venerdì 20 gennaio 2017

Il peggiore



La notte del 4 novembre 2008 si era chiusa un’epoca. Quello Yes we can gridato alla platea festante dei Democrats che riportavano il loro candidato alla Casa Bianca dopo gli otto anni controversi di George W. Bush sembrò a tutto il mondo in realtà molto di più della celebrazione di una vittoria elettorale. Era il pagamento di un debito che la storia aveva contratto con la razza umana molto tempo prima, quando il primo uomo aveva messo in catene un proprio simile per sfruttarne il lavoro gratis.
Otto anni dopo, si chiude un’altra epoca. Quando la storia decide di pagare i suoi debiti, spesso e volentieri lo fa in modo approssimativo, tardivo e ricorrendo alle persone sbagliate. Dispiace dirlo, considerato tutto ciò di cui era diventato simbolo, ma la vicenda di Barack Obama è diventata il paradigma delle illusioni disattese, tradite.
Alle Primarie democratiche del 2008, i debiti storici da pagare erano addirittura due. Gli Stati Uniti, la più grande potenza mondiale del nostro tempo, attendevano di decidere se portare finalmente nella loro stanza dei bottoni il primo colored o la prima donna. Se chiudere la plurisecolare questione razziale sviluppatasi attraverso la deportazione nel Nuovo Mondo degli schiavi africani, la Guerra Civile tra Nord e Sud e la segregazione razziale post emancipazione arrivata fino quasi ai giorni nostri. Oppure se dare riconoscimento al completamento dell’emancipazione femminile a cui, dai tempi delle Suffragette fino al ventunesimo secolo, mancava ormai solo la gratificazione dell’elettorato passivo, l’ottenimento della massima carica dello stato, la Presidenza degli Stati Uniti d’America.
Barack Husein Obama contro Hillary Rodham Clinton. Vinse il campione della causa dei Neri d’America. Il senatore dell’Illinois figlio di immigrati kenyoti rappresentava addirittura di più, con quella sua estrazione culturale musulmana che ne faceva l’incarnazione di una ulteriore rottura con il passato immediatamente precedente e lo scontro di civiltà capitanato da Bush jr. La campionessa della causa della parità di genere, la moglie dell’ex Presidente Bill Clinton, avrebbe dovuto attendere. E adesso sappiamo che dovrà farlo ancora.
L’America scelse e condizionò la storia, che pagò il suo enorme debito malamente. Malgrado le grandi aspettative che fecero subito di Obama una figura – almeno nelle intenzioni dei supporters – carismaticamente paragonabile agli altri grandi campioni della razza afroamericana, Mohammad Alì, Malcom X, Martin Luther King, il reverendo Jesse Jackson, Barack Obama non andò oltre quello stentoreo Yes we can gridato alla sua convention ed al mondo la notte della sua prima elezione.
Uomo dell’anno di TIME pochi giorni dopo quel voto storico, addirittura Premio Nobel per la Pace un anno dopo, l’uomo che aveva portato i negri finalmente ad esercitare il loro diritto di voto ed esteso loro addirittura il sogno americano si rivelò sin da subito l’incarnazione della più cocente delle delusioni. Armato del suo Si può fare, si lanciò in avventure improbabili e velleitarie, come l’Obamacare, lo stravolgimento della sanità privata da sempre connaturata alla mentalità dei suoi compatrioti e basata sul sistema delle assicurazioni. O come il ritiro delle truppe a stelle e strisce dall’Asia Minore e Centrale che non potevano più essere ritirate una volta spedite laggiù, essendo ormai l’unico diaframma tra la permanenza dell’equilibrio Est-Ovest sconvolto dall’attentato alle Torri Gemelle e la caduta di quella vasta area del mondo nelle mani di Talebani, Al Qaeda e poi Isis, con tutte le conseguenze del caso.
O come la guerra personale a quella mentalità della Frontiera connaturata ad ogni americano, che si sostanzia nel possesso e nell’uso di armi. O la politica di accoglienza ai migranti, nel caso specifico i messicani, molto oltre i margini di tolleranza di una popolazione che pochi mesi prima della sua elezione aveva cominciato a sperimentare sulla propria pelle gli effetti della crisi economica più devastante dai tempi del Giovedi Nero del 1929. O l’appoggio sistematico a tutte le leadership politicamente corrette ed economicamente devastanti, come quella – per dirne solo una - di Angela Merkel in una Unione Europea traballante e affamatrice.
E che dire di alcune comparsate, come quel video che ritrae il Presidente e la sua Vice, la Clinton passata nel suo staff dopo aver corso contro di lui alle Primarie, intenti ad una pantomima con tanto di smorfie da cinema muto la notte della presunta cattura ed eliminazione di Osama Bin Laden, il famigerato e impalpabile Sceicco del Terrore? E quel veramente insopportabile e stridente Job Well Done gridato alla folla a Ground Zero i giorni successivi, ad enfatizzare come un ranchero texano la morte del pericoloso bandito  senza rendersi conto che la frontiera su cui sparacchiava in area i colpi della sua colt non era quella dei film western di una volta, ma quella molto più pericolosa dello scontro di civiltà che lui ha finito per acuire molto più del predecessore che l’aveva aperto?
Barack Obama è stato l’uomo delle grandi speranze e delle ancora più grandi delusioni, rivelandosi inadatto a governarle. L’assunto che chiunque può diventare Presidente degli Stati Uniti purché nato in America con lui si è completato del corollario che purtroppo non bastano lo jus soli, il colore della pelle o la teatralità con cui si professano le proprie idee per essere adeguati a quella carica. Anzi, sono pochi quelli che alla fine si dimostrano tali, e Barack Obama non va in archivio come uno di questi.
La vittoria del suo successore, quel Donald Trump che giura oggi nelle mani della Corte Suprema come 44° successore di George Washington, ha vinto sconfiggendo non tanto Hillary Clinton quanto proprio lui in persona, e la sua eredità presunta. Spazzandone via illusioni e delusioni, e aprendo la porta ad un’epoca – se Dio vorrà – completamente diversa.
L’unica effettiva eredità di Obama, alla fine, è quella di aver favorito l’emancipazione non di una razza ma di una intera comunità nazionale. Da oggi, si può essere colored e nello stesso tempo incapaci. E lo si può far notare, da parte di chicchessia, senza essere più accusati di razzismo.

domenica 8 gennaio 2017

L'ultimo Granduca

Era stato un socialista atipico, nel pensiero e nei modi. Il primo della sua generazione forse a capire la necessità di modernizzazione di un partito che ancora oscillava irrequieto e instabile tra esperimenti di centrosinistra e tentazioni frontiste.
Lelio Lagorio si è spento ieri a Firenze alla veneranda età di 92 anni. Era nato a Trieste il 9 novembre del 1925, ma aveva eletto il capoluogo toscano a sua patria d’adozione ed il P.S.I. a sua patria politica. Erano gli anni in cui Pietro Nenni e gli altri capi storici del socialismo italiano abbandonavano faticosamente, dolorosamente e non senza ferite profonde difficilmente rimarginabili, la strategia del Fronte Popolare con il Partito Comunista abbracciata nel 1948 e si volgevano verso quello che fu il primo e forse più importante dei compromessi storici del nostro dopoguerra, il centrosinistra con la Democrazia Cristiana che trasformò il vecchio partito massimalista in un partito di governo.
Nessuno meglio di Lagorio sembrava incarnare la nouvelle vague socialista. Negli anni in cui Nenni diventava il primo membro socialista di un governo nazionale italiano dopo il 1947, Lelio Lagorio diventava sindaco di Firenze raccogliendo la pesantissima eredità di Giorgio La Pira. Fu un mandato breve il suo, pochi mesi prima di cedere il testimone ad un altro sindaco leggendario: Piero Bargellini, il sindaco dell’Alluvione.
Ma bastò perché Lelio Lagorio si facesse conoscere come politico di rilievo e come signore dai modi distinti, un gentleman di stampo britannico del quale la nostra politica annoverava e annovera tutt’ora ben pochi esempi.
Il suo momento venne nel 1970. Una classe politica che cominciava ad annaspare contro i venti nuovi della contestazione e della sempre maggiore richiesta popolare di diritti civili e politici si trovò costretta a dare attuazione finalmente alla più disattesa fino a quel momento delle previsioni costituzionali: l’istituzione delle amministrazioni regionali.
La Toscana era una regione che si prevedeva rossa, ma le urne elettorali dissero che il P.C.I. da solo non aveva i numeri per raggiungere la maggioranza dei 50 consiglieri assegnatile dalla legge. Il P.S.I. si rendeva necessario a tale scopo, e si fece pagare il conto chiedendo la Presidenza della Regione. Sapendo di avere l’uomo giusto.
Lelio Lagorio fu il primo dei Presidenti della Regione Toscana, quando ancora non si chiamavano – né pretendevano di chiamarsi – governatori. E fu un grande Presidente, che operò nel periodo delicatissimo dei massicci e spesso caotici trasferimenti di competenze dallo stato (con i decreti del 1972 e del 1977) sotto l’impatto dei quali le neonate amministrazioni regionali potevano rischiare di affogare prematuramente. Lagorio fu – e resta a tutt’oggi – un modello ineguagliato, nemmeno per approssimazione, dai suoi successori. Tanto da meritarsi, unico, l’appellativo (assai evocativo e significativo da queste parti) di Granduca.
Il Granduca che siedeva a Palazzo Budini Gattai, allora sede della Presidenza quando gli uffici della Regione erano disseminati un po’ per tutta l’area urbana di Firenze, governò con saggezza e stile la costruzione della macchina amministrativa regionale scegliendosi i funzionari giusti tra la miriade che i trasferimenti statali riversava nel cosiddetto ruolo regionale.
Nel 1978, ritenuto esaurito il suo compito e sollecitato a sfide ancora più importanti dalla politica romana, rimise il suo mandato candidandosi alle elezioni politiche dell’anno successivo. Il suo posto fu preso da un altro socialista, Mario leone, che lo tenne fino al 1983, quando un P.C.I. il cui peso in Giunta Regionale era stato consistentemente aumentato dalle avanzate elettorali degli anni settanta e dalla crisi degli alleati socialisti (ma solo a livello locale, perché a quello nazionale già la rottura craxiana con i vecchi compagni si stava facendo sentire) lo reclamò per il suo candidato Gianfranco Bartolini, il presidente operaio.
A Roma, Lagorio trovò un clima favorevole alla ripresa di esperimenti di centrosinistra, grazie all’azione – come si è detto – di Bettino Craxi e di quella parte della D.C. che stava rigettando il compromesso storico con il P.C.I. Nel 1980, per la prima volta, un socialista si ritrovò affidato il delicatissimo Dicastero della Difesa. Ormai la N.A.T.O. riteneva ammissibile ai propri Sancta Sanctorum un esponente del P.S.I., tanto più se questo esponente era una persona del prestigio e della caratura di Lelio Lagorio.
Fu ministro della difesa con Francesco Cossiga, e insieme a lui affrontò la tempesta successiva alla strage di Ustica, a cui Cossiga non sopravvisse. Lui sì, restando in carica con Arnaldo Forlani e poi con i premier laici Giovanni Spadolini e Bettino Craxi. Durante il suo mandato, gestì altre situazioni difficili da par suo, come la crisi degli Euromissili in Sicilia, nonché la delicatissima fase di avvio delle prime missioni militari italiane all’estero con tutto il carico di implicazioni non soltanto psicologiche ma anche costituzionali, in un paese che dopo l’8 settembre 1943 si era fatto scudo dell’art. 11 della Costituzione ben al di là del suo dettato specifico.
Fu lui a ripristinare la Parata del 2 giugno come Festa della Repubblica, ed ancora lui a varare a Monfalcone la prima portaerei della Marina italiana, la Garibaldi. Fu lui a presiedere addirittura il Consiglio dei Ministri europei della N.A.T.O.
Fu lui, nel 1980 in Irpinia in occasione del terremoto a far fronte al quale non era stata ancora istituita la Protezione Civile, a gestire di fatto la macchina dei soccorsi mettendo in campo un Esercito che in quella circostanza fornì indubbiamente una delle sue immagini e prestazioni migliori.
Nel 1983, chiese ed ottenne da Craxi l’incarico al più tranquillo, almeno in apparenza, Ministero del Turismo e dello Spettacolo, dove nei tre anni successivi legò il suo nome ad una riforma del C.O.N.I. attesa da tempo immemorabile ed alla legge sul Fondo Nazionale per lo Spettacolo, destinata ad assicurare per molti anni l'attività delle istituzioni della musica, del cinema e del teatro.
Dal 1986 al 1988 fu membro del comitato ristretto della Camera dei Deputati  per i Servizi Segreti e per il Segreto di Stato, e in questa veste gli toccò relazionare sull’episodio di Sigonella in cui aveva avuto parte come membro del Governo. Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica per iniziativa del Presidente Sandro Pertini, la sua carriera politica si era di fatto esaurita con la Prima Repubblica. Negli ultimi anni si era dedicato all’attività di storico e di pubblicista. Aveva pubblicato di recente L'Esplosione: storia della disgregazione del PSI e le sue memorie come Ministro della Difesa, L'Ora di Austerlitz.

La Toscana che da tempo ha smesso di essere il Granducato dice addio al suo ultimo Granduca. Della sua opera, consegnata ormai alla storia, non rimane pressoché niente nelle stanze sia della Regione che del Comune di Firenze. Tutto spazzato via dall’opera di successori difficilmente paragonabili a questo gentleman illuminato che aveva retto il timone della pubblica amministrazione locale in un età difficile, ma in cui ancora ci si illudeva che i grandi cambiamenti, se ben governati, potessero portare a grandi risultati.

sabato 7 gennaio 2017

La bandiera dei tre colori

La bandiera dei tre colori ha 220 anni. Il 7 gennaio 1797, il Congresso della Confederazione Cispadana adottò il tricolore bianco, rosso e verde come propria bandiera senza probabilmente immaginare che la sua scelta avrebbe avuto una portata storica ben al di là della contingenza del momento.



























La Rivoluzione Francese stava trionfando in Europa, esportata principalmente dalle armi del suo generale più talentuoso, e a breve più famoso: Napoleone Bonaparte. L’ambizioso soldato corso, che solo per un anno non aveva avuto i natali come cittadino della Repubblica di Genova, aveva lanciato nell’aprile 1796 la campagna d’Italia come geniale escamotage per mettere in ginocchio l’Impero Asburgico, principale avversario della Francia repubblicana e potenza dominante nella penisola italiana fino a quel momento.
Gli eserciti di Bonaparte sbaragliarono quegli austriaci un po’ dovunque, e alla fine di quell’anno buona parte dell’Italia settentrionale si era costituita in regimi repubblicani che chiedevano l’affiliazione alla casa madre francese.
La Lombardia era diventata la Repubblica Cisalpina, l’Emilia e la Romagna costituirono la Repubblica Cispadana, e adottarono un tricolore a bande orizzontali verdi, bianche e rosse. Che il Congresso cispadano riunito a Reggio Emilia sancì definitivamente il 7 gennaio 1797, dopo aver reso le bande verticali. In pratica, era il tricolore francese imbracciato dalla Marianna sulle barricate del 14 luglio 1789 a Parigi, con il verde sostituito al blu pare in omaggio alle divise della prima Guardia Nazionale repubblicana costituita dai patrioti milanesi. Poco dopo, Cisalpina e Cispadana si fusero, era il 27 luglio 1797, 9 Termidoro secondo il calendario della Rivoluzione. Rimasero la Repubblica Cisalpina ed il Tricolore bianco, rosso e verde che il deputato Giuseppe Compagnoni di Ferrara aveva fatto approvare a quello storico Congresso.
Napoleone incoraggiò tutti questi stati di fatto autocostituitisi in diritto perché gli premeva sostanzialmente di lasciare una situazione la più stabilizzata possibile alle spalle del suo esercito che scendeva al sud verso lo Stato della Chiesa ed il Regno di Napoli. Il quale nel frattempo si apprestava a diventare anch’esso una Repubblica rovesciando i Borbone ed adottando un suo proprio tricolore, a bande blu, gialle e rosse.
In realtà, a Bonaparte la causa dell’indipendenza italiana (che fu proprio lui storicamente a ridestare dopo oltre un millennio di quel servaggio di cui aveva lamentato Dante Alighieri il perdurare nella Divina Commedia) premeva assai meno delle proprie fortune personali. L’uomo che avrebbe trasformato la Prima Repubblica nel Primo Impero aveva le idee chiare fin dall’inizio, i patrioti italiani erano un alleato prezioso nella campagna per la demolizione dell’Impero Asburgico che ingessava l’Europa di allora, e li avrebbe sostenuti fintanto che gli faceva comodo.
Campoformio, nell’ottobre di quel fatidico 1797, non esitò a porre fine alla gloriosa millenaria storia della Repubblica di Venezia consegnandola a quell’Austria che aveva combattuto fino a poco prima per ottenere in cambio una pace che gli consentisse di mantenere le posizioni acquistate in Italia, e nello stesso tempo di dedicarsi ad un settore strategico nel frattempo divenuto ai suoi occhi più importante: la campagna d’Egitto contro quello che sarebbe diventato il suo acerrimo, mortale nemico, l’Impero Britannico.
Ma nell’inverno 1797, gli irredentisti italiani potevano ancora sognare a briglia sciolta, immaginandosi che la Repubblica Cisalpina sarebbe diventata in breve tempo Repubblica Italiana, riunificando quella serva Italia di dolore ostello che non lo era più stata dal giorno in cui Odoacre aveva restituito le aquile dell’Impero Romano d’Occidente a Costantinopoli.
La parabola umana, militare e politica di Napoleone Bonaparte fece il suo corso, lasciando l’Italia alla restaurazione asburgica del Congresso di Vienna del 1815. Quando prese a soffiare di nuovo il vento delle rivoluzioni europee e dell’indipendenza nazionale, ed un nuovo campione - Carlo Alberto di Savoia - scese in campo nel 1848 per incarnare i sogni irredentisti della Penisola, il tricolore era ormai entrato nei cuori dei patrioti. E fu quello che Carlo Alberto impugnò varcando il Ticino, l’affluente del Po che segnava il confine del Piemonte con il Lombardo-Veneto austriaco, in direzione di quella Milano che si era sollevata dando vita alle celebri Cinque Giornate, fasciata dello stesso tricolore.
Il vessillo che da quel momento e fino al compimento del Risorgimento identificò la causa nazionale con il destino della Casa Savoia presentava sulla banda bianca lo stemma della monarchia piemontese, e lo avrebbe mantenuto fino al 2 giugno del 1946, quando il referendum sulla forma di governo avrebbe dato come esito la rinuncia degli italiani alla fedeltà ad una famiglia reale da cui li aveva separati l’orrore della seconda guerra mondiale.
La bandiera dei tre colori, di cui avevano cantato i patrioti del Risorgimento sulle parole di Cordigliani e Dall’Ongaro (i compositori che nel 1848 offrirono alla causa nazionale il loro canto, in concomitanza con quel Goffredo Mameli che avrebbe fornito alla giovane nazione italiana addirittura il suo inno, prima di morire sulle barricate della Repubblica Romana), fu codificata dall’art. 12 della neonata Costituzione repubblicana del 22 dicembre 1947, e come tale divenne la bandiera italiana.
Le leggi della Repubblica ne hanno in seguito regolamentato l’utilizzo, l’esposizione e la difesa, prevedendo il reato di vilipendio della stessa e prescrivendone insegnamento nelle scuole insieme agli altri simboli patrii italiani

Alla bandiera italiana è dedicata la Festa del Tricolore, istituita dalla legge n° 671 del 31 dicembre 1996, che si tiene ogni anno il 7 gennaio e che rievoca le vicende del nostro vessillo nazionale a cominciare da quella sua prima apparizione ufficiale in un lontano Congresso cispadano di esattamente 220 anni fa.