martedì 24 febbraio 2015

Bettino Craxi, l'uomo che disse no agli americani



24 febbraio 2014

Avrebbe compiuto 80 anni oggi. Un’età in cui in Italia una carriera politica è tutt’altro che conclusa, si è ancora in tempo per fare, per esempio, il presidente della repubblica. Chissà dove l’avrebbe portato la sua carriera, se non fosse intervenuta Mani Pulite a cambiare il corso della sua vita, della nostra, e di quella della stessa repubblica.
Benedetto Craxi detto Bettino era nato a Milano il 24 febbraio 1934. Suo padre, l’avvocato Vittorio, era un antifascista dichiarato fino al punto di subire la persecuzione del regime. Il piccolo Bettino era un carattere ribelle, turbolento, che fu mandato a studiare in collegio dai preti, anche per sottrarlo alla guerra ed alle conseguenze dell’attività antifascista del padre. Dopo la liberazione, Craxi padre divenne vice-prefetto di Milano e poi prefetto di Como. Craxi figlio divenne un giovane studente liceale iscritto al Partito Socialista. A 23 anni, mentre studiava giurisprudenza, fu eletto al Comitato Centrale del PSI. A 31, era membro della direzione nazionale, nonché assessore al Comune di Milano.
Erano gli anni in cui il Partito Socialista viveva una svolta epocale. Abbandonato il Fronte Popolare del 1948 che lo aveva visto subire la partnership in posizione minoritaria con il partito Comunista (e l’inevitabile relegamento all’opposizione negli anni della Guerra Fredda), il segretario Pietro Nenni (di cui Craxi fu un fervente sostenitore) decise nei primi anni sessanta di recuperare al suo partito un ruolo di autonomia sfruttando il maturare di circostanze irripetibili: un nuovo clima internazionale di distensione e l’apertura democristiana verso un centrosinistra in cui il PSI sarebbe diventato un partner fondamentale, il più importante a dispetto di repubblicani, liberali e socialdemocratici.
Furono anni esaltanti ma difficili per i socialisti. La spaccatura con i comunisti lasciò strascichi e odii che non si sarebbero sanati più, la collaborazione con la DC si rivelò più difficile del previsto, un tentativo di riunificazione con i socialdemocratici (la componente antimarxista che fin dal 1947 aveva ripudiato il fronte con il PCI) si risolse in un fallimento certificato già nel 1969. Un anno prima, Bettino Craxi era stato eletto per la prima volta al parlamento. Un anno dopo, nel 1970, divenne per la prima volta vicesegretario, sotto Nenni. Nel 1972 fu confermato, pur con il cambio di timone a favore di De Martino, esponente della corrente favorevole al ritorno a fianco al PCI.
In quegli anni, Bettino Craxi strinse rapporti di amicizia con i principali leader del socialismo, del laburismo e della socialdemocrazia europea, da Willy Brandt a Felipe Gonzales, a Francois Mitterand, a Mario Soares, ad Andreas Papandreou. Alcuni di quei leader vivevano in esilio poiché nei rispettivi paesi (Grecia, Spagna, Portogallo) vigeva una dittatura ed i partiti socialisti erano messi al bando. Craxi fu responsabile per il PSI del finanziamento ai partiti fratelli in clandestinità. A questi, si aggiunse nel 1973 il Partito Socialista Cileno di Salvador Allende, di cui era stato amico personale prima della tragica fine.
In quegli stessi anni, inoltre, mentre prendeva il sopravvento la corrente filo-marxista di De Martino, il giovane Craxi elaborò invece un riavvicinamento al socialismo libertario di Proudhon ed un ripudio di quello marxista-leninista, con tanto di distacco (e fu il primo a professarlo apertamente) dalla tradizione bolscevica mai messa in discussione dai tempi della Rivoluzione di Lenin nel 1917. Quando nel 1976 De Martino portò il PSI al disastro elettorale, con discesa al di sotto della soglia del 10% a fronte del risultato storico dei “rivali” del PCI al 34% (record mai più eguagliato) e della tenuta a fatica della Democrazia Cristiana per pochi voti, la direzione del partito decise di imprimere una svolta alla politica socialista.
Tuttavia, essendo le correnti principali assai divise sul da farsi e sulla figura del nuovo segretario da nominare, qualcuno ebbe l’idea di individuare nell’ancora semisconosciuto Bettino Craxi una figura “di transizione”, che consentisse di traghettare il partito verso tempi e sponde migliori.
E’ già capitato nella storia di varie istituzioni che si ritenesse opportuno nominare un uomo di transizione, e che poi invece venisse fuori che quell’uomo avrebbe cambiato l’istituzione e la vita dei suoi adepti irrevocabilmente e per sempre. Un nome su tutti, Angelo Roncalli, diventato papa col nome di Giovanni XXIII, l’uomo la cui carezza
avrebbe cambiato la Chiesa rimasta immutata per 2.000 anni. Questo fu anche il destino di Bettino Craxi.
L’uomo che emerse segretario dal congresso straordinario tenuto all’Hotel Midas di Roma cambiò il Partito Socialista come nessuno dei prestigiosi segretari che l’avevano preceduto aveva saputo fare, da Turati a Nenni. La storia avrebbe detto che sarebbe stato anche l’ultimo dei segretari del PSI, come se un cerchio si fosse chiuso. Il partito che era nato nel 1982 per dare speranza di riscatto ai lavoratori d’Italia fu rivoltato da Bettino Craxi come un guanto. Una nuova generazione, che non aveva conosciuto né Settimane Rosse, né guerre mondiali, né confino, né Fronti Popolari fu portata avanti per opera del nuovo segretario, la cosiddetta rivoluzione dei quarantenni. Bettino era un leader carismatico, e lo dimostrò presto, portando dalla sua parte gente inizialmente a lui ostile come Signorile, Manca, De Michelis, Martelli, la nouvelle vague del partito, e mandando in pensione la vecchia guardia dei Nenni, De Martino, Lombardi, carichi di gloria ma anche di età e di sconfitte.
I predestinati si vedono anche dalle occasioni che trovano lungo la strada. Il segretario che auspicava la fine del socialismo marxista, il distacco definitivo dal detestato PCI, la prosecuzione dell’alleanza con la DC per la costruzione di una alternativa futura a guida socialista, si trovò ben presto come interlocutrice una Democrazia Cristiana che nel frattempo aveva abbandonato le velleità di compromesso storico, soffocate dal sangue di Aldo Moro. Nei 55 giorni del rapimento dello statista pugliese, Craxi fu l’unico insieme a Marco Pannella a prendere le distanze dalla linea della fermezza adottata da tutto l’arco costituzionale e a dichiarare che per salvare la vita al presidente del consiglio detenuto dalle Brigate Rosse si doveva trattare con queste ultime. Una linea che lo mise per la prima volta in contrasto non solo con le forze politiche italiane, ma anche con gli americani, contrari da sempre alle trattative con i terroristi. All’uomo, del resto, non difettavano né il carattere né una visione della politica non solo nazionale ma anche internazionale improntata alla ricerca di una sempre maggiore autonomia rispetto ai punti fermi atlantici, mai messi in discussione dai tempi di De Gasperi e che lo stesso partito Comunista Italiano aveva finito per accettare con Berlinguer e la sua benedizione dell’ombrello atomico NATO.
Dopo la tragica morte di Aldo Moro ed il tramonto delle ipotesi compromissorie con i comunisti, il quadro politico cambiò radicalmente, e Craxi fu pronto a coglierne le occasioni come un novello Cavour. Al Quirinale nel frattempo si era insediato un vecchio socialista di quelli che il tempo non aveva ossidato. Sandro Pertini era destinato a restare nel cuore di tutti gli italiani anche e soprattutto per la sua azione di rivitalizzazione delle istituzioni. Da più di 30 anni la guida del governo era appannaggio dei democristiani, ma a seguito dei risultati incerti delle elezioni del 1979 Pertini non ebbe alcuno scrupolo a dare l’incarico all’outsider che da poco aveva in mano il suo ex partito. Il tentativo non andò a buon fine, ma a Craxi restò il record di primo presidente incaricato non democristiano della storia della repubblica. Il primo presidente non DC incaricato e fiduciato dal parlamento fu poi il repubblicano Spadolini, nel 1982. Ma a Craxi l’anno dopo, a seguito di un risultato elettorale particolarmente positivo, toccò l’onore di essere il primo presidente del consiglio socialista della storia d’Italia. Ed anche l’ultimo, come la storia stessa avrebbe decretato.
I quattro anni del governo Craxi sono tutt’ora oggetto di valutazioni controverse. Dopo quasi 40 anni di gestione sostanzialmente immutata e immutabile da parte della balena bianca democristiana, il segretario socialista introdusse diverse innovazioni e conseguì alcuni risultati che vennero visti dalla sinistra comunista con decisa avversione, poiché il PCI aveva preso assai presto a ricambiare l’ostilità craxiana con eguale fervore. Vennero invece salutati con favore da tutti coloro i quali ritenevano che per l’Italia fosse giunto il momento di cambiare, dopo diverse stagioni esaltanti ma estenuanti culminate negli Anni di Piombo.
L’introduzione del Consiglio di Gabinetto come governo ristretto in stile britannico, l’abolizione della Scala Mobile, il nuovo concordato che veniva a sostituire i patti Lateranensi di Mussolini nei rapporti tra Stato e Chiesa, la politica economica incentrata sulla riduzione dell’inflazione (che aveva galoppato per tutti gli anni settanta) e sulla lotta all’evasione fiscale, il favore accordato alla creazione del polo televisivo commerciale della Fininvest dell’amico Berlusconi (favore interessato all’acquisizione di uno spazio mediatico che la RAI del manuale Cencelli non poteva all’epoca offrire al PSI di Craxi), la lotta ai potentati economici vecchi e nuovi rappresentati da Confindustria e Mediobanca (i santuari del capitale del’epoca), la politica estera concentrata sull’affrancamento dell’Italia dal ruolo di periferia dell’impero americano (culminata nel leggendario episodio di Sigonella nel 1985, quando i carabinieri negarono con le armi spianate ai marines statunitensi il permesso di portarsi via dal suolo italiano i terroristi che avevano preso in ostaggio la nave Achille Lauro) pur mantenendo il tradizionale atlantismo, sono tutti fattori che rendono il quadriennio governativo craxiano un periodo storico particolarmente significativo, comunque uno valuti azioni e risultati della sua politica.
Bettino Craxi lasciò il governo nel 1987 allorché la DC reclamò per sé ed il suo segretario Ciriaco De Mita la premiership. Fino al 1992 continuò ad esercitare un ruolo di primo piano anche in Italia e fuori, e coltivò il sogno di tornare alla guida del governo. Il crollo del Muro di Berlino metteva in crisi la posizione internazionale sia della Democrazia Cristiana che del Partito Comunista.
Avrebbero potuto aprirsi nuovi scenari per il Partito Socialista, che quell’anno festeggiava un secolo di vita. Non sapremo mai come sarebbe andata, se il 17 febbraio di quello stesso anno un giovane e fino ad allora oscuro magistrato della Procura di Milano, Antonio Di Pietro, non avesse arrestato un esponente socialista assessore al Comune di Milano, colto in flagrante mentre intascava una tangente. E se da lì, come un geyser tenuto sotto pressione per troppo tempo, non fosse esplosa Mani Pulite.
Come sarebbe successo in seguito per il suo amico Berlusconi, è difficile che un personaggio del carisma e del calibro di Bettino Craxi si attiri giudizi obbiettivi. E’ stato probabilmente uno dei tre o quattro statisti di categoria superiore che la nostra storia abbia annoverato, insieme a Cavour, Giolitti e De Gasperi. Ma il giudizio su di lui è pesantemente condizionato da quanto emerse in quella stagione di indagini sotto i riflettori della televisione in cui il Pool di Mani Pulite fece a pezzi la Prima Repubblica. La quale Prima Repubblica dimostrò ampiamente di meritarselo, tra l’altro, alzando le mani in segno di resa senza alcuna dignità. Con un’unica eccezione, quella giustappunto di Bettino Craxi. Dal discorso in Parlamento con cui chiese la fiducia per il proprio ex braccio destro Giuliano Amato fino a quello in aula in tribunale a Milano con cui ribatté colpo su colpo a Di Pietro ed al Pool di Borrelli, Craxi rivendicò a se stesso ed al sistema politico di cui aveva fatto parte la legittimità della propria azione, svoltasi in un’epoca di guerra fredda, ma comunque guerreggiata. I suoi avversari gli ribattevano che si era trattato solo di corruzione, che non fosse per beneficio personale ma soltanto del partito non aveva importanza.
Craxi rimase in piedi finché poté, di fronte ad un paese in cui montava la marea giustizialista. Quando ricevette il primo avviso di garanzia, il 15 dicembre 1992, il suo destino apparve segnato. Due mesi dopo si dimise da segretario del PSI, ed il partito stesso non gli sopravvisse che pochi altri mesi. Il 30 aprile, dopo che la Camera aveva negato l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti, ci fu il famoso lancio di monetine alla sua uscita dall’Hotel Raphael in Via del Corso a Roma, un episodio che segna lo spartiacque storico tra la Prima e la Seconda Repubblica. Con l’inizio di una nuova legislatura, in cui non era stato eletto al Parlamento, Craxi divenne un cittadino qualsiasi liberamente perseguibile dai magistrati. Ritenendo che questi ultimi avessero un fumus persecutionis nei suoi confronti, Bettino Craxi lasciò il suolo italiano per l’ultima volta il 15 aprile 1994 per rifugiarsi nella Tunisia dell’amico Ben Alì, e precisamente nella sua residenza di Hammamet. Un luogo che sarebbe diventato un simbolo per chi voleva riscrivere la storia d’Italia in senso diverso a quello che stava emergendo dai processi di Mani Pulite. Un luogo dal quale Bettino Craxi non avrebbe più fatto ritorno.
Il 19 gennaio 2000 un arresto cardiaco pose fine alla vita di quello che può considerarsi uno dei maggiori statisti della storia d’Italia. Ai funerali, svoltisi a Tunisi, i militanti socialisti presero a bersaglio di monetine la delegazione del governo D’Alema inviata a presenziare, con ciò intendendo restituire il trattamento che il loro leader aveva ricevuto all’uscita dell’Hotel Raphael. La tomba di Bettino Craxi è orientata in direzione dell’Italia. Alcune amministrazioni comunali hanno tentato in varie riprese di intitolargli strade o piazze, senza successo, per una puntuale sollevazione più istituzionale che popolare che comunque sembra mostrare come certe passioni del XX° secolo non si siano ancora sopite. Per un giudizio storico equilibrato di Bettino Craxi bisognerà attendere almeno un’altra generazione. Ma questo è il destino di tutte le grandi personalità della storia.

lunedì 23 febbraio 2015

Catenaccio granata, Fiorentina beffata

Avevamo lasciato Fiorentina e Torino sul rigore malamente sbagliato daAlessio Cerci, che per poco non era costato ai granata la qualificazione all’attuale edizione dell’Europa League. Li ritroviamo sul rigore malamente sbagliato da Khouma El Babacar, che potrebbe anche costare ai viola la qualificazione all’edizione prossima della stessa Coppa, e molto più probabilmente riallontana per loro forse definitivamente il discorso Champion’s League.
Rispetto alla passata edizione, stavolta è il Torino a non aver niente da perdere, se non l’allungamento della striscia positiva di dieci partite senza sconfitte. I viola invece si giocano la chance di approfittare dell’ennesimo pareggio romanista, con la Lazio che ha già vinto contro il Palermo ed è nel frattempo ripassata avanti. Oltre allo storico gemellaggio, granata e viola sono inoltre accomunati da un crocevia del destino giovedi prossimo, i primi a Bilbao e i secondi a Firenze, due match presumibilmente durissimi che inducono i rispettivi allenatori ad optare per il turnover.
Giampiero Ventura passa secondo una certa scuola di pensiero per uno degli ultimi esemplari di un calcio che fu, fatto di cuore, tecnica e tattica. Con buona pace dei nostalgici e malgrado il tecnico granata disponga di alcuni ottimi giocatori come Quagliarella e Maxi Lopez, la sua squadra viene qui a Firenze a fare poco più che un catenaccio di lusso, né più e né meno come il Genoa ed il Sassuolo a suo tempo.
Il risultato è lo stesso. La Fiorentina pareggia la sesta partita delle dodici finora giocate in casa. Alla fine, quando sarà tempo di bilanci, i punti persi in casa saranno probabilmente determinanti per spiegare gli obbiettivi eventualmente mancati. Per il momento, stante l’impegno ravvicinato e la disposizione tattica dell’avversario, in realtà c’è poco da rimproverare al mister Montella ed ai suoi ragazzi se non una cattiva gestione del pallone nei minuti finali. Come l’Italia nella finale di Euro 2000 a Bruxelles contro la Francia, la pretesa di giocare il pallone fino all’ultimo invece di limitarsi a controllarlo costa cara. Un altro bicchiere mezzo pieno che ognuno dei tifosi come al solito sceglierà di bere sorseggiandolo dalla parte che preferisce.
I vecchi avevano un detto, non la vinci nemmeno se la giochi per quattro giorni di fila. La realtà probabilmente è questa. Non si può dare la colpa alle scelte del tecnico, se Ilicic e Badelj risultano alla fine tra i migliori in campo, né tantomeno agli episodi. Un rigore sbagliato nei primissimi minuti non può essere determinante per pareggiare una gara dominata per ottanta minuti su novanta. La Fiorentina sta studiando per diventare, forse, una grande squadra, ed il suo tecnico con lei. Sono incidenti di percorso, non sono i primi e non saranno gli ultimi. Finché c’è tempo per rimediare c’è speranza, giovedi prossimo arriveranno i primi verdetti e sbagliare sarebbe eventualmente più doloroso.
E’ una partita segnata, dicevamo. Gli episodi su cui rammaricarsi sono tanti, a cominciare dal primo rigore reclamato al primo minuto dai viola per fallo di mano dell’ex Emiliano Moretti, abbastanza plateale. L’arbitro Guida non vede, e così i suoi assistenti. Al nono minuto invece è impossibile non vedere Benassi che frana addosso a Badelj. Sul dischetto va incomprensibilmente Babacar e la Fiorentina si dimostra da subito ingrata verso la benevolenza della sorte.
Iosip Ilicic
Iosip Ilicic
Il senegalese ha avuto una settimana complicata, diciamo così, quanto può esserlo quella di un atleta fermato dalla polizia alle tre di notte per guida senza patente. Dicono che il ragazzo, al di là delle sue dichiarazioni, sia inquieto per la sua situazione contrattuale. Talmente inquieto che non si sa bene chi sia attualmente il suo procuratore, seBastianelli come da procura o Raiola come da voci di calciomercato. Il quale Raiola a sua volta sta vivendo un periodo assai turbinoso, da quando ha deciso di diventare testimonial antirazzista a spese dell’Arrigo Sacchi nazionale.
Sia come sia, il ragazzo che attualmente è capocannoniere di questa Fiorentina dimostra di non esserne il rigorista, andando sul dischetto titubante e calciando in maniera telefonata tra le braccia di Padelli che ringrazia sentitamente, ancor più per la ribattuta scomposta dello stesso senegalese che finisce per ostacolare il meglio piazzato Diamanti. Parentesi, a non voler concedere ulteriore fiducia al rigorista dell’anno scorso Gonzalo Rodriguez dopo l’errore di Genova, con l’autore dell’errore di Parma Mario Gomez a riposo per turnover, non sarebbe stato meglio mandare proprio Diamanti a cercare di non sbagliare il terzo rigore su tre dato alla Fiorentina in questa stagione? Montella avrà avuto comunque le sue buone ragioni.
Andiamo avanti. Un minuto dopo l’incontenibile Josip Ilicic, che sta facendo la partita dell’anno per la delizia di un Franchi piacevolmente stupito e plaudente, va via in serpentina a mezza difesa del Toro e viene abbattuto al limite dell’area da Vives. Punizione e cartellino giallo, anche se il fallo era da ultimo uomo e l’occasione da rete abbastanza chiara. L’errore (il secondo) di Guida costerà caro alla Fiorentina. La squadra viola anche senza Mati Fernandez e Pasqual è piena zeppa di giocatori in grado di battere una punizione non come Pirlo ma poco ci manca. Quella che ne segue è invece soltanto la prima di una serie di punizioni calciate malamente che vanno ad allungare la lista delle occasioni sprecate.
Nel primo tempo la Fiorentina ha altre occasioni clamorose, il Torino una sola ma tale da attenuare considerevolmente i rimpianti viola. Lopez viene smarcato da un tacco di Quagliarella e si ritrova ad un metro da Tatarusanu, che dopo neanche mezz’ora si è già guadagnato lo stipendio salvando. Nella ripresa la musica cambia poco, il Toro sta tutto indietro ed esce di rado, anche se dimostra di avere la tecnica sufficiente per osare. Ma Ventura non corre rischi, e addirittura toglie Quagliarella per Martinez.
Il gol di Salah
Il gol di Salah
Catenacciari sì, ma di lusso. Sarà proprio il venezuelano ad avere la seconda grande occasione per i granata, saltando Tatarusanu e tirando a botta sicura. Nell’occasione lo stipendio se lo guadagna Gonzalo Rodriguez spazzando alla disperata. Non gioca male la difesa, soprattutto perché a parte queste due circostanze il Toro in avanti non si vede mai. A centrocampo Badelj svetta come un gigante, giocando palloni in quantità e finalmente anche in qualità. Aquilani dimostra di essere tornato con tante ottime idee e però una condizione ancora approssimativa per metterle in pratica. Ilicic stasera sembra il Borja Valero dei giorni migliori. Davanti, Diamanti svaria, gioca e prende botte, finché la sua riserva di benzina non si esaurisce obbligando Montella a sostituirlo con Salah. A quel punto Joaquin ha già preso il posto di un discreto Aleandro Rosi.
Con due delle armi più affilate in campo la musica dovrebbe cambiare per i viola, ma in realtà gli assalti vanno ad infrangersi inesorabilmente contro il muro granata. Babacar cerca di farsi perdonare l’errore iniziale lottando su tutti i palloni, ma spesso e volentieri si trova a fare il centravanti boa, spalle alla porta, e non è proprio il suo repertorio migliore. Un attimo dopo aver calciato malamente fuori l’ultima delle sue occasioni, Montella lo richiama a beneficio di Gilardino. Il Gila sì che sa fare da sponda. E alla prima occasione la fa da par suo. Il beneficiario è Salah che tirando al volo conquista un altro pezzetto del cuore di Firenze.
1-0, quando nessuno ci sperava più. Mancano cinque minuti più recupero. Il momento in cui i risultati si gestiscono, con buona pace di esteti e profeti del calcio. Il momento in cui l’Italia di Zoff perse un Europeo a causa di una palla giocata con supponenza dal suo uomo migliore, Francesco Totti. Il momento in cui la Fiorentina non capisce di aver avuto fin troppa grazia dalla sorte stasera, e di accontentarsi.
Macché, i suoi giocolieri continuano a stuzzicare il Toro già trafitto sul limite della sua area, tutti in linea pericolosamente, nessuno dietro a coprire. Non c’è niente di peggio che sentirsi superiori in una serata come questa, in cui non basta. Tocca proprio all’eroe di giornata Salah perdere il pallone della frittata. Da come partono in contropiede i tre che gli si avventano addosso togliendoglielo, si capisce che al termine di quell’azione la Fiorentina piangerà.
Salah e Gilardino esultano dopo il gol
Salah e Gilardino esultano dopo il gol
Molinaro va via sulla sinistra nemmeno fosse la reincarnazione di Zambrotta. Rasoterra al centro per Maxi Lopez quasi completamente solo, sul quale Tatarusanu compie l’ultimo dei suoi miracoli. Palla sulla destra dell’area piccola viola a Vives, che non dovrebbe esserci se Guida l’avesse spedito a fare la doccia quando doveva. Invece c’è, e la piazza con bravura e freddezza, alla Martin Jorgensen. I sogni viola sono durati esattamente due minuti.
Difficile distribuire le colpe in una serata come questa, che si conclude con quattro minuti supplementari di vani assalti viola ad una porta granata che non si può nemmeno definire stregata, visto che Salah era riuscito a bucarla. Non la vinci più nemmeno se continui per quattro giorni, avrebbero detto i vecchi. E soprattutto se non impari a gestire le situazioni, ciò che fa di una buona squadra una grande squadra.
Montella e i suoi ragazzi stanno studiando, come a tutti gli studenti delle Superiori alcuni compiti vanno bene, altri un po’ meno. Il compito che conta è quello di giovedi, chi andrà in campo che si sia preparato a dovere. Ci sono esami che valgono una stagione intera.

domenica 22 febbraio 2015

Numero Zero, i misteri d'Italia secondo Umberto Eco

Settima prova d’autore per Umberto Eco. Avevamo lasciato il professore di Alessandria all’ultima pagina del diario, bruscamente interrotto, di Simone Simonini, l’avventuriero che aveva attraversato tutto l’Ottocento ed il Risorgimento italiano per andare a concludere la propria esistenza in un improbabile attentato alla metropolitana di Parigi (allora in costruzione, siamo nel 1898).
Lo ritroviamo (siamo in Italia, nel 1992, nei giorni in cui esplode l’inchiesta Mani Pulite) nelle prime, allucinate pagine del diario di tale Colonna, giornalista fallito, o perlomeno che non ha mai sfondato. Il nuovo personaggio di Umberto Eco è anche lui un paradigma vivente, e del resto non a caso il suo creatore è il massimo esponente italiano (e forse internazionale) di semiotica, la scienza che studia i segni ed il loro significato, la base di quell’altra scienza diventata fondamentale ai nostri giorni, la comunicazione.
Se Simonini, falsario e spia, aveva rappresentato il lato oscuro di tutta la nostra epopea risorgimentale, entrando direttamente o indirettamente in tutte le trame ordite dai servizi che fiancheggiarono – e spesso precedettero – gli eserciti in campo pro o contro l’Unità d’Italia, questo ancor meno accattivante dottor Colonna, di cui non sappiamo e non sapremo nemmeno il nome di battesimo, rappresenta il lato oscuro della nostra vita politica e civile contemporanea, la “notte della Repubblica” incarnata dalla degenerazione del suo Quarto Potere, quello che avrebbe dovuto esserne il guardiano più fedele.
Simonini attraversa un secolo in cui tutto si vena – nel bene e nel male – di Romanticismo. Perfino le leggende nere che vengono ad arte coltivate dal mondo delle spie per discreditare avversari pericolosi, fino a quella destinata a diventare la madre di tutte, la favola tragica del Protocollo dei Savi di Sion, la presunta cospirazione ebraica per il dominio del mondo di cui si sarebbe nutrito in buona parte l’antisemitismo nel secolo successivo. Con le conseguenze che sappiamo.
Colonna non lo si può definire un suo epigono, ma semmai qualcosa di meno e di diverso, un ingrediente grezzo. I suoi tempi sono assai meno romantici, ed anche meno eroici, anche se di bombe ne scoppiano e di guerre ne vengono combattute con pari spargimento di sangue, anzi. E’ un personaggio di quel sottobosco del mondo dell’informazione che in tempi di tarda Prima Repubblica può portare un individuo ad essere un nuovo Mino Pecorelli (il re del dossieraggio ricattatorio scomparso misteriosamente nel 1979) così come il probabile capo-redazione di un misterioso settimanale destinato a rivoluzionare il panorama dell’editoria giornalistica italiana.
A cinquant’anni, quando sembra ormai che l’avvenire sia per lui tutto dietro le spalle, il Colonna viene contattato dal misterioso faccendiere di un ancor più misterioso imprenditore (il Commendatore) desideroso di una entrata nel salotto buono dell’informazione in vista di una discesa in campo successiva. Alzi la mano chi non ha riconosciuto il riferimento storico, peraltro tutt’ora di attualità.
Antonio Di Pietro all'epoca del Pool Mani Pulite
Al Colonna, giornalista oscuro ma a suo modo provetto, viene affidato il compito di istruire una redazione fatta di personaggi ancora più borderline di lui su come si costruisce una notizia. Si badi bene, in quei giorni – primavera 1992 – di notizie ce ne sarebbero a sfare, basterebbe uscire per strada e recarsi presso uno dei tribunali della Repubblica, a cominciare da quello di Milano dove il Dott. Antonio di Pietro ha cominciato la sua breve stagione di magistrato di Mani Pulite.
Al Commendatore, gli viene ben presto fatto capire, non interessano le notizie di per sé, ma solo quelle che possono dare, se opportunamente enfatizzate e/o arricchite, giovamento a lui e fastidio ai suoi avversari. Si lavora ad un “Numero Zero” (di qui il titolo del romanzo) di un periodico, Domani, che dovrà rivoluzionare il mondo del giornalismo italiano. In che misura, il faccendiere del Commendatore lo lascia soltanto intuire, ma efficacemente.
E così, da una riunione all’altra di una redazione di sgangherati reporters che navigano a vista tra il miraggio finalmente di una carriera vera e l’inquietudine di una coscienza che non vorrebbe piegarsi del tutto a sacrificare la libertà di stampa al tornaconto dell’editore, si consuma una parabola del giornalismo italiano che di per sé sola farebbe del racconto di Eco un altro capitolo interessante della sua produzione sia narrativa che saggistica. Pagina dopo pagina, riunione dopo riunione, l’esperto di comunicazione illustra – e ci illustra - i suoi trucchi (o che almeno potevano considerarsi tali nel 1992, quando eravamo tutti più speranzosi o più ingenui) e ci svela come le voci COMUNICAZIONE ed INFORMAZIONE in realtà possano arrivare a contenere tutto ed il contrario di tutto.
E’ la stampa, bellezza! dice Humphrey Bogart al boss della malavita Rodzich che vorrebbe chiudere la bocca al suo giornale, nel film L’Ultima minaccia. Il cinema e la letteratura americani ci hanno tramandato un’immagine epica della stampa locale, da Quarto Potere di Orson Welles a Tutti gli uomini del Presidente di Alan J. Pakula. E’ un’immagine peraltro accreditata dai brillanti risultati ottenuti nella realtà. La testardaggine di Bernstein e Woodward fu fondamentale per arrivare alle dimissioni di Nixon dopo il Watergate.
In Italia, le rare pellicole di ambientazione giornalistica come il Muro di Gomma di Marco Risi sulla tragedia di Ustica dipingono la carta stampata a tinte migliori di quelle visibili nella realtà. Il 1992 fu un anno fatidico, quello in cui finalmente la società civile avrebbe potuto prendere il controllo del proprio destino in questo paese, guidata da una stampa che avesse colto l’occasione di affrancarsi da padronato e politica cavalcando la tigre della stessa libertà dei cittadini. Una breve ed illusoria stagione.
12 dicembre 1969, Milano, banca Nazionale dell'Agricoltura,
Piazza Fontana
La parabola di Domani, il settimanale immaginato da Umberto Eco, è quella di tutto il giornalismo nostrano. Il breve esperimento del fantomatico, si fa per dire, Commendatore e della sua improbabile redazione va ad infrangersi al pari dell’opera del falsario Simonini sulle conseguenze di una leggenda nera. Una delle tante di cui è piena la storia d’Italia, ma anche la più attuale. Il presupposto è clamoroso, e non diciamo quale per non rovinare il piacere della lettura e la suspence. Il senso è che la storia d’Italia del Ventesimo Secolo è attraversata tra trame nere (e questo lo sapevamo) collegate da un unico filo anch’esso nero (e questa è un’ipotesi suggestiva, che gli storici un giorno potranno confermare o smentire e che nel frattempo ci aiuta a mettere in fila tanti fatti oscuri della notte della Repubblica, fin da prima della sua nascita).
Il protagonista inconsapevole di Numero Zero non a caso si chiama di cognome Braggadocio, parola che l’italiano ha mutuato dall’inglese e che significa spaccone, millantatore, imbroglione. E’ la parte di coscienza che tira la giacchetta a Colonna invitandolo ad aprire gli occhi sui dossier, sui documenti veri o fabbricati che circolano nel sottobosco dell’informazione e dei servizi italiani. Un ambiente comune, magmatico e fetido nel quale non si distingue più nulla.
San Benedetto Val di Sambro, 4 agosto 1974, treno Italicus
Come il Simonini istruito dai maestri dello spionaggio ottocentesco, Braggadocio e Colonna oscillano tra verità e fantapolitica in modo che non è più possibile stabilire ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Il giornalista in Italia è un apprendista stregone che impara a dosare gli ingredienti nelle misure “giuste”, vero o falso è tutta questione di momento o di enfasi, per un popolo abituato a ricevere la verità dal Potere, senza mai metterla in discussione, senza ribellarsi.
Finisce male, come l’opera precedente. Come la realtà. Mentre il Belpaese vive la breve, illusoria stagione di Tangentopoli, il ficcanaso che voleva svelare le Trame Nere fa una brutta fine, il suo collega che credeva di poter fare uno scoop giornalistico, di avere quantomeno davanti un avvenire giornalistico, si trova di fronte al dilemma di tutti i perseguitati da parte dei servizi segreti: far perdere le proprie tracce? E dove?
Il finale è amaro, come le conclusioni dell’autore, e di chiunque sa già com’è andata la storia, quella vera. Per far perdere le proprie tracce, anche nei confronti di se stessi, non importa scappare. Basta rimanere qui, nel paese dove dopo un po’ la gente si stanca, aspira alla normalità del “proprio particulare”, come lo definiva Guicciardini, mal digerisce rivoluzioni e capipopolo, politicanti (vecchi e nuovi) e magistrati. Aspira a voltare pagina, di quel giornale che non sopporta troppo carico di cattive notizie. Anestetizzata agli effetti ed al peso della verità.
Basta continuare come se nulla fosse successo. Nessuno si ricorderà più di te, di cosa hai fatto, di cosa cercavi. Il giornale che oggi sembra dinamite, domani al limite viene messo da parte per qualche ricerca di scuola. Domani l’altro ci si incarta il pesce o ci si copre un pavimento per rimbiancare.



Se un milione di persone crede ad una cosa idiota, la cosa non cessa di essere idiota” 
(Anatole France)

Vestivamo alla Nazarena

Mentre a Roma si continua l’inventario dei danni alla Barcaccia, e qualcuno si ricorda che Rotterdam, sede del famigerato Feyenoord, era anche la patria di quell’Erasmo che scrisse l’Elogio della follia (qualche suo connazionale magari ne ha un po’ travisato il senso), alla fine si deve constatare che il centro del ring è sempre suo, è sempre lui che rimane sotto i riflettori con la battuta più significativa, o – a seconda dei gusti – la sparata più grossa.
Matteo Renzi a fare il duro proprio non ci riesce, non è la sua cifra stilistica. Nell’iconografia di Happy Days a cui si ispira volentieri, vorrebbe essere il temibile Fonzie. Più spesso riesce ad assomigliare al goffo Potsie. Le sue frasi a caldo dopo gli incidenti di Roma che ci sono costati uno dei capolavori di Bernini padre, oltre a quello scarso residuo di immagine internazionale che ancora ci restava da spendere, assomigliano soprattutto a se stesso.
Ci aspettiamo dal Feyenoord una parola sola, di cinque lettere: scusa”. Ecco, ci mancava un capo di governo che chiede le scuse al presidente di una società sportiva, ora il mazzo è completo, dicono dalle parti dove il Renzi è nato. Ma del resto, come sa bene chi come noi ha seguito il fenomeno di questo personaggio fin dai suoi albori politici, non è nuovo a queste uscite. Cinque anni fa, la peggior nevicata a memoria d’uomo a Firenze, da lui opportunamente sottovalutata e affrontata con una faciloneria destinata a diventare consueta, costò alla città la peggior figuraccia fatta a memoria di sindaco. Il sindaco – manco a dirlo - era lui, non ancora assurto ai fasti della politica nazionale ed al segretariato dell’ectoplasma PD. Matteo Renzi, dopo ben quattro giorni in cui per le strade di Firenze si aggirarono i lupi facendola da padrone (dell’ATAF per esempio nemmeno l’ombra), intese cavarsela intimando alla neve di chiedere scusa.
Chissà come se la ridono in Olanda, e un po’ dovunque a giro per un continente che ha da tempo risolto i problemi di ordine pubblico legati al calcio. Dovunque meno che in Italia, ovviamente, basti pensare a cosa successe l’anno scorso sempre a Roma per la finale di Coppa Italia. Nessuno per fortuna escogitò di cavarsela chiedendo a Aurelio de Laurentiis di porgere le scuse da parte del Calcio Napoli per quello che avevano combinato i suoi tifosi. La responsabilità oggettiva del resto è la figlia di fico con cui uno stato che ormai ha abdicato alle sue funzioni precipue ed esclusive ha scaricato sui cittadini (e le persone giuridiche denominate società sportive sono cittadini anch’esse) la colpa delle proprie omissioni. La squadra del presidente del consiglio nel frattempo ha giocato a Londra, davanti a centomila persone italiani e inglesi nessuno dei quali si è sognato di alzarsi per un attimo dal suo posto a sedere o di buttare a terra una cartaccia prima o dopo la partita. Merito della Fiorentina, o merito di un ordinamento giuridico per sempre intitolato alla memoria di Mrs. Margaret Thatcher buonanima?
Così, mentre sindaco, prefetto e questore di Roma fanno a gara a chi provoca più e meglio il malcontento montante del popolo (la perla in questo caso è del Dott. D’Angelo, che declama stentoreo “Io non faccio morti!”, bravo Dottore, aspettiamo sempre che li facciano gli altri, e i suoi colleghi di Londra, Parigi, Amsterdam, Istanbul e via dicendo sono tutti degli incompetenti assassini), il presidente del consiglio è già passato oltre, via verso nuove avventure. Il suo paese ormai fa acqua da tutte le parti, e c‘è quasi da chiedersi se potrebbe stare peggio qualora la minaccia dell’ISIS si rivelasse più seria rispetto alla probabile pagliacciata che è.
Matteo Renzi è già a festeggiare altri successi, l’abolizione di un precariato che da tempo già non esisteva più (sostituito da forme di precariato più efficaci e più durature, e comunque per gli insoddisfatti c’è sempre la disoccupazione, chiara e netta), il salvataggio della Grecia con Tsipras che addirittura telefona a lui per primo, almeno così dicono i media. Chi salverà l’Italia, da Renzi, dalla Trojika, da una classe politica che è come un’idrovora senza nessuno ai comandi, nessuno lo sa. Qualcuno in ogni caso telefonerà a qualcun altro, e sarà già tanto se non si tratterà di una telefonata in stile Lotito. Nostalgia di Franco Evangelisti, prezioso braccio destro di Giulio Andreotti: quanto era più semplice, ed infinitamente meno costoso il suo celebre “a’ Fra’…che te serve?
Il Renzi post-Nazareno è comunque un territorio inesplorato. Fa’ a meno delle leggi, quando è complicato cambiarle (già sarebbe necessario per questo saper leggere e scrivere, e a giudicare dai Twit di tanti membri dell’Esecutivo o dell’area di maggioranza non è così scontato). I consigli regionali sono ampiamente in scadenza, ma di bandire i comizi elettorali non se ne parla. Materia delicata? Forse. In fondo chi si presenta all’elettorato a cuor leggero in questo momento? Al suo paesello natio, la Toscana, Renzi non ha fatto nemmeno le primarie del suo partito, per paura di quello che avrebbe potuto venirne fuori.
Era tutto più semplice ai tempi del Nazareno. Come il mondo ai tempi della Cortina di Ferro, diviso in due Blocchi che dicevano di essere in guerra, ma che erano guidati da due leader collegati da un telefono di colore rosso attraverso il quale si parlavano a meraviglia, evitando di dire e fare tante sciocchezze, soprattutto nucleari. Per un anno e mezzo Silvio e Matteo, qualcuno dice Silvio il Vecchio e Silvio il Giovane, avevano reso tutto più semplice. Profondamente invisi a buona parte dell’establishment dei rispettivi partiti, ma dotati di un consenso popolare personale che obbligava quell’establishment a piegare il collo, si erano messi d’accordo per esautorare l’unico voto popolare consentito da sua Maestà Re Giorgio e soprattutto la classe politica che ne era scaturita.
Il Parlamento si diverte, si potrebbe dire parafrasando un vecchio film di Eric Charell, a proposito dell’assemblea condotta (si fa per dire) negli ultimi due anni da Boldrini e Grasso fino all’apoteosi dell’elezione si Sergio Mattarella alla presidenza della repubblica. Il capolavoro di Renzi, è stato definito. Eleggere un democristiano per non perdere la componente post-comunista del partito. Il Giovane che fa le scarpe al Vecchio. Il Giovane che fa le scarpe a tutti. Il Vecchio che è finalmente finito. Il nuovo che avanza.
Siamo sicuri? Il Nazareno è una condizione dell’essere, non un patto politico che si può stracciare, come tutti i patti. A Berlusconi serviva di arrivare alla fine della sospensione dei diritti politici con il minor danno possibile per sé e per le proprie aziende, e magari far credere a qualche acerrimo nemico di essere fuori gioco. A Renzi serviva sopravvivere a tutte le anime del suo partito, da quelle veterocomuniste a quelle che forse si chiedono se per non morire comuniste era il caso di morire DC e confindustriali.
Sergio Mattarella era il successore designato dallo stesso Napolitano, che l’aveva cooptato da tempo, consegnandogli alla fine un paese a sovranità non più limitata ma addirittura inesistente. Il problema era eleggerlo salvando le rispettive facce. Rompere il Patto del Nazareno, o fingere di farlo, significa presentarsi ai “suoi” a destra e a sinistra e poter dire “ho fatto il mio dovere”, e non avere tra l’altro più nell’immediato l’obbligo di fare – o far finta di fare – riforme serie e per questo scomodissime. Poi si voterà, o si farà finta di farlo (“Se servisse a qualcosa non ve lo lascerebbero fare”, Mark Twain, cit.), poi si vedrà. Non si chiamerà più Nazareno, si chiamerà in qualche altro modo. Tsipras forse salverà la Grecia (semplicemente avendo mostrato un po’ di carattere alla BCE), Renzi non salverà l’Italia (con Berlusconi contento perché le sue aziende sono vive e vegete e gli insulti non se li prende più lui), ma i giornali italiani diranno che è il primo a telefonare al secondo per ringraziarlo.
Siamo nel paese dove per consegnarvi a casa la patente rinnovata secondo le norme UE (un vostro diritto, se possedete i requisiti) lo Stato vi chiede 6,97 euro e poi ve la fa recapitare da un postino che comunque a casa vostra ci sarebbe venuto comunque, per il resto della corrispondenza. Ma poi lo stesso Stato vi affitta casa sul Viale dei Fori Imperiali a Roma per la modica somma di 50 euro. Basta non uscire di casa quando c’è qualche partita di calcio.

Una sola parola, di cinque lettere: Renzi.

venerdì 20 febbraio 2015

Il Ponte dell' Arcobaleno

"Lassù nel cielo c'è un luogo chiamato Ponte Dell'Arcobaleno. Quando muore un amico peloso che è stato amato da qualcuno, questi sale su fino al Ponte dell'Arcobaleno, dove ci sono prati e colline a disposizione dei nostri amici, i quali possono correre e giocare assieme. C'è tanto cibo, tanta acqua, c'è tanta luce solare, ed i nostri amici sono al calduccio e a proprio agio. Tutti gli animali che si sono ammalati ritrovano la salute ed il vigore, quelli che sono stati feriti tornano intatti e forti, proprio come ce li ricordiamo quando li sogniamo ricordando i bei giorni passati assieme. Gli animali sono felici e contenti, salvo per una cosa: manca loro qualcuno che è stato veramente speciale per loro, dal quale hanno dovuto separarsi. Tutti loro corrono e giocano insieme, ma per ognuno di loro arriva un giorno in cui si fermano e guardano lontano all'orizzonte. I loro occhi lucenti sono all'erta, i loro corpi palpitanti. Allora si staccheranno dal gruppo, volando sull'erba verde, con le zampe che li condurranno sempre più velocemente. Vi hanno avvistato, vi hanno riconosciuto. Voi ed il vostro amico del cuore vi ritroverete, per non separarvi mai più. Una pioggia di baci vi ricoprirà il viso, la vostra mano potrà accarezzare di nuovo l'adorata testolina, e potrete guardare di nuovo negli occhi il vostro amico del cuore, che è stato fisicamente lontano da voi ma non è mai stato lontano dal vostro cuore. E allora attraverserete insieme il Ponte dell'Arcobaleno..."

(Leggenda Indiana)






Sabato scorso, mentre tornavamo a casa, il ponte dell’Arcobaleno era aperto. Partiva da lì, da quel prato grande dove sono sepolti tutti i nostri animali. O così almeno ci piace pensare, dato che è lì che se ne sono perse le tracce.Questo posto, a vederlo dall’alto mentre si arriva, sembra un paradiso. Ci sono giorni, e notti, in cui invece si popola di mostri, come il peggiore degli inferni. Mi sono immaginato tante volte gli spiriti dei nostri gatti che vagano su questo prato e su queste colline nell’universo parallelo a cui si accede per questo ponte. Là dove nessuno può fare loro più alcun male e dove noi andremo a raggiungerli un giorno, se lo Spirito più grande e potente di tutti così vorrà.
Sabato il ponte era aperto, e poggiava su quel prato. Non era ancora il nostro momento di attraversarlo, ma io ho visto loro e loro hanno visto me…….
Me lo farò bastare fino a quel giorno.






Il capobranco è un gatto soriano grande e grosso, con uno sparato davanti come una camicia bianca. Elegantissimo. Arrivò a casa una sera di settembre portato a sorpresa da un bambino che non stava più nella pelle perché finalmente aveva il suo animaletto domestico. Il nome che gli dette era inevitabile, come il Kharma.

MIO, con il bambino che lo portò a casa
MIO. Il primo gatto, ed anche il primo a incappare nella sfortuna che coglie prima o poi tutti gli animali che hanno a che fare con l’uomo. Abbiamo riempito il mondo di malattie che non solo sono micidiali per noi, ma lo sono anche per le bestiole che vivono vicino a noi. Nonostante il bene che quel bambino e la sua famiglia gli riversarono addosso, il gattino dalla camicia bianca si ammalò al primo graffio preso da colleghi vicini molto meno curati di lui.
Un graffio fatale, portava con sé il veleno mortale dell’HIV e della leucemia felina. Roba da pazzi, siamo riusciti a infettare perfino i gatti con le nostre maledizioni. Riuscimmo per sei anni a fargli avere una vita la più bella possibile, e quel bambino poté crescere insieme al suo gatto. Finché per lui non divenne una sofferenza anche solo mangiare o respirare.
Mi ricordo di non aver avuto bisogno di sveglie in quegli anni. All’ora giusta avvertivo un peso sopra di me, aprivo gli occhi e a pochi centimetri dal mio viso c’era il suo, dolcissimo, che mi diceva muto: “quando sei pronto con la ciotola, sono pronto anch’io”.
Mi ricordo anche l’ultimo viaggio. MIO non ce la faceva più, il bimbo ormai cresciuto – Giacomo – era a scuola. Portammo il gatto dal veterinario. Rimasi con lui mentre si addormentava per l’ultima volta. I suoi occhi sembravano sereni come quelli di mio padre, grati per tutta la sofferenza che quel sonno che arrivava avrebbe evitato.
PENNY
MIO è sepolto vicino alla casa dov’è vissuto. Così come sua figlia PENNY, Penelope. Arrivò dalla neve una mattina di febbraio. Sentimmo un miagolio sommesso e fuori c’era lei, ormai svezzata dalla mamma ma abbandonata a se stessa nel momento peggiore. Quando ancora non stava troppo male, MIO aveva avuto una storia d’amore con una gatta del posto, era fuggito nel bosco come nelle favole che si rispettano ed era tornato con moglie e figli.
PENNY era l’unica sopravvissuta. Una volta accertato di chi era figlia, sapemmo anche perché. I due anni di vita di quella gattina furono strappati al destino ancora più duramente dei sei del padre. La mia mamma aveva appena perso la sua gatta, le portammo Penny e almeno per due anni furono felici in due. Poi la malattia colpì fulminante. Il giovedi la micia sembrava stare ancora bene, il lunedi successivo a mia madre toccò un viaggio come quello che era toccato a me con MIO.
FRITTELLA
Penny è sepolta vicino alla casa in cui era vissuta. Anche FRITTELLA è sepolto vicino alla casa di Giacomo. L’avevamo preso per colmargli il vuoto lasciato da MIO. C’è riuscito, ma anche lui solo per due anni, povera bestiola. Era sanissimo, talmente sano da sembrare da cucciolo un diavolino della Tasmania per la sua vivacità. Viviamo in una parte di mondo in cui agli uomini e alle donne piace uccidere. Quando non possono farlo a mano armata, grazie a quella barbarie che si chiama caccia, lo fanno al volante delle loro macchine. Se vedono qualcuno che attraversa la strada, sia pure un bambino per mano alla mamma, accelerano come per essere più sicuri di travolgerli. Figuriamoci se potevano frenare per un gatto.
FLORENCE
Il micio rosso FRITTELLA se ne andò probabilmente la stessa notte che morì FLO. Florence era una gattina di poco meno di un mese, probabilmente tolta alla madre troppo presto da qualche contadino desideroso di sbarazzarsene quanto prima. Altra categoria dannosa quanto i cacciatori. FLO aveva più malanni che anticorpi. Riuscì a sopravvivere solo quindici giorni. Cominciò a star male un sabato, la domenica sera dovetti uscire un paio d’ore. Quando tornai la piccola FLO aveva lo sguardo fisso nel vuoto, forse già appuntato sul ponte dell’Arcobaleno. Dai suoi polmoni non usciva più alcun soffio vitale.
E’ sepolta qui fuori, accanto alla casa dove ha vissuto e che tra poco dovrò lasciare. Per la disperazione, ho sepolto con lei anche le chiavi della macchina. Non ho mai avuto il coraggio di riaprire quella piccola tomba. Per consolarci, prendemmo LJIUBA. La gatta dagli occhi languidi. Era stata tolta troppo presto alla mamma anche lei, era sopravvissuta ma i suoi occhi erano particolari, a causa di una cheratite che aveva reso per sempre il suo sguardo struggente, di una dolcezza infinita.
Quando la portammo a casa, non sapeva camminare. Aveva trascorso i primi due-tre mesi di vita in una gabbia. Pochi giorni dopo era diventata una cubista, faceva il quadro svedese con la nostra libreria dell’IKEA. Era come avere un cagnolino, quando tornavamo a casa lei era al cancello, di vedetta, e ci riempiva di feste. Era dolce non soltanto il suo sguardo, ma anche il suo cuore. Sembrava che volesse restituirci tutto il bene che le volevamo, lei che aveva cominciato come Cenerentola o Brutto Anatroccolo e che tenevamo come una principessa.
LJIUBA BERTA
LJIUBA sparì in una notte di luna piena di novembre. Per due settimane la cercammo per tutti i boschi del circondario, prima di arrenderci. Se l’erano presa gli stramaledetti cacciatori, oppure quel pazzo notorio che stava in fondo alla strada e che sparava ai gatti di tutto il paese perché “gli mangiavano l’insalata e gli disturbavano i conigli”. Non potendo sparare a lui, prendemmo altri gatti.
Mario Joyce è ancora vivo, così come il Nerino dei vicini. Erano amiconi fino al giorno in cui il Nerino ritornò sanguinante e pieno di pallini e la veterinaria di Pratolino dovette operarlo d’urgenza per salvargli vita e spina dorsale. Joyce, ce ne siamo accorti dopo, ha due pallini vicino alla colonna vertebrale che per fortuna non si muovono e che ormai resteranno lì. Il buon carattere di questi due mici invece se n’è andato per sempre. Come se tutta la fiducia nella razza umana e in questo mondaccio si fosse dissolta quel giorno maledetto.
Al “bianchino” JAMES non andò così bene. Lo prendemmo quindici giorni dopo la sparizione di Ljiuba, sparì a sua volta esattamente un anno dopo. Allo stesso modo. Niente tracce. Ricordo che misi un cartello alla porta del tizio. Qualcosa tipo “Prega il tuo dio di non essere stato te anche questa volta”. Mentre pensavo ad un modo legale di fargliela pagare, il Grande Spirito se lo prese, e gli aprì le porte dell’inferno, dove spero che brucerà per l’eternità. Non so dov’è la sua tomba maledetta perché andrei a ballarci sopra.
JAMES BIANCHINO
James Bianchino era un timidone che non amava essere accarezzato dall’uomo. Paurosissimo, tuttavia era a suo modo affezionato a noi ed agli altri gatti di casa. Soprattutto a Joyce (James + Joyce nelle nostre intenzioni), al Nerino e all’Amelia, arrivata pochi mesi prima della sua sparizione (e nella quale mi piace pensare che si sia reincarnata Ljiubina).
L’estate dopo, Paola credette di vederlo attraversare la strada in cima al grande prato. Ci piace pensare che ce l’abbia fatta, in qualche modo, e che si sia ricongiunto a quella natura in mezzo alla quale era fatto per vivere. A meno che anche lui sia salito sul Ponte dell’Arcobaleno, e ci stia aspettando lassù insieme agli altri.
KNUT
Era una notte d’inverno tra le più fredde quando arrivò KNUT. Malato anche lui di AIDS e tuttavia robusto quanto bastava per sopravvivere perfino a chissà quante notti alla fame ed al gelo. Scelse casa nostra, e una volta rifocillato scelse anche noi. Il gatto più buono della storia, occhi dolci anche i suoi da perdercisi dentro. Arrivato a gennaio, sparì un giorno di settembre. Il maledetto era morto da tempo, ma i cacciatori erano tornati. Mi piace pensare che Knut sia stato solo terrorizzato dagli spari e dai latrati dei cani, e abbia perso l’orientamento, riprendendo a vagare. Oppure, anche lui era insieme agli altri sul Ponte dell’Arcobaleno l’altro giorno a guardarci. Mentre noi guardavamo loro.
Loro lo sanno che non è ancora il momento. O forse ne sanno più di noi, e sanno quando questo momento arriverà. Sanno che il Grande Spirito ha stabilito che li riabbracceremo tutti e sette, insieme a questi che sono ancora con noi, sull’altro grande prato, quello in cima al Ponte. 
E quel momento sarà il premio che vale più di qualunque vita ci saremo lasciati indietro.

Lo nero periglio che vien da lo mare

Occhi che ci osservano ostili dall’altra sponda del Mediterraneo. Non c’eravamo più abituati. Da quanto tempo non succedeva?
Mai nella vita della maggior parte degli italiani viventi. Sono sempre meno purtroppo quelli che per età possono ricordare quella lunga e calda estate del 1943 in cui le coste della Sicilia, l’ultimo avamposto del territorio nazionale, si attendevano da un momento all’altro un’invasione nemica proveniente dalle coste del Nord Africa.
Le ultime truppe dell’Afrika Korps si erano arrese nel maggio, Erwin Rommel, la volpe del deserto che era arrivata ad un passo dalla conquista dell’Egitto ad El Alamein l’autunno precedente, era stato richiamato in patria da Hitler, che riteneva ormai persa la causa africana e voleva affidargli la difesa del vallo Atlantico, nel nord della Francia occupata. Un attimo dopo la resa del suo successore, il generale italiano Giovanni Messe, fu chiaro che sarebbe toccato all’Italia diventare teatro degli scontri a fuoco successivi.
L’operazione Husky, lo sbarco in Sicilia, prese il via nella notte tra il 9 ed il 10 luglio 1943, dapprima nei dintorni di Licata e poi a Gela. Anche se il primo lembo di territorio italiano a cadere nelle mani degli Alleati era stata l’isola di Pantelleria circa un mese prima, l’11 giugno. Per il nostro paese, quei giorni furono la svolta nella partecipazione alla seconda guerra mondiale. Nel giro di pochi giorni cadde un regime dittatoriale che durava da oltre vent’anni. Nel giro di due mesi fu firmato un armistizio che trasformava gli Alleati da nemici controvoglia a – appunto – alleati anche nostri, ed i tedeschi da amici fraterni per quanto improbabili in quello che erano sempre stati da prima del Risorgimento: maledetti invasori. Nel giro di una notte, quella necessaria al re d’Italia ed alla sua corte per fuggire lasciando il paese nelle mani d quegli invasori (che sospettavano e si erano preparati), la nostra guerra divenne quella che era per il resto d’Europa: una lotta di resistenza al nazifascismo in attesa della liberazione alleata.
George S. Patton
L’ultima volta, quindi, fu più una liberazione che un’invasione, e non erano quindi così ostili gli occhi che ci guardavano tra la metà di quel maggio e quella di quel luglio da Tunisi, Tripoli e gli altri luoghi dove Husky veniva allestita. Tanto è vero che - ormai un fatto assodato - ai preparativi presero parte non secondaria alcuni picciotti siciliani che avevano fatto fortuna in America: Lucky Luciano, Vito Genovese, Albert Anastasia e via dicendo. Che furono accolti a braccia aperte, insieme ai G.I. di Patton e agli Highlanders e ai Granateri di Montgomery, dai fratelli rimasti nella patria d’origine.
No, per ritrovare quella sensazione di male assoluto in agguato oltre l’orizzonte, di terrore puro pronto a scatenarsi incontrollabile alla vista di una singola imbarcazione, magari sormontata da una vela nera, bisogna andare molto più indietro. Era dalla battaglia di Lepanto, 7 ottobre 1571, che le nostre coste avevano perso l’abitudine a scrutare l’orizzonte, in cerca dello nero periglio che vien da lo mare. Gli invasori musulmani erano stati sconfitti definitivamente nel golfo di Corinto dalle marinerie di Venezia e Genova insieme a quella flotta spagnola che ancora si meritava la fama di Invencible Armada, non avendo ancora incontrato sulla sua strada Francis Drake.
Hayr-Ed-Dihn detto il Barbarossa
Da quel momento, della quasi millenaria pressione islamica sulle nostre coste era rimasta solo una più sporadica attività di pirateria, per quanto brillante quando era condotta da corsari dell’abilità di quel Barbarossa le cui spoglie mortali vengono tuttora onorate a Besiktas, il quartiere di Istanbul dove si ritirò in pensione con il rango di Ammiraglio della Marina del Sultano. Ma a parte queste scorrerie sempre più rare, quell’angoscia così bene espressa dal celebre grido d’allarme “Mamma li Turchi!” si era diradata fino a dissolversi, rimanendone memoria solo nel nostro subconscio collettivo. Dopo il XVII° secolo Islam e Cristianità sembravano avere imparato a convivere, facilitati dal fatto di essere sostanzialmente organizzati in due imperi – quello Ottomano e quello Asburgico – nessuno dei quali era in grado di soverchiare l’altro, ma tutti e due erano in grado di tenere tranquilli nei propri ranghi i rispettivi sudditi.
La Caduta dei Giganti, come l’ha definita Ken Follett con felice immagine, lasciò dopo la prima guerra mondiale e l’epopea di Lawrence d’Arabia una situazione geopolitica tra le più complesse ed instabili, in Europa, Africa ed Asia. Ma nel nostro immaginario (e nella realtà) i pericoli ormai venivano da altre parti, come si incaricò di dimostrare la seconda guerra mondiale e la successiva guerra fredda. L’Africa era tornata quasi ad essere quel bel suol d’amore di cui cantavano le marcette fasciste, o per lo meno una sponda del mediterraneo tranquilla quasi quanto la nostra. Era il Medio Oriente la sponda perennemente agitata, ma era lontana, e man mano che il pericolo sovietico e dell’olocausto nucleare si allontanavano egoisticamente ognuno di noi poteva lavarsi mani e coscienze dicendo che quello che succedeva laggiù, in quelli che una volta anche per noi erano i “Luoghi Santi” meritevoli di ogni massacro e carneficina, non era affar nostro.
Il Califfo Al Baghdadi
Fino ad adesso. Adesso nel Golfo della Sirte si affaccia l’Isis, questo soggetto sinistro capace di rinnovare nel giro di pochi mesi gesta, leggende e terrori di altri tempi e di altre cavalcate sull’onda del fanatismo islamico. Poco più di un anno fa nessuno aveva sentito parlare del Califfo Al Baghdadi e dei suoi seguaci, se non gli addetti ai lavori. In fondo le sigle che si richiamano in un modo o nell’altro alla Jihad nel mondo islamico si succedono con una rapidità una creatività ed una continuità notevoli. Fuochi di paglia o realtà che non riescono ad andare mai oltre la dimensione locale.
Questa no. Incredibilmente in poco più di un anno crea uno stato indipendente nel cuore dell’Iraq e di lì parte per una nuova cavalcata, scimitarra in pugno, alla conquista dell’Occidente. Un anno dopo impegna eserciti su un fronte che va da Mosul vicino al confine turco a Derna in Libia, sta marciando su Misurata e Tripoli, minaccia un prossimo attacco alle coste italiane, proclama orgogliosa: “Siamo sotto Roma”.
A parte la scontata e sempre rincuorante risposta del cittadino romano medio, “siete sotto Roma? Sulla Pontina? Mo’ so’ ca….. vostri, e quanno ve passa?”, lo scenario che si è delineato ha talmente dell’incredibile da meritare una riflessione approfondita, con il conforto della geopolitica, della scienza militare, ma anche di un po’ di storia.
Al Califfo Al Baghdadi, o ai suoi successori se è vero quanto sostiene l’MI6 britannico (cioè di averlo spedito a miglior vita, anche se il precedente di Osama Bin Laden, della sua vita e della sua presunta morte misteriose, autorizzano qualche perplessità) sarebbe insomma riuscito di battere il già fenomenale record del suo antico predecessore, il Califfo Omar secondo successore del Profeta Maometto.
Il dominio dell'Islam dopo le conquiste di Omar e dei suoi successori
Nel 634 Omar raccolse la successione del Profeta venuto a mancare due anni prima. Il predecessore Abu Bakr aveva dovuto impiegare i suoi due anni di regno nella sedazione della guerra civile tra le tribu scoppiata all’indomani della morte di Maometto. Omar si trovò in mano l’ordine islamico ristabilito ed un esercito formidabile che lanciò in una cavalcata leggendaria attraverso il Nord Africa. Poco più di vent’anni dopo i suoi cavalieri avevano piantato le insegne del Califfato fino in Maghreb, spazzando via tutti gli avversari egiziani, bizantini, visigoti, vandali e mauretani.
Nello stesso tempo sull’altro fronte a cui era esposta la penisola arabica, i suoi generali avevano conquistato nientemeno che l’Impero Persiano (il più antico e potente degli imperi dell’area) e tutta la cosiddetta Asia Minore (l’odierna Turchia) riducendo all’osso i possedimenti dell’Impero Romano d’Oriente. Ancora, sulle orme di Alessandro Magno ma con una velocità ed un’efficacia che ne surclassavano la gloria e avrebbero avuto conseguenze di ben altra durata, si erano spinti fino a ridosso della valle dell’Indo conquistando l’attuale Pakistan. Nel mezzo di tutto ciò, Iraq e Palestina erano diventate parti del Califfato, e Gerusalemme era stata consacrata come terza città santa dell’Islam, secondo il sogno e la predicazione di Maometto.
La vittoria di Carlo Martello a Poitiers,
prima sconfitta di un esercito islamico dopo Maometto
Questa era stata la Jihad storica, termine che secondo l’accezione del Corano, il libro lasciato da Maometto a futuro insegnamento per i fedeli, significa massimo sforzo nella direzione desiderata da Dio. Il termine guerra santa è subentrato in seguito, quando le posizioni si erano cristallizzate e due mondi ormai inconciliabili avevano iniziato la loro guerra millenaria. La cavalcata iniziata da Omar si era arrestata soltanto un secolo dopo a Poitiers sui Pirenei per mano del Re franco Carlo Martello, il nonno di Carlo Magno, il primo a salvare l’Europa dalla Mezzaluna. Del continente europeo, sarebbero rimaste in mani arabe la Sicilia, fino alla conquista normanna dopo l’anno Mille, e la Spagna, fino alla reconquista di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona conclusasi il 3 gennaio 1492.
Un record difficile da battere, quanto lo era stato da stabilire. E’ indubbio che la cavalcata di Omar e dei suoi successori, con la creazione dell’Impero prima Arabo e poi Turco, trovò le condizioni più favorevoli possibili nel vuoto di potere soprattutto militare che si era venuto a creare nel VII secolo dopo Cristo. La caduta dell’Impero Romano d’Occidente aveva lasciato l’Europa in mano ai cosiddetti regni Romano-Barbarici, che soltanto a partire da Carlo Magno riuscirono a riorganizzare una entità politica e militare capace di resistere prima alle invasioni e poi di condurne a sua volta, con le Crociate. Quando Nel 710 Tariq dette il suo nome a Gibilterra conquistandola e aprendo le porte all’invasione moresca della Spagna, Visigoti e Vandali ormai erano un boccone fin troppo facile da inghiottire.
Maometto riceve gli insegnamenti dall'Arcangelo Gabriele
L’Impero Romano d’Oriente si era dissanguato nell’eterna guerra con quello Persiano, e per poco non sparirono tutti e due sotto la Mezzaluna. Costantinopoli e la Grecia si guadagnarono altri ottocento anni di difficile sopravvivenza, sostenuti dalle Repubbliche Marinare anche quando la rinnovata vigoria dei Turchi si stava mangiando la Penisola Balcanica. In Medio Oriente, Palestina e dintorni accolsero gli Arabi come liberatori che mettevano fine all’odiatissima dominazione romana, e si può capire. L’Africa, fino alle regioni subsahariane, una volta presa Cartagine e i vecchi avamposti romani era una porta aperta.
In sintesi, Omar fu un grande conquistatore che, al pari di Alessandro Magno, approfittò di un momento in cui grandi avversari in circolazione non ce n’erano.  L’Islam fu poi due volte fortunato perché quando il bonus di questa prima conquista araba si stava esaurendo, arrivarono i Turchi, fanatici come tutti i neoconvertiti e prodi guerrieri, a ridarle vigore e a riportare il terrore in Europa per secoli.
Ora arriva questo sedicente Califfo (o chi per lui) e in un’epoca in cui l’Occidente ha un vantaggio tecnologico sul mondo arabo-islamico spaventoso riesce nel giro di un annetto a fare qualcosa che perfino il leggendario Omar avrebbe potuto soltanto sognare. No, signore e signori, c’è qualcosa che non va. C’è un limite alla verosimiglianza di tutte le storie che ci possono raccontare. Questa l’ha già passato.
Muhammar El Gheddafi, dittatore di Libia dal 1969 al 2011
Il mondo occidentale si sta dibattendo alle prese con problemi che in gran parte si è creato da solo, ma che se lasciati ancora a marcire potrebbero teoricamente travolgere le élites che in questo momento ne determinano i destini. L’Europa dapprima ha patrocinato l’improbabile Primavera Araba spodestando (per gli interessi dell’ancor più improbabile dei presidenti francesi e di pochi altri) quelli che tecnicamente erano dittatori ma che in pratica avevano assicurato alle loro popolazioni per decenni condizioni di vita neanche paragonabili a quelle di adesso, senza fanatismi, sgozzamenti e barbe di Imam. E a noi avevano assicurato una convivenza tutto sommato pacifica e prosperosa. Passato il periodo del Gheddafi jihadista, avevamo negli ultimi decenni beneficiato di un partner economico come pochi altri. Per non parlare di Egitto e Tunisia. Abbiamo così tante volte accusato gli Stati Uniti di sprovvedutezza in politica estera che adesso non è difficile immaginare che faccia stiano facendo gli amici americani godendosi i guai in cui ci siamo andati a cacciare noi, dall’alto dei nostri millenni d’esperienza e di savoir faire.
Merkel, Poroshenko e Putin
Non basta. Ci siamo giocati l’unico possibile alleato forte e sicuramente interessato a combattere lo stesso nemico, il fondamentalismo islamico. Vladimir Putin è probabilmente a questo punto talmente disgustato dalle intromissioni europee in una vicenda troppo presto rubricata – secondo i nostri standards – come un’aggressione russa all’Ucraina, da ritenerci fortunati se ci rimanda indietro vive e vegete le varie Merkel e Mogherini che gli mandiamo a parlamentare.
E per soprammercato, stiamo studiando anche come far finire ingloriosamente l’Eurozona mandando a chi – come il neoeletto governo ellenico di Alexis Tsipras – chiede di non morire più di fame degli ultimatum che avrebbero fatto la felicità di Adolf Hitler, Hermann Goering e Joseph Goebbels ai tempi del Patto di Monaco.
Come si esce da questo incartamento colossale? Vogliamo sbagliarci, ma risvegliare un antico terrore ancestrale così ben sedimentato nella nostra storia collettiva come quello della Mezzaluna ci sembra una soluzione fin troppo facile. Basta vedere cosa viene conservato sul retro dell’altare della Cattedrale di Otranto, quella teca enorme dove riposano i teschi degli ottocento abitanti decapitati dal corsaro Gedik Ahmet Pascià nel 1480, per capire a cosa ci riferiamo. E guarda caso, qual è il marchio, il brand di questo Isis, che ogni sera viene proposto alle famiglie italiane e europee all’ora di cena al telegiornale? La decapitazione in stile Otranto dell’infedele. Cioè di uno di noi, uno de “nostri”.
I teschi di Otranto
Con l’Isis non si tratta, non fa prigionieri, accumula teschi e basta (anche se poi dietro lauto compenso le nostre Greta e Vanessa ce le rende, siamo o non siamo il bancomat della Jihad?). E’ un nemico talmente perfetto da sembrare studiato a tavolino, per spazzar via dall’attenzione dell’opinione pubblica qualsiasi altra questione. Per chiamare alle armi contro il nemico alle porte. Una volta di più, lo nero periglio che vien da lo mare. Come ai tempi di Brancaleone. O di quel Papa Urbano II che a Clermont Ferrand nel 1095 bandì la Prima Crociata, spaventato dalla preponderanza dei Turchi che avevano chiuso i Luoghi Santi ai Cristiani, dopo secoli di tolleranza araba (dietro compenso, anche quello era un bancomat).
Nemmeno Urbano II avrebbe potuto chiedere qualcosa di meglio di questo Isis. Se non ci fosse stato, qualcuno avrebbe dovuto inventarlo. Che l’abbiano fatto davvero?