvenne nel 1784 con l’imperatore Giuseppe II, figlio della grande Maria Teresa. La fattoria che vende espone una frasca per tutta la settimana, secondo la tradizione, così da far capire al pubblico che l’Osmizza è aperta.
Per chi invece non vuole lasciare la vecchia Trieste che si rinnova sempre, segnaliamo alcuni locali dove tutto l’anno la buona cucina e il buon bere si sposano ad atmosfere culturali che non hanno perso il loro fascino.
All’Happy Hour, niente di meglio del James Joyce Bar, nello stesso edificio dove lo scrittore abitò durante il suo soggiorno triestino in Piazza del Ponterosso, dove ad una calda atmosfera d’epoca si unisce un ambiente giovane e accattivante e si servono ottimi ed innovativi
aperitivi. Dal Caffè Tommaseo una volta ritrovo degli irredentisti, al Caffè San Marco punto di raccolta di artisti e intellettuali, dove è posibile trovarsi seduti accanto a Claudio Magris che sta lavorando alla stesura del suo ultimo libro, al Caffe’ degli Specchi, da sempre completamento elegante di Piazza dell’Unità, nella zona delle Rive sono tanti i luoghi in cui è possibile perdersi in atmosfere suggestive, in attesa della notte triestina.
La cucina locale è da tempo immemorabile un esempio di fusion food, risultato dell’incrocio di popoli e culture al pari dell’arte cittadina. Dallo strudel austriaco al goulash ungherese ai sardoni in savor e a tutto il pesce cucinato in tutti i modi possibili e raffinati conosciuti nell’Adriatico e nel Mediterraneo, è a tavola che si può misurare il livello di integrazione raggiunto dalle varie etnie che abitano a Trieste, città italiana a cui l’Italia va stretta da sempre. Si può trovare un angolo della Baviera di Ludwig II da Kapuziner dietro Piazza dell’Unità. O della Vienna tra le due guerre alla Birreria Forst in Piazza Oberdan. O gustare dell’ottimo pesce alla Vecchia Lira, locale di nuova apertura ma di buone tradizioni in Piazza Ponterosso.
Se poi si è in cerca dell’eccellenza e di una pausa nella giornata tipicamente triestina, il cosiddetto rebechin (spuntino o merenda a qualsiasi ora del mattino o del pomeriggio), c’è un nome solo: quello di Pepi, che i triestini chiamano S’ciavo (schiavo, appellativo anticamente riservato agli slavi) a sottolineare l’origine slovena dei proprietari. Nello storico locale sito in Piazza della Borsa, a suo tempo recensito addirittura dal New York Times, primo fast food dell’era moderna, si possono assaporare i piatti tipici di carne di maiale cucinati a caldaia: porcina, luganiga de Vienna e luganiga de cragno
Altro nome storico della ristorazione triestina è quello di Masè, presente nel centro città con diversi punti vendita e specialità di carne a caldaia, nonché il delizioso baccalà mantecato e il prosciutto cotto tagliato a mano. Altro santuario della cucina locale è Marascutti in Via Battisti. Il tutto annaffiato da ottima birra viennese, bavarese o addirittura australiana, o da buon vino bianco di uva Tokai o Terrano carsolino. E se a tavola ci siamo andati pesanti, c’è sempre dell’ottimo amaro sloveno Pelinkovac, e una splendida passeggiata sul lungomare, verso la Riva IV Novembre o verso la Riva Nazario Sauro, per godersi lo spettacolo della città e del golfo che le luci notturne rendono se possibile ancora più suggestivi, e delle prime barche da regata o da crociera che attraccano al molo per la Barcolana.

martedì 9 ottobre 2012

APPUNTI DI VIAGGIO: Trieste, il sogno neoclassico degli Asburgo

Arrivare a Trieste lungo la litoranea che da Sistiana scende a Barcola non è soltanto un itinerario geografico, ma piuttosto un’esperienza di vita, e di quelle intense. Dopo aver percorso il tratto terminale friulano della pianura padana, che costeggia il Carso fino a Duino ed al Lisert, all’improvviso ci si trova di fronte al mare, ed è sempre una vista che non lascia indifferenti.
Unico tratto italiano dell’Adriatico dove il sole va a morire sul mare, anziché nascervi, la città di Trieste sorge sulle rive di un ampio golfo contornato sullo sfondo dalle Alpi italiane e austriache e da un orizzonte sul quale nelle giornate migliori, quando la Bora ripulisce il cielo dalle nuvole, si può intravedere perfino Venezia ed il suo Campanile di San Marco.
In questo angolo di mondo che sembra essere stato dotato dalla natura di tutti i doni possibili, il porto naturale più ospitale e capiente del tratto di mare compreso tra la penisola balcanica e quella italiana, insieme alla politica illuminata adottata dai suoi possessori per ben sei secoli, gli Asburgo Imperatori d’Austria (non a caso ancora oggi rimpianti da molti “nostalgici”), ha fatto sì che sorgesse una delle città più cosmopolite e veramente internazionali d’Europa.
Superando il Castello di Miramare, costruito da Massimiliano d’Asburgo come residenza personale prima della sua sfortunata e fatale avventura in Messico, e poi base del Comando militare dei Blue Devils, i soldati americani di stanza a Trieste prima del suo ritorno all’Italia nel 1954, e la riviera di Barcola, di fronte alla quale si svolge la celebre regata annuale, ed arrivando al centro storico che sorge intorno al Porto Vecchio ed a quelle che i triestini chiamano le Rive, ci si accorge presto di essere arrivati nella capitale di tante cose: della Mitteleuropa, più di Vienna, Budapest o Praga, del Mediterraneo civilizzato dalla marina e dal commercio italiani, di un impero che aveva saputo trascendere la sua origine montanara austriaca per diventare il più straordinario melting pot di genti e di culture realizzato dall’uomo prima degli Stati Uniti d’America.
Trieste è la città della Bora, il vento di est-nord-est che trae origine dalla pianura ungherese e che quando soffia a più di cento chilometri orari (cioè quasi sempre) è capace di gettare in mare anche i veicoli più pesanti che si trovano sulle Rive. Ma è anche e soprattutto la città del Neoclassico, che qui ha avuto la sua massima espressione.
Basta mettere le spalle al Molo Audace (che prende il nome dall’incrociatore italiano da cui la mattina del 3 novembre 1918 scesero i bersaglieri con il tricolore a rivendicare la città al Regno d’Italia) e guardare verso la Piazza dell’Unità d’Italia, che già da sola offre gli splendidi esempi architettonici rappresentati dai palazzi una volta di proprietà del governatore imperiale o delle assicurazioni (Trieste fu il porto della penisola in cui i Lloyd di Londra scelsero di stabilirsi, fondando il Lloyd Triestino), e adesso sedi di Comune, Regione Autonoma e Prefettura.
Dalla piazza, poi, percorrendo le Rive o addentrandosi nell’interno per le vie del borgo medioevale o per i nuovi quartieri voluti nel settecento da Maria Teresa d’Asburgo fino alla Stazione e al Porto che la sovrana stessa volle come via d’accesso marittima all’Impero, è un percorso architettonico e culturale che sublima neoclassico e Mitteleuropa come non è dato di vedere da nessun altra parte.
L’antica città romana di Tergeste, costruita in un punto strategico per le comunicazioni tra le due penisole affacciate sull’Adriatico, aveva conosciuto una fase di decadenza durante il dominio della Serenissima repubblica di Venezia, che non tollerava concorrenti. Quello che fu vissuto come un pericolo mortale da gran parte dell’Europa e del Mediterraneo, l’ondata espansiva turca ottomana, si rivelò il colpo di fortuna decisivo per i triestini.
Gli Asburgo, unici sovrani dell’Europa dell’Est che parevano in grado di fermare la marea ottomana, si annessero la parte della penisola balcanica fino al nord della Serbia, compresa l’Istria e, appunto, Trieste. E quando Maria Teresa, la più lungimirante dei sovrani austriaci, desiderò dotare l’Impero di uno sbocco al mare che facesse concorrenza a Venezia, a Istanbul, a Genova e a chiunque altro nel Mediterraneo attirando i commerci del Commonwealth inglese, la città incontrò il suo destino.
Abbattute le mura medioevali, costruiti il porto e la ferrovia, attirati nella città commercianti e imprenditori di tutte le etnie e confessioni religiose, la grande impresa di Maria Teresa provocò dapprima il boom di abitanti (da 6.000 a 30.000 alla metà del 18° secolo) e poi, nel secolo successivo dopo la caduta della repubblica di Venezia, il suo primato economico e culturale. Trieste è a tutt’oggi l’unica città italiana in cui sono presenti edifici di culto di tutte le confessioni religiose europee. In particolare la chiesa serbo-ortodossa spicca per lo splendore della sua facciata, in un quartiere che di splendide chiese ne può vantare molte.
E molte sono le vestigia di un passato culturale glorioso. Da Italo Svevo, a Scipio Slataper, a Reiner Maria Rilke, a Umberto Saba (del quale si può ammirare ancor oggi la storica libreria dove lavorò), al triestino d’adozione James Joyce (che vi soggiornò a lungo e qui iniziò la stesura del suo capolavoro, l’Ulysses), la storia della letteratura a cavallo tra la fine dell’ottocento e la prima guerra mondiale fu scritta in gran parte qui. Pare che, in tutto il diciannovesimo secolo, il solo Stendhal rimanesse immune del fascino di questa città e proprio qui accusasse una pausa nella propria celebre sindrome. Come dire, l’eccezione (per quanto clamorosa) che conferma la regola.

lunedì 1 ottobre 2012

Lawrence d'Arabia,lo spirito dell'Occidente


Esce in versione restaurata e rimasterizzata uno dei capolavori assoluti del cinema mondiale. Lawrence d’Arabia è uno dei masterpiece di un regista che ha prodotto soltanto masterpieces, quel David Lean che aveva già girato il Ponte sul Fiume Kwai e che avrebbe proseguito con il Dottor Zivago, La figlia di Ryan e Passaggio in India.
Nel 1962, il kolossal interpretato da Peter O’Toole, Alec Guinness, Anthony Quinn, Anthony Quayle, Omar Sharif, e scusate se ho dimenticato qualcuno, vinse sette Premi Oscar, tra cui quello per il miglior film e quello per la miglior regia, seguiti l’anno dopo da cinque Golden Globe e da un Grammy Award a Maurice Jarre per quella splendida colonna sonora che a distanza di cinquant’anni ancora oggi commuove l’immaginario di chi lascia volare la propria fantasia verso il Medio Oriente.


Il film che Steven Spielberg ha definito «un miracolo, lo riguardo sempre prima di cominciare delle riprese», e che è stato inserito sia dal British che dall’American Film Institute ai primissimi posti della classifica dei migliori film del XX secolo, è tratto da quello che all’epoca fu un best seller di successo, I sette pilastri della saggezza, libro di memorie autobiografiche di uno dei personaggi più straordinari della storia moderna, il tenente colonnello dell’esercito inglese al tempo della Prima Guerra Mondiale Thomas Edward Lawrence, altrimenti conosciuto come – appunto – Lawrence d’Arabia.
Il colonnello Lawrence, in origine semplice ufficiale dell’esercito britannico impegnato in Palestina inviato in missione presso le tribù arabe per spingerle a sollevarsi contro i loro dominatori di allora, i Turchi Ottomani alleati di Germania ed Austria, grazie alle sue imprese che andarono ben al di là del mandato ricevuto dal generale Allenby diventò ben presto l’eroe della rivolta araba, riuscendo a compattare dietro di sé un intero popolo che non aveva goduto di nessuna libertà, dopo i secoli d’oro. Ma soprattutto eccitò la fantasia dell’opinione pubblica mondiale a tal punto da diventare l’unico vero eroe romantico di una guerra che di eroi e di romanticismo ne ebbe ben pochi.
Lawrence, negli anni in cui si moriva nelle trincee sulla Somme, sul Carso, sulle Ardenne, e si veniva più che altro sterminati dal gas nervino in posti come Yprés, si rivelò un condottiero degno di altri tempi, un Garibaldi della penisola araba. E, stando alla fedele rappresentazione sullo schermo operata dal maestro David Lean, addirittura forse un archetipo dell’uomo occidentale, imbevuto sì di cultura classica e quindi di ammirazione anche per quella araba del periodo aureo (prima che soldato e condottiero era stato archeologo e grecista, avendo curato una traduzione in proprio dell’Odissea di Omero) ma permeato di valori tipici di quell’individuo che, da quell’Ulisse che lui conosceva così bene in poi, avevano fatto progredire la civiltà inglese ed occidentale oltre ogni limite, se non quello che l’uomo stesso accetta di porsi.
Riassumere la trama di un film come Lawrence d’Arabia è impossibile, come lo è riassumere la vita avventurosa di un uomo che ha fatto la storia dell’occidente e dell’oriente, dalla conquista del forte di Aqaba (decisivo per il controllo del Mar Rosso) fino al suo esautoramento a Damasco, quando la realpolitik che voleva l’Arabia Saudita nelle mani della dinastia di re Faisal in cambio dei Protettorati francese e Britannico su Siria e Palestina si scontrò irrimediabilmente con il suo sogno di autodeterminazione per le tribù arabe che non capivano nemmeno il significato di questa parola. Lawrence, sconfitto ma pago di quanto aveva fatto, fu rimpatriato in Inghilterra dove cercò nuove imprese, in un mondo che cambiava diventando più moderno, ma non necessariamente più gradevole.
Nel 1935 trovò il suo destino mentre alla guida della sua moto assecondava l’ultima delle sue passioni cercando di superare un nuovo limite, quello di velocità. E’ la scena con cui si apre il film, che ripercorre la sua vita nel ricordo dei presenti alla sua cerimonia funebre. Ma la scena chiave, per chi ha colto l’essenza del personaggio, è quella in cui viene decisa l’impresa di Aqaba, che prevede l’attraversamento della parte più tremenda del deserto del Sinai, il Nefud. Un preoccupatissimo Omar Sharif, sceicco musulmano osservante ancorché già affascinato da quel bianco fuori del comune per cui avverte già un sentimento di ammirazione ed amicizia, gli dice: “Non puoi farlo, è scritto! Il Nefud non può essere passato!”

E Lawrence, dall’alto dei suoi tremila anni di storia cominciati quel giorno in cui Ulisse si presentò di fronte alle Colonne d’Ercole, e non si fermò, risponde: «Io lo farò. Perché è scritto qui». E indica la sua testa.

Buon compleanno 007





Il 1° ottobre 1962, preceduto da una sigla di apertura destinata a diventare leggendaria, la Gunbarrel, usciva nelle sale cinematografiche del Regno Unito e degli Stati Uniti Doctor No. Il film, prodotto da due sconosciuti, Harry Saltzman e Albert R. Broccoli, girato a basso costo da un regista altrettanto sconosciuto, Terence Young, ed avente come protagonista principale uno sconosciutissimo attore scozzese, tale Sean Connery, costituiva la trasposizione sullo schermo di un romanzo d’azione nato dalla fantasia di uno scrittore inglese che aveva da poco raggiunto una modesta notorietà, Ian Fleming.
Fleming era stato marinaio durante la seconda guerra mondiale, e poi giornalista. Dicono le cronache che si mettesse a scrivere nel 1952 un romanzo avente per protagonista un agente del servizio segreto inglese, il leggendario MI6, quasi per gioco, per alleviare le noie della vita coniugale. Il personaggio da lui creato, James Bond, nome in codice 007, agente britannico con licenza di uccidere al servizio di Sua Maestà e dell’Occidente, era l’ultima di una lunga serie di spie nate dalla fantasia letteraria di scrittori anche assai famosi, da Rudyard Kipling a Graham Greene, che si erano cimentati con il grande gioco in cui la Gran Bretagna era da secoli impegnata per la supremazia nel mondo prima e per la sopravvivenza poi. Fleming, modesto scrittore fino a quel momento, non poteva immaginare che proprio la sua creatura sarebbe diventata la spia più famosa di tutti i tempi, nonché uno dei personaggi di maggior successo della cinematografia mondiale.
A decretare il successo di James Bond, fu certamente il suo sbarco al cinema dei grandi effetti speciali nel momento in cui il mondo si scopriva più che mai terrorizzato dalla Guerra Fredda, dalla corsa ad armamenti sempre più tecnologici, sofisticati e micidiali, dall’ossessione per le Quinte Colonne, le spie, appunto, che si infiltravano nella nostra rassicurante società occidentale per sovvertirla, a beneficio di un avversario sinistro facilmente identificabile nel Blocco Sovietico prima, e nelle nascenti organizzazioni terroristiche internazionali poi. Era il 1962, l’anno della crisi dei Missili a Cuba, e di una Terza Guerra Mondiale (nucleare) sventata per un soffio. La presenza di Bond fu subito molto rassicurante.
Dopo un tentativo da parte di Fleming di realizzazione di una serie televisiva (sulla falsariga di altre che andavano per la maggiore all’epoca, come Il Santo, o il Prigioniero), Saltzman e Broccoli acquisirono i diritti d’autore del personaggio e produssero il primo film. Che non fu il primo libro, in ordine cronologico, di quelli scritti da Fleming, cioè Casino Royale (poiché il produttore che aveva già acquistato i diritti per la serie tv non accettò di cederli), ma bensì – appunto – Doctor No, in Italia tradotto in Licenza di uccidere. Ad impersonare l’agente segreto furono chiamati la star dell’epoca Cary Grant, che declinò ritenendosi troppo in là con gli anni, poi Roger Moore e David Niven. Entrambi rinunciarono a loro volta, essendo già impegnati nelle serie televisive suddette (anche se Moore aveva comunque Bond nel suo destino, e lo avrebbe incontrato 10 anni dopo). La scelta cadde alla fine su un oscuro attore scozzese, che fino a quel momento aveva recitato solo in alcune comparse, come il soldato nello Sbarco in Normandia nel Giorno più lungo di Darril F. Zanuck.


Nel primo film, Sean Connery fa il suo ingresso nei panni di 007 dopo una ventina di minuti circa, e non è una entrata in scena di quelle epiche. La cinepresa lo coglie seduto al tavolo da gioco, intento ad una di quelle partite a carte che saranno una delle sue specialità, ed è lì che riceve la chiamata di M, il capo dell’MI6, per la prima missione, indagare sulla morte di un collega in Giamaica. Niente di travolgente, ma dal momento in cui pronuncia la storica frase “il mio nome è Bond, James Bond” ha inizio la carriera straordinaria di uno dei più grandi attori di tutti i tempi. E insieme, la leggenda di 007.
Da allora, l’agente segreto più amato del mondo è tornato sullo schermo 22 volte in film ufficiali, e 2 in film cosiddetti apocrifi, cioè al di fuori dei diritti d’autore di Saltzman e Broccoli. Connery ha vestito lo smoking di Bond sette volte, altrettante Roger Moore che gli succedette nel 1973, una George Lazemby, due Timothy Dalton, quattro Pierce Brosnan e due l’attuale interprete, Daniel Craig, che l’ha impersonato anche nella cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici di Londra. Craig è in procinto di tornare a combattere per il mondo libero nel ventitreesimo episodio della serie, Skyfall, in procinto di uscire.

Buon compleanno 007. Cinquanta anni e non sentirli.