mercoledì 31 dicembre 2014

Auguri a Diego Della Valle ed alla Fiorentina

30 dicembre 2012



Con gli auguri di buon compleanno a Diego Della Valle, non più padre patron lontano e inarrivabile, ma di nuovo oggetto del desiderio di una tifoseria viola tornata a sognare in grande all’ombra del babbo ricco, si chiude un anno tra i più incredibili tra quelli vissuti – e fatti vivere a chi la segue e la ama – dalla Fiorentina.
Un anno che emblematicamente si era aperto con il Lecce (già con un piede in B) venuto a maramaldeggiare a Firenze su una squadra ormai prossima a diventare sua avversaria diretta nella corsa alla retrocessione, una squadra che si preparava alla cerimonia degli schiaffi in mondovisione, per non parlare degli schiaffi presi in casa dalla Juventus e di tante altre prestazioni sconcertanti scivolate via in quello che appariva ormai il disinteresse più assoluto da parte di una proprietà oscillante tra l’assente e l’assenteista, e che si sarebbe salvata solo all’ultimo grazie ai gol di un giocatore separato in casa da due anni che non vedeva l’ora di andare via e di un altro che essendo completamente instabile aveva finito per trovare in una squadra più instabile di lui la sua dimensione ideale.
Un anno che incredibilmente si chiude con le stesse maglie viola indosso ad una squadra completamente diversa, alla quale è difficile dare proprio una dimensione, perché qualunque aggettivo (positivo) in questo momento appare assai limitativo. Gli unici schiaffi che volano adesso sono quelli che prendono gli altri, sportivamente parlando, quando affrontano una Fiorentina di stampo sempre più spagnolo a guardia abbassata e senza turbative – diciamo così – arbitrali.
Nel mezzo a questi due estremi che vanno dal rigore di Di Michele per il Lecce a gennaio a quello a cucchiaio di Jovetic a Palermo a dicembre per la Fiorentina, c’è una rivoluzione tra le più clamorose messe in atto da una società di calcio nella storia recente. Forse l’unico precedente in questo senso l’ha offerto proprio la Fiorentina, quando nel 2002 rinacque dal fallimento proprio grazie all’uomo che oggi festeggia 59 anni, quel Diego Della Valle che in 20 giorni reinventò prima una società e poi una squadra. Stavolta bastava la squadra, anche se c’era molto da rifondare anche in società.
Cos’è successo esattamente tra i fratelli Della Valle tra la fine di luglio e l’inizio di agosto lo scriveranno gli storici, un giorno. A giudicare dai fatti, qualcosa accaduto a Firenze nell’area Mercafir ha rimesso in moto negli imprenditori di Casette d’Ete entusiasmi e determinazioni che sembravano ormai morte, spingendoli a reinfondere vita e valore in quello dei loro investimenti che non sarà forse il più redditizio, ma di sicuro è quello che ha dato loro più visibilità e notorietà: la Fiorentina. In particolare Andrea Della Valle è apparso in via di definitiva maturazione come terminale decisionale della famiglia per le cose del calcio, indovinando quasi tutte le scelte operative e gli interventi personali fatti dalla fine dell’estate ad oggi. Una specie di Matteo Renzi della Fiorentina, non a caso sono stati spesso seduti l’uno accanto all’altro ad esaltarsi e ad esaltare in occasione delle uscite vittoriose della squadra viola.
Gli ultimi quattro mesi, oggettivamente, ripagano i tifosi fiorentini di tante amarezze vissute a partire dal giorno in cui fu chiaro che il ciclo di Cesare Prandelli era finito, nel marzo del 2010. Sembrava che fossimo giunti al termine dello stesso ciclo dei Della Valle, ormai solo in attesa di vendere di fronte ad un’offerta conveniente. Ai primi di agosto, quando i ritiri delle squadre di serie A cominciano di solito ad entrare nel vivo, qui non c’era neanche una squadra. C’era però un direttore sportivo, Daniele Prade’, che aveva già fatto cose egregie nella A.S. Roma crepuscolare degli ultimi Sensi, e che coadiuvato dal talent scout iberico Macia, non appena ha avuto via libera, ha cominciato a fare miracoli. Che sono andati al di là delle più rosee previsioni, perché 18 giocatori completamente nuovi si sono assemblati d’incanto in pochi giorni, finendo per far parlare di sé come di un piccolo Barcellona italiano. Anche grazie al fatto che nel frattempo la Fiorentina aveva indovinato alla grande anche l’allenatore, quel Vincenzo Montella che ora vengono a studiare da ogni parte del mondo.
Tempo di auguri, dunque, e di brindisi. E di sogni. E’ il caso di godersi appieno ogni sorso dello champagne che stiamo sorseggiando, durante queste splendide feste viola che attenuano persino – da queste parti – gli effetti di una delle più brutte crisi economiche della storia.
Gennaio, quando arriverà, sarà un mese di fuoco con la Coppa Italia, il campionato ed un equilibrio quasi perfetto da ritrovare subito e da mantenere. Quando si fa un miracolo, la cosa più difficile quasi quasi è gestirlo, più che farlo. Da mesi si dice che a gennaio bisogna intervenire sul mercato di riparazione, come effetto a lungo termine non solo della vicenda Berbatov, ma anche dei risultati della squadra che hanno fatto venire francamente l’acquolina in bocca.
Il guaio è proprio questo, intervenire su un giocattolo che funziona quasi alla perfezione può far rischiare di romperlo quasi quanto non farlo. E’ difficile trovare l’affare vero a gennaio, e nessuno dei nomi che si sentono fare finora lo è, francamente. In più si rischia di portare qualcuno nello spogliatoio che non abbia una reale utilità e che al contrario ne possa turbare umori ed equilibri. Se era difficile il compito di Pradè e Macia ad agosto, non vorremmo essere nei loro panni adesso. Né in quelli dei Della Valle, di nuovo al bivio fra grandezza e ridimensionamento.
E’ una fase di grande incertezza, i sogni sono ancora intatti, e sono grandi sogni. Gli sviluppi futuri non li conosce nessuno, la palla è quanto mai rotonda e l’anno prossimo in Italia ci sono in ballo tante di quelle cose che i Maya stessi ringraziano per essere stati costretti a terminare i loro calendari e le loro previsioni all’anno precedente. Perfino Jovetic nelle sue dichiarazioni più recenti non appare più così sicuro di trovare altrove una dimensione migliore di quella della Fiorentina. C’è la possibilità di fare come qualcun altro che pensava di dare una svolta alla propria carriera andando al Milan, e invece per ora guarda la squadra viola da assai indietro.
Molto è nelle mani del destino. Molto in quelle dell’uomo che compie oggi 59 anni. Auguri Diego della Valle. E auguri a tutti i tifosi della Fiorentina. Che il 2013 ci porti soltanto conferme. Buon anno a tutti!

martedì 30 dicembre 2014

Della Valle tra compleanno e progetti



Diego Della Valle compie oggi 61 anni. Nel rinnovargli gli auguri come ormai da 12 anni a questa parte – da quando cioè ha aggiunto l’A.C.F. Fiorentina all’elenco delle sue controllate o partecipate – mai come questa volta è il caso di chiedersi se abbia deciso che cosa fare da grande. L’imprenditore marchigiano è ormai da tempo uno dei più importanti e prestigiosi che questo paese può vantare ed è forse quello più conosciuto all’estero insieme ai suoi competitors Berlusconi e Marchionne. Le sue aziende sono leader nei rispettivi settori. Tutte meno una, la Fiorentina giustappunto, che non riesce ancora (la proprietà Della Valle è la seconda più longeva della storia viola, dopo quella del fondatore marchese Ridolfi) a salire i gradini del podio nella sua specialità.
Il miglior risultato di questa gestione continua ad essere quel quarto posto in campionato raggiunto due volte con Prandelli e due con Montella. Gli unici trofei alzati da lui e dal fratello Andrea si riducono ad alcune Coppe estive, disputate più che altro per beneficiare di lucrosi ingaggi a discapito di una preparazione che puntualmente viene rimpianta più avanti, a stagione regolare iniziata.
Da quando i fratelli di Casette d’Ete hanno riportato la Fiorentina in serie A, dieci anni or sono dopo l’epico e drammatico spareggio con il Perugia al termine del quale sembrarono dare un senso del tutto nuovo e passionale al loro essere proprietari gettandosi vestiti di tutto punto nella piscina del Franchi, non c’è quasi stato anno in cui la loro creatura non sia sembrata all’inizio in procinto di un salto di qualità, di una svolta decisiva per un progetto finalmente vincente. Salvo poi ritrovarsi puntualmente durante la stagione successiva a fare i conti con una delusione più o meno cocente. Sogni e progetti coltivati durante il mercato estivo non sono mai sopravvissuti a quello invernale. E i titoli, per dirla con Mourinho secondo il suo celebre aforisma, sono rimasti fermi a zero.
E allora, che cos’è che impedisce alla Fiorentina di diventare nel rispettivo settore un’azienda di vertice come è successo alla Tod’s? Cos’è che frena nel calcio l’altrimenti ambizioso e capace imprenditore marchigiano che pare stia addirittura meditando in politica una discesa in campo sul modello berlusconiano (per ovviare, come ha affermato lui stesso, alla delusione offerta dal “sindaco ragazzino”, quel Renzi a braccetto del quale andava una volta a seguire la propria squadra del cuore – e del portafoglio -  e con il quale ormai la sintonia sembra decisamente un ricordo del passato)?
Al pari degli auguri di compleanno, e più o meno regolarmente nello stesso periodo, la spiegazione ricorrente alle delusioni viola è sempre la solita. Vuole la leggenda che nei giorni bui di Calciopoli Diego Della Valle si sia convinto che il sistema calcio non possa essere affrontato e “sconfitto” come lui aveva sognato e intrapreso, e che in un paese a forte crisi economica come è l’Italia adesso investire nel pallone come un tempo sia ormai equivalente a follia pura.
I Della Valle, è noto, non nascono tifosi viola. Il giglio di Firenze è più un brand commerciale che un simbolo di qualcosa di affettivamente importante. La Fiorentina è stata ed è più un veicolo pubblicitario che un amore o un passatempo (per quanto remunerativo) come lo era la Juventus per Agnelli, l’Inter per Moratti o il Milan per Berlusconi. Che gli attuali proprietari del giglio viola vogliano gestirlo come un’azienda più che come una società sportiva del resto non c’è niente di strano, o di male. E’ il futuro del calcio, se il calcio ha un futuro, e soprattutto se ha un futuro l’economia di questo paese.
Più o meno dai tempi in cui finì il primo progetto di grandeur viola, quello di Prandelli, insieme al sogno di costruire in tempi brevi una cittadella sportiva a Castello, è chiaro inoltre che il modello di gestione societaria dei Della Valle non fa più riferimento al bianconero della Juventus ma piuttosto a quello dell’Udinese. Gli uomini mercato non cercano di montare pezzo dopo pezzo la squadra che diventerà prima o poi lo “squadrone”, ma di cogliere piuttosto occasioni di mercato e di valorizzare giovani e/o rivalorizzare vecchie glorie che poi si traducano in plusvalenze di bilancio.
Tutto chiaro, tutto comprensibile. E’ il signor Diego insieme al fratello Andrea che ci mette i soldi, ci mancherebbe altro. Peccato che quei sogni di gloria restino sospesi nell’aria di Firenze, alimentati a scadenza regolare proprio da loro, il freddo industriale venuto dalle Marche ed il fratello che si è scoperto passionale una domenica di qualche campionato fa, seduto accanto al sindaco ragazzino, tutti e due ridotti a fine partita come nemmeno i più scatenati Ultras dei tempi eroici.
I sogni sono sempre un’arma a doppio taglio. L’animo del tifoso è schizofrenico per definizione, combattuto tra la voglia di esultare e la paura di soffrire. Sono molti ormai in riva all’Arno quelli che preferiscono neanche più immaginare di vivere giorni come quelli del 2002, quando la “settima sorella” di Cecchi Gori finì nel baratro della retrocessione e del fallimento e da Wembley la torcida viola si ritrovò a seguire la squadra a Gualdo Tadino. Mai più, dissero molti, a costo di “vivacchiare” in una esistenza senza sussulti, quarti posti come Champion’s League, perfino la Coppa Italia (un trofeo che Fiorentine sicuramente più povere di quella attuale erano riuscite ad alzare con gioia e orgoglio in faccia agli squadroni del Nord) un miraggio inarrivabile.
Dopo dodici anni e mezzo, a Diego e Andrea Della Valle vengono quindi ancora perdonate tante cose che ai predecessori invece non erano state minimamente graziate. E’ pur vero d’altra parte che ad ogni annata che si avvita su se stessa riprende quota il partito di coloro che “rosicano” (come disse una volta il buon Diego quando ancora non lesinava la sua presenza in città e in società) non perché hanno “risicato”, come dice il proverbio, ma perché appunto rosicano e basta, stanchi di vedere vincere gli altri.
Vecchi discorsi, che puntualmente tornano di attualità. A rileggere quello che scrivevamo l’anno scorso in occasione del precedente genetliaco del patron, viene un po’ di malinconia. A incrociare questa malinconia con l’attualità, viene qualcosa di più, che si chiama sottile inquietudine. Mentre Diego Della Valle spegne le sue sessantuno candeline, i suoi uomini si preparano ad una campagna acquisti (o per meglio dire cessioni) che ha precedenti solo in quella di due anni fa, quando in pochi giorni arrivarono a Firenze qualcosa come 18 giocatori nuovi di zecca. Più o meno lo stesso numero che se ne dovrebbe andare adesso, almeno a star dietro alle voci di mercato.
A leggere i nomi, c’è da chiedersi se un altro progetto dellavalliano non sia sul punto di concludersi, anzitempo e malamente. Pilastri della squadra attuale, come Neto e Aquilani, sono in predicato di arrivare alla scadenza contrattuale senza che la società abbia fatto seri tentativi per trattenerli. Altri, come Cuadrado, si stanno ritrovando ai margini di un disegno tecnico-tattico, quello di Montella, che peraltro aggiunge difficoltà alle difficoltà.
Il tecnico campano, a sua volta sempre più fuori sintonia con le scelte societarie tanto da far pensare che questa possa essere la sua ultima stagione in viola, sa giocare e far giocare i suoi in un modo solo, quello reso produttivo e piacevole a vedersi soltanto dalle brevi stagioni di Stevan Jovetic e Giuseppe Rossi. La classe cristallina e l’altrettanto prepotente indisciplina tattica di Cuadrado non rientrano nei suoi piani, non fanno vibrare le corde del suo gioco prediletto. Il colombiano rischia di trovarsi ai margini, intristito o peggio infastidito, in procinto di deprezzarsi tecnicamente prima ancora che economicamente, qualsiasi cosa voglia fare di lui la Fiorentina a fine stagione.
Nel frattempo, Rossi è ancora lontano dal rientro, Gomez sta facendo di tutto per tornare fuori (anche lui per niente aiutato nel ritorno ai suoi livelli da schemi tattici che non lo prevedono e non lo supportano), i due ragazzi che sembravano in grado di non farli rimpiangere, Baba e Berna, si sono rivelati per ora troppo fragili, quanto e più dei titolari.
Poi c’è il gran numero dei giocatori in soprannumero, o comprati per fare numero. Il bisticcio di parole vuole indicare quella ampia parte della rosa destinata a costituire – se non ora a gennaio al prossimo giugno – l’ennesimo “pulmino” da trasbordare altrove. Dagli sloveni Ilicic e Kurtic al prode Yakovenko fino al vecchio glorioso capitano Pasqual (lui si che si meriterebbe un po’ di gratitudine da parte di una società e di addetti ai lavori che fanno in altre circostanze largo uso se non addirittura abuso di questa parola), sono molti gli esuberi e poche le idee per trarne qualcosa di veramente buono. Il tutto condito da un Pizarro forse arrivato alla fine naturale della carriera e da una difesa dalle buone individualità ma che non è mai riuscita a diventare un vero e proprio reparto. E da un Daniele Prade’ che dovrebbe provvedere a tutto questo e che invece viene dato ormai sempre più esplicitamente in partenza a sua volta.
Più che una squadra, sembra un cantiere della “tramvia”, chi abita a Firenze può cogliere la similitudine. Da un terzo posto che tutto sommato disterebbe soltanto pochi punti a un decimo nel quale la società si è ritrovata a concludere l’annata in circostanze forse non troppo dissimili in passato il passo è breve.
Di doman non v’è certezza, insomma, come diceva un altro patròn dei tempi andati, che era arrivato nel suo campo ad essere il numero uno indiscusso. E’ per questo motivo che gli auguri al patròn attuale quest’anno sono più mesti del solito. Ce l’avessero detto un anno fa, tra l’altro, non ci avremmo creduto.
Auguri comunque Diego Della Valle. E soprattutto auguri Fiorentina.

Auguri a Diego Della Valle... e Lodi alla Fiorentina?

30 dicembre 2013



Gli uomini passano, la Fiorentina resta. Quante volte l'abbiamo sentito dire, in concomitanza di qualche addio, o di qualche cambiamento più o meno epocale e magari in un primo momento faticoso o doloroso? E' una frase sempre di attualità, a Firenze, e più passa il tempo più si arricchisce di significati. In questi sgoccioli di 2013 ce ne sono alcuni che saltano agli occhi in modo particolare.
Diego Della Valle compie oggi 60 anni. Una bella cifra tonda, di quelle che invitano ai festeggiamenti ma anche ai bilanci. Di questi anni, gli ultimi 13 l'imprenditore marchigiano più famoso nel mondo li ha passati sul ponte di comando della ACF Fiorentina. E' stato l'uomo della rinascita, dopo che tutto sembrava finito; del progetto, per tornare a vincere e magari per farlo in modo diverso dagli altri; del male non fare paura non avere, quando il sistema gli si rivoltò contro nella maniera più brutale; del "vivacchiare" quando sembrava che non avesse più voglia di andare contro il "sistema", almeno non per la Fiorentina; della nuova rinascita e del nuovo progetto, quando la Fiorentina nel breve volger di una estate diventò la ventunesima squadra della Liga spagnola.
E' stato tante cose Diego Della Valle. Da quando sembra aver deciso che vale la pena tentare di essere il numero uno anche nel calcio, è tornato ad essere l'imprenditore più amato dai fiorentini. Le pagine dei giornali sono tornate a riempirsi delle sue parole, dei suoi progetti, delle sue promesse. La maggior parte dei quali ancora da realizzare, o da mantenere. Ma intanto è bello vedere la sua squadra che a tratti gioca come a Firenze si è visto raramente e che si è piazzata stabilmente al limitare della zona che conta, quella che permette di giocare la sospirata Champion's League. L'erede della Coppa con le Orecchie, di cui la Fiorentina si onorerà per sempre di essere stata la prima squadra italiana a disputare (e perdere immeritatamente) una finale.
Sembra che tra le certezze esistenziali acquisite con l'età, per la quale ci associamo agli auguri, il patron viola abbia acquisito quella che giocare con fair play è bello, ma vincere lo è ancora di più. E che voglia fare di conseguenza tutti gli sforzi necessari al riguardo. Al pari del fratello, che possiamo – per così dire – monitorare ogni domenica, mentre lui preferisce ormai un profilo più defilato. Caratterialmente diversi, i fratelli Della Valle si sono allineati nella determinazione a rimanere nella storia della Fiorentina per qualcosa che deporranno nella sua bacheca, e poco importa chi dei due ha convinto l'altro. Hanno in mano un giocattolo che si trova in quella fase in cui con la stessa probabilità si può sviluppare o rompere. La volta scorsa lo ruppero, stavolta paiono intenzionati a migliorarlo, forti anche dell'esperienza acquisita.
Montella insomma non farà la fine di Prandelli, né Pradè e Macia quella di Corvino. I gossip sportivi sono pieni del tourbillon consueto che si scatena ad ogni sessione di mercato, e domani l'altro ne comincia appunto una. Nella quale la Fiorentina è chiamata a fare, se possibile, un altro salto di qualità in vista dell'obbiettivo stagionale, la qualificazione alla Champion's che allo stato attuale non è affatto garantita. La Juventus sembra anche quest'anno il solito tritacarne inarrivabile, malgrado abbia patito l'unica sconfitta proprio al Franchi. La Roma ha sorpreso tutti con un progetto partito in tono minore rispetto a quello viola ma che finora ha raccolto molto di più, e non è detto che come in passato cali alla distanza. Il Napoli è partito con un attacco stellare e con il vento in poppa, e non è detto che quel vento cali. L'Inter è stata resuscitata da Mazzarri quanto basta da essere lì, con il fiato sul collo dei viola. Gli scontri diretti sono andati malino, miracolo contro la Juve a parte. Se non si vuole rigiocare l'Europa League l'anno prossimo, conviene che gli uomini di mercato viola stiano alla finestra, forti di quel mandato ricevuto dai Della Valle Bros.: se capita un'occasione come quella di Pepito, prendetela.
Un anno fa si facevano più o meno gli stessi discorsi, ed arrivò un fuoriclasse come ce ne sono pochi, il secondo di nome Rossi nella storia del calcio italiano. Quest'anno il discorso si fa più complesso. E qui torna in gioco la frase storica. Questa Fiorentina è una squadra che fa stropicciare gli occhi agli osservatori italiani e stranieri, eppure perde continuamente pezzi a causa di giocatori che vogliono andarsene. Qualcosa non torna.
L'anno scorso allorché il progetto di gioco di Montella decollò scoppiò la crisi di Jovetic, che fece di tutto per costringere la società a cederlo. A fine stagione scoppiò la crisi di Pizarro, parzialmente rientrata in estate e poi riesplosa nell'ultimo mese. Sempre nell'estate scorsa sono maturati i dolori del giovane Llajic, andato poi a rinforzare una diretta concorrente, la Roma che ci sta davanti di diversi punti. Nel frattempo abbiamo salutato Alonso, promettente e utile difensore spagnolo che non aveva sfigurato in Coppa, mentre stiamo per dire ciao a Roncaglia, Wolski e Bakic, per non parlare di Yakovenko e Olivera. In pratica, buona parte della campagna acquisti 2013, da utili rincalzi e giovani promesse a pulmino di corviniana memoria da sfoltire quanto prima. Cosa resterà, oltre alle plusvalenze?
Conta solo la maglia. I nomi che si fanno sarebbero più che degni di vestirla. Da Criscito a D'Ambrosio, da Leandro Paredes a Musacchio. Nomi altisonanti, c'è mezza Europa dietro, e tutte le concorrenti italiane. Può darsi che sia il solito gioco di società che si verifica ad ogni mercato, sparala più grossa e vendi più copie. Ma in fondo anche un anno fa si dicevano le stesse cose, e poche ore prima di prendere Giuseppe Rossi Daniele Prade' assicurò alla stampa che non rientrava tra gli obbiettivi della società. Per un imprenditore al top, come direbbero Crozza e anche Briatore, è venuto il momento di vincere qualcosa e questi sono i nomi giusti per vincere. Di Lodi, con tutto il rispetto, è pieno il calcio italiano.
Nel frattempo, c'è comunque da lavorare anche sotto altri profili. Gli uomini passano, la Fiorentina resta, ma quando qualcuno si fa male è sempre la solita storia. Nelle passate stagioni ci fu il tormentone Jovetic, vittima di un grave infortunio, poi forse rientrato in anticipo e fino alla fine dei suoi giorni viola altalenante nelle apparizioni e prestazioni, tanto da meritarsi il soprannome del Bua. Un anno dopo, assistiamo più o meno allo stesso film con protagonista uno che non avresti mai detto: Mario Gomez, un tedesco, un duro, uno che la bua non la sente, la gamba non la tira indietro.
Non si tratta di tirare in ballo vecchie e nuove gestioni del settore medico, ma piuttosto quella complessiva della società. Gomez doveva rientrare due mesi fa, ancora non è sicuro che torni in Coppa Italia l'8 gennaio prossimo. Qualcuno ha sbagliato – di nuovo – e pazienza, succede. Ma così si vanificano gli investimenti importanti. Pensate a una Juventus senza Tevez o a un Napoli senza Higuain (il buon Gonzalo per la verità ci aveva anche provato, spaccandosi la testa su uno scoglio a Mergellina...). Tra la medicina fiorentina e quella tedesca ci dev'essere un punto d'incontro e sarà bene trovarlo presto. Come sarà bene trovare presto un addetto stampa che dica le cose come stanno agli addetti ai lavori. Si evita se non altro di creare illusioni tra i tifosi che poi se le cose non vanno bene si ritorcono contro come un boomerang. Dalla gestione Berti a quella Teotino c'era già stato un decadimento, con l'arrivo di Elena Turra non pare che le cose siano migliorate granché.
Insomma, ce n'è di carne al fuoco per realizzare le ambizioni dei proprietari della Fiorentina e dei suoi stessi tifosi. Auguri a Diego Della Valle e a tutte le sue imprese. Soprattutto a quella che ci sta più a cuore. Gli uomini passano, la Fiorentina resta.
Buon 2014 a tutti.

Auf wiedersen, Michael Schumacher. Sei stato il più grande.



 4 ottobre 2012

Mentre a Suzuka Michael Schumacher sta tenendo la conferenza stampa con cui annuncia il suo ritiro definitivo dalle corse alla fine di questa stagione, sono tante le immagini che tornano alla mente. Per chi ha il cuore rosso Ferrari, Schumi è e resterà sempre il più grande, in una galleria di grandissimi.
L’uomo della rinascita, voluto a Maranello personalmente dall’Avvocato Agnelli per riportare alla vittoria nel campionato del mondo di Formula 1 la scuderia del Cavallino dopo vent’anni di amarezze, si presentò ai cancelli di Maranello una mattina dell’inverno 1995. Aveva appena vinto il secondo mondiale consecutivo con la Benetton, allora gestita da Flavio Briatore, un altro che come l’Avvocato di piloti se ne intendeva, e che all’Avvocato non aveva saputo, o voluto dire di no.
Il ragazzo nato e cresciuto a Kerpen, vicino alla frontiera tedesca con il Belgio, dove il padre gestiva un autodromo di kart e dove aveva imparato ad andare più veloce di tutti, aveva vinto nel 1994 di un’incollatura su Damon Hill della Williams, con il quale nell’ultima corsa - sempre a Suzuka - aveva fatto a sportellate mantenendo il vantaggio grazie all’incidente che li mise fuori gara tutti e due (nella migliore tradizione dai tempi di Prost e Senna).
Era l’anno in cui l’automobilismo aveva perso il suo mito, Ayrton Senna, morto a Imola il 1° maggio, ed era disperatamente in cerca di un erede. Lo trovò in questo tedesco di poche parole, che alla prima occasione fece centro, e si ripeté l’anno dopo questa volta con ampio distacco.
Una volta alla Ferrari, Michael si trovò a dover risollevare sia dal punto di vista morale che tecnico una scuderia piegata da anni di batoste. Insieme a lui, altri due fuoriclasse nel loro genere, Jean Todt e Ross Brown, a poco a poco misero a punto una macchina in grado di assecondare un pilota veloce e freddo (quasi sempre) come non se ne vedevano dai tempi di Niki Lauda, anche lui a suo tempo uomo del destino della rossa. La vittoria a Barcellona sul bagnato e poi a Monza, dove i ferraristi soccombevano da anni, portarono subito il campione tedesco nel cuore dei tifosi.
Mancava solo la vittoria mondiale, e dovette aspettare altri quattro anni. Nel 1997, il destino risarcì la famiglia Villeneuve dando a Jacques quello che non era stato concesso a Gilles, vincere e anche sopravvivere per raccontarlo, e in qualche modo i tifosi della Ferrari se ne fecero una ragione. Per quanto avevano voluto bene al padre accettarono la vittoria del figlio, forse ancora di più per una intemperanza di Schumi che all’ultima gara, nel sorpasso decisivo, dimostrò di non essere sempre così freddo come voleva la leggenda.
Negli anni successivi, l’errore di Spa con il tamponamento sul bagnato di un Coulthard già doppiato e l’incidente di Silverstone dove la Ferrari ruppe i freni e Michael ci rimise per fortuna solo una gamba, dettero la vittoria alla McLaren di Hakkinen, che si presentava come un avversario temibile anche nell’anno 2000. Ma a quel punto la macchina rossa ed il campione tedesco erano diventati un tutt’uno. Michael non sbagliò nulla, la Ferrari nemmeno, il mondiale fu vinto a Monza, in casa, con due giornate di anticipo. Ce lo ricordiamo tutti il tedesco (quasi sempre) di ghiaccio con indosso la parrucca rossa a fare baldoria per festeggiare una vittoria attesa vent’anni da tutta l’Italia dei motori.
Per quattro anni, dal 2001 al 2004, fu solo questione poi di capire con quanto anticipo Schumacher avrebbe rivinto il mondiale. Il suo record, sette titoli di cui i 5 con la rossa consecutivi, sarà difficilmente battibile, se non ci riuscirà il suo erede Fernando Alonso, l’uomo che – grazie al solito Briatore, stavolta in Renault – lo spodestò nel 2005 e poi anche nel 2006, grazie anche a un motore Ferrari traditore nella penultima corsa, sempre nella fatale Suzuka. Sazio di vittorie e forse consapevole di avere incontrato un altro se stesso, in quel ragazzo nato molto più a sud, nelle Asturie spagnole, che gli aveva tenuto testa vittoriosamente, Michael fece un figurone, andando a ringraziare comunque i suoi meccanici tutti dal primo all’ultimo e annunciando il suo ritiro alla fine di quella stagione.
Rimase come uomo immagine e consigliere della Ferrari negli anni successivi, il primo vittorioso di Raikkonen e gli altri in cui Felipe Massa cercò la vittoria prima e la guarigione poi da un brutto incidente. Nel 2009, interpellato sulla sua disponibilità a sostituire il brasiliano infortunato, non fu disponibile causa quel mal di schiena che è sempre stato il suo tallone di Achille e il motivo del suo lungo rapporto con il fisioterapista Balbir Singh. Nel frattempo, forse, si era già fatta sentire all’uscio di casa sua anche la Mercedes, decisa a ritornare nel mondo delle corse in proprio e non più in sodalizio con  una chiacchieratissima McLaren.
L’annuncio bomba del ritorno di Michael alle corse nel 2010 alla guida di una monoposto della casa di Stoccarda movimentò il mondo della Formula 1 forse più di quello del passaggio di Fernando Alonso alla Ferrari. I cui tifosi si divisero tra quelli che non potevano ignorare i battiti del loro cuore e quelli che si sentirono traditi. Ma Schumi aveva ignorato il noto proverbio secondo cui gli eroi muoiono giovani (nel suo caso, per fortuna, solo metaforicamente). Sfidare la sorte che gli aveva dato così tanto per tentare un secondo miracolo, far rinascere la Mercedes dopo averlo fatto con la Ferrari, non si dimostrò pagante. In tre anni la Mercedes ha avuto risultati paragonabili a quelli della Toro Rosso e della Force India, e vedere Schumi tamponare come un pivellino il francese Verne a Singapore per colpa di freni che non funzionano è stato un momento molto triste. Forse Schumi ha capito lì che il destino non paga due volte, e che è bene che la gente si ricordi dell’altra sua vita, quella in cui lui era il numero uno.
La conferenza stampa nel frattempo è finita. Michael ha fatto gli auguri al suo successore, quel Lewis Hamilton strappato a sorpresa all’ex partner McLaren che l’aveva cresciuto ma che non lo fa vincere più. In testa al mondiale c’è il tedesco di Spagna Fernando Alonso. E’ ora di godersi la sua splendida famiglia, e i continui ritorni ad un Albo d’Oro – nei prossimi anni – che non sarà modificato tanto presto, almeno per quello che riguarda il vertice.
Auf wiedersen, Michael. Du bist am moisten grossen. Sei stato il più grande. Con Fernando la tua rossa è in buone mani.

Michael Schumacher, la battaglia più difficile



 30 dicembre 2013

E' possibile dare la colpa al destino crudele se si trova in gravi condizioni uno che ha vissuto gran parte della sua vita a 300 all'ora? Pare di sì, poiché è quello che stanno scrivendo su tutti i social network amici, ex colleghi e semplici supporters a commento di quanto sta succedendo a Michael Schumacher, indimenticato e indimenticabile campione e recordman di Formula 1, sette volte iridato di cui cinque consecutive con la Ferrari.
Michael aveva dato l'addio definitivo alle corse nel 2012, a 43 anni e dopo essere sopravvissuto ad almeno un grave incidente, nel 1999 a Silverstone allorché se la cavò con una gamba rotta "soltanto". Ciò non gli aveva impedito di cominciare l'anno dopo la serie di vittorie leggendarie con il Cavallino Rampante, fino a concludere nel 2006 la prima parte della sua carriera con un palmares che rimarrà ineguagliato per chissà quanto. Poi il ritorno, nel 2010, altri tre anni di vita spericolata senza più successi, ma con un gusto immutato per il rischio.
Lo stesso gusto, lo stesso bisogno di adrenalina pura, che lo portava a cimentarsi in altre discipline sportive molto pericolose, come lo sci fuori pista praticato nei pressi della sua residenza francese di Meribel. Ieri la fortuna gli ha presentato il conto, e ancora non è dato sapere quanto sarà salato. Schumi ha perso il controllo degli sci durante una discesa al di fuori delle piste tracciate. La caduta rovinosa l'ha portato a sbattere la testa violentemente contro una roccia.
Malgrado il tedesco – spericolato ma metodico come sempre – indossasse
il casco, l'impatto gli ha prodotto una commozione cerebrale ben presto degenerata in emorragia durante il pur tempestivo ricovero nel vicino ospedale di Grenoble. I soccorsi sono scattati subito grazie al fatto che l'ex ferrarista non era solo, con lui sciava il figlio Mick. La situazione all'arrivo al nosocomio è parsa subito seria, Michael era in coma ed è stato mantenuto in tale stato farmacologicamente, mentre veniva sottoposto ad un intervento chirurgico per l'arresto dell'emorragia e la riduzione del trauma cranico.
Dopo quasi 24 ore, il bollettino medico parla di condizioni che restano "stabili ma critiche", con prognosi strettamente riservata. «Non possiamo pronunciarci sulle possibilità di sopravvivenza e sul futuro di Schumacher», ha chiosato l'equipe medica che lo segue, con la supervisione di quel professor Saillant dell'Università di Parigi, esperto di neurochirurgia, che già lo rimise a posto nel 1999 in una circostanza peraltro che adesso sembra molto meno grave dell'attuale.
Al capezzale dell'ex campione del mondo, tanti amici e colleghi, a cominciare dai compagni d'avventura Ross Brown e Jean Todt, e ovviamente la moglie Corinna ed i figli Gina Maria e Mick. Sebastian Vettel, l'attuale campione del mondo, nel rivolgergli gli auguri ha parlato di Schumi come di un secondo padre per lui. Giancarlo Fisichella, ex rivale in pista del tedesco, gli ha scritto: «Io ti conosco Michael, sei un grande. Questa è la corsa più difficile, ma sono certo che vincerai di nuovo».
La situazione rimane in continua ed imprevedibile evoluzione. Intanto, è il caso di dire che il campionissimo tedesco, sempre riservato e non molto espansivo durante tutta la sua carriera, non ha forse mai avuto così tante manifestazioni di affetto come adesso che la sua vita a 300 all'ora sembra davvero appesa ad un filo, a pochi giorni da quello che sarebbe il suo quarantacinquesimo compleanno, il 3 gennaio.

martedì 16 dicembre 2014

London calling



Dall’urna di Nyon per la Fiorentina esce una delle leggende del calcio. Il Tottenham Hotspurs è uno dei club inglesi più blasonati e carichi di storia. Il calcio moderno è nato nelle Isole Britanniche, la cui capitale aveva ed ha mantenuto almeno sette squadre tra prima e seconda divisione.
Gli Spurs sono la squadra del sobborgo omonimo di Londra. Furono fondati nel 1882, quando nel continente nemmeno si sapeva ancora cosa fosse il calcio, eccezion fatta proprio per una città italiana che aveva vaghe reminiscenze rinascimentali di un gioco nato all’ombra della più prestigiosa signoria dell’epoca e diventato famoso per essere stato giocato ufficialmente per la prima volta in faccia al più grande degli Imperatori d’Europa: la Firenze dei Medici posta sotto assedio da Carlo V, colui sul cui impero non tramontava mai il sole.
Non appena la pallina esce dall’urna, ecco che subito si scatena il consueto tormentone: sorteggio fortunato, sorteggio sfortunato, è andata meglio alle altre, macché, sono gli inglesi che si devono preoccupare, e via dicendo. E’ andata così, Celtic Glasgow per l’Inter, Feyenoord per la Roma, Trabzonspor per il Napoli e Atletico Bilbao per il Torino. Tutti clienti scomodi, siano i temibili baschi o i terribili turchi di Trebisonda, gli scozzesi discendenti di Braveheart o gli olandesi epigoni dei pirati protestanti di Guglielmo d’Orange.
A noi toccano gli ultimi discendenti dei maestri del calcio, si rinnova un confronto anglo-italiano dalla storia lunghissima e gloriosa, per l’Italia e per la Fiorentina che a Ibrox Park (contro l’altra squadra di Glasgow, i Rangers) vinse la prima edizione della Coppa delle Coppe nel 1961 e nel 1976 vinse proprio qui a Londra contro il West Ham una delle ultime edizioni della Coppa Italo-Inglese, che si disputava tra le vincitrici delle Coppe di Lega dei due paesi. Per non parlare della notte in cui Omar Gabriel Batistuta ridusse al silenzio Wembley ed eliminò l’Arsenal dalla Champion’s League.
Altri tempi? Se sia andata bene o sia andata male, se i viola saranno in grado di rinverdire fasti di un passato che comincia ad allontanarsi molto nell’Almanacco del calcio, o quantomeno di superare un trentaduesimo di finale decisamente ostico, sarà il campo a dirlo e lo farà tra tre mesi, quando la stagione, i terreni di gioco e anche le condizioni delle squadre saranno forse completamente differenti.
Inutile fasciarsi la testa o avventurarsi in pronostici adesso, sviscerando le deludenti prestazioni di un Tottenham che stenta a rimanere all’altezza del proprio glorioso passato. Due titoli nazionali, esattamente come la Fiorentina, otto coppe nazionali, due in più dei viola, una Coppa delle Coppe al pari di Firenze ma due coppe UEFA in più. Dalla scorsa stagione la squadra arranca, la società è ufficialmente in vendita e si appresta addirittura a lasciare lo storico (e troppo oneroso) impianto di White Hart lane nel sobborgo di Tottenham, Haringey, North London.
Le ultime uscite degli Spurs sono state altrettante sconfitte, in casa in campionato con lo Swansea, ad Istanbul contro il Besiktas dietro cui hanno concluso la fase a gironi di Europa League. Peggio forse della Fiorentina arruffona di questo inizio stagione, anche se il calcio inglese negli ultimi anni è complessivamente rinato e gioca sulle ali di un entusiasmo che in Italia è perso da tempo.
Un pronostico serio è dunque impossibile, così come per le altre cinque italiane. E’ la stessa consistenza del nostro calcio attuale a sconsigliarlo. Sono tutte squadre di buon livello europeo le nostre avversarie, ma negli anni d’oro non le avremmo quasi prese in considerazione se non in funzione preparatoria di scontri ben più impegnativi nelle fasi successive. Adesso siamo scesi, nel ranking ma soprattutto nella forza. Una delle due migliori squadre italiane ne prende sette dalla migliore squadra tedesca, e poi ne prende due in casa dalla seconda squadra di Manchester, dove una volta – ai tempi di Falcao e Bruno Conti – andava a dare spettacolo senza quasi neanche togliersi la tuta.
Questi sono i tempi che corrono. Per la Fiorentina bisognerà vedere come sarà trascorso l’inverno dello scontento. Di Montella che ancora non ha fatto pace con l’organico della squadra che allena, della società che si trova una volta di più di fronte ad un mercato di riparazione in cui non avrebbe voluto minimamente impegnarsi e che invece dovrà forse sfruttare con estrema attenzione e abilità, di giocatori tra i quali serpeggia uno stato d’animo altalenante tra il malumore per le scelte del tecnico e la voglia di riprendere comunque e malgrado tutto la corsa delle scorse stagioni ed il feeling con la tifoseria. Di questa stessa tifoseria, che tiene in sospeso qualunque perplessità su questi primi mesi di campionato e Coppa in attesa di vedere che risultati arriveranno a primavera.
E’ una bella gita quella a Londra, e a fine febbraio non è neanche altissima stagione. Mettiamola così, ci sono posti peggiori nei quali seguire la propria squadra del cuore. E se si vuole – a torto o a ragione – coltivare sogni di gloria in questa Coppa di Lega Europea un Tottenham prima o poi va affrontato. Gli “speroni” non graffiano forse più come una volta, ma è pur sempre un derby tra gli inventori del calcio. Ci vorrà la migliore Fiorentina, Della Valle e Montella sono avvisati.

domenica 14 dicembre 2014

Gita viola al mare con brivido

Dopo il vento di Minsk che ha gelato il Franchi, niente di meglio che una gita al mare per la Fiorentina per rigenerarsi in campionato. E’ mare d’inverno, un concetto che il pensiero non considera, come cantava Loredana Berté qualche anno fa. Ma il pensiero non considerava nemmeno di fare una simile figuraccia in Europa League, né di scoprire che tra tecnico e squadra a questo punto si era fatto un simile sangue amaro. E poi Cesena per i fiorentini è una trasferta classica, una delle mete marine predilette da sempre, da quando quella che valicava l’Appennino al Muraglione era
l’unica strada, prima che le autostrade rendessero la vita di tutti più facile.
La squalifica di Cuadrado è provvidenziale per Vincenzo Montella, evitandogli di dover compiere scelte difficili, e peraltro coerenti con la sfuriata di giovedi. Stasera non si può rischiare un giovane talento pur promettente come quello di Minelli. Bisogna andare sul sicuro, l’obbiettivo della Fiorentina sono i tre punti, per accorciare ulteriormente questa classifica strana, in un campionato che non ha ancora trovato veri e propri padroni e che consente facili rientri anche a chi è partito male e ha proseguito così così, come i viola.
Si va in campo con una specie di 3-5-2, con Basanta, Gonzalo e Savic davanti a Neto. Aquilani, Pizarro e Borja Valero si sistemano nel mezzo e Marcos Alonso e Joaquin sulle ali. Le due punte sono Mario Gomez e un inedito Matias Fernandez, almeno in questo ruolo. Il Cesena naviga in pessime acque e ha appena cambiato allenatore, via Pierpaolo Bisoli e dentro Domenico Di Carlo, con la speranza di interrompere il trend negativo che vede i bianconeri romagnoli attestati al penultimo posto in classifica.
Anche i padroni di casa avrebbero l’obbiettivo esplicito dei tre punti, per cominciare la corsa salvezza proprio contro una Fiorentina che notoriamente se aggredita e presa di infilata soffre. Ma bastano pochi minuti per rendersi conto che altrettanto esplicitamente il Cesena non è attrezzato per giocare alla pari contro una squadra viola che dopo alcune fasi di gioco concitate e arrembanti riesce a prendere in mano il consueto pallino del gioco.
Sono quei minuti che passano prima che Mati Fernandez batta da par suo il primo di una serie di calci piazzati micidiali. Comincia così la partita spettacolare del cileno, che alla fine risulterà decisamente il migliore in campo. E comincia così anche la strana partita di Mario Gomez, con un gran colpo di testa in tuffo degno dei tempi d’oro della Bundesliga, sul quale il portiere Leali si supera con una parata strepitosa. Sembra l’inizio della rinascita del centravanti tedesco e invece è come una doccia fredda. Da quel momento Supermario riaffoga n un’altra prestazione farraginosa, improduttiva. Spesso pescato in offside da compagni non rapidissimi nel dargli la palla, ancor più spesso statico, imballato, come se fosse ancora all’inizio della preparazione estiva.
In realtà è tutta la Fiorentina a faticare, costretta a percorrere le solite vie laterali in attesa di verticalizzazioni che non arrivano. Marcos Alonso e Joaquin si dannano l’anima per sfondare almeno sulle ali, ma hanno vita dura con i rocciosi difensori cesenati, che spesso ricorrono alle maniere forti. In mezzo fa fatica Borja Valero, spesso soverchiato dai marcantoni cesenati, e Aquilani tenta il tiro da fuori senza grande fortuna. Sembra la solita partita fatta di pazienza e sofferenza per i viola, con il rischio di beccare in contropiede  come successo giovedi in coppa.
E’ pur vero che il Cesena, rapidissimo nelle ripartenze, una volta sulla tre quarti viola si incarta puntualmente su se stesso, giustificando ampiamente la propria classifica attuale. Il match sembra bloccato a centrocampo, con la Fiorentina padrona del gioco ma sterile in attacco, finché non è proprio uno degli uomini che hanno fatto più fatica in questo primo tempo a portare l’inerzia del match dalla parte della squadra gigliata. Il Borja Valero attuale è una dannazione quando si tratta di giocare di prima, ma se ha l’occasione di aggiustarsi la palla la tecnica la possiede ancora. Il tiro che scocca al 43’ è potente e preciso quanto basta per sbucare attraverso una selva di gambe davanti a Leali che può soltanto sfiorare.
La Fiorentina va al riposo con un vantaggio tutto sommato meritato, dopo aver faticato ed essersi divertita – e fatto divertire – assai poco. Quanto basta tuttavia per aver capitalizzato la differenza di almeno una categoria con i padroni di casa. Al ritorno in campo ci si attende tuttavia la rinnovata furia cesenate, e invece passano solo due minuti e stavolta Savic è preciso a spizzare di testa un altro calcio di punizione di Mati Fernandez. La parabola del cileno è letale, al serbo – uno dei sei uomini che la Fiorentina, a volte a suo rischio e pericolo, manda puntualmente a saltare sui calci piazzati in attacco - basta veramente scegliere il tempo giusto e sfiorare quanto basta per fulminare Leali & C.
Si profila una giornata trionfale come quella di Cagliari, ma la Fiorentina di questo periodo ha più voglia forse di vacanze di Natale che di tenere la concentrazione alta quanto serve ad una squadra che tenta la rimonta al terzo posto. Il Cesena di tirare in porta non se ne da proprio per inteso, ed ecco che allora ci pensano i viola a movimentare una partita noiosa per quanto è scontata. Dapprima Mario Gomez fa il bis di Cagliari, sotterrando il più facile dei contropiedi in maniera inguardabile. Poi, un innocuo colpo di testa all’indietro di Savic viene accolto con madornale sufficienza da Norberto Neto, che battezza il proprio imminente rinnovo contrattuale con una papera da Gialappa’s Band. La goffa rincorsa al pallone che si è lasciato sfuggire lo porta soltanto ad incastrarsi nella rete, aumentando la comicità della scena.
Cesena si rianima, e prende a spingere a gran voce i ragazzi di Di Carlo. Mentre la Fiorentina sembra accusare emotivamente il colpo e vede per qualche minuto le streghe sotto forma di arrembaggio romagnolo, i suoi più vecchi tifosi si ricordano di un precedente sinistro, proprio qui al Manuzzi. Era il 24 ottobre 1982, la Fiorentina di Passarella, Bertoni, Graziani ed Antognoni si portò sul 3-0 contro i bianconeri locali, per poi farsi raggiungere in tre minuti in zona Cesarini. Ma era un altro Cesena, questo di oggi fa paura soltanto a se stesso e ai propri supporters. A un quarto d’ora dalla fine, lungi dall’aver impensierito mai un Neto che per fortuna si riscuote subito dall’infortunio, riesce a rimanere in dieci per un fallaccio di Volta da campi di periferia, su cui l’ottimo Orsato non ha esitazioni.
Con i romagnoli in dieci, è questione di tempo prima che la Fiorentina colpisca ancora, pur senza fare niente di trascendentale. Sull’ennesima ottima punizione di Mati Fernandez, stavolta è Gonzalo a imitare Savic e portare a tre le reti viola, chiudendo il match. C’è tempo per l’entrata in campo di un Ilicic che nemmeno fuori casa riesce a combinare qualcosa di decente, e di un redivivo El Hamdaoui che nei pochi minuti concessigli mostra di non essere certo il peggior fico del bigoncio viola. Nei minuti finali l’onnipresente Mati tenta la il gol di precisione appoggiando sulla sinistra di Leali. Il quale può solo ribattere, giusto sui piedi del buon Mounir che si fa trovare al posto giusto nell’attimo giusto. Il 4-1 è meritato non solo da lui, ma anche da una Fiorentina che pur senza entusiasmare ha perlomeno concretizzato tutte le occasioni che la sua superiorità oggettiva le ha concesso.

E’ una squadra che ha comunque bisogno di trovare nuove soluzioni in attacco, in attesa di ritrovare il vero Mario Gomez, quella che stasera festeggia la riduzione del distacco dal terzo posto a soli tre punti. E’ un campionato assurdo, l’abbiamo detto più volte. C’è spazio perfino per una clamorosa rimonta da parte di una squadra – quella viola – che sembrava partita solo per far danno a se stessa e ai propri tifosi. Prima del panettone natalizio c’è solo l’Empoli in casa. L’anno può finire molto meglio di come era cominciato.

sabato 13 dicembre 2014

Montella Vs. Cuadrado, il caso dell’anno

Non siamo certo agli schiaffi in diretta di Delio Rossi a Llajic, ma al 25’ del primo tempo di Fiorentina-Dinamo Minsk qualcosa dev’essere volato. Qualcosa di grosso, suscettibile nel bene o nel male di creare una frattura in questa stagione. L’episodio, la scossa che cambia il corso di una storia comunque ancora tutta da scrivere.
Una cosa è certa. La conferenza stampa post partita di Vincenzo Montella riserva agli appassionati supporters viola tutte le emozioni che il match appena conclusosi ha negato loro. A far festa è stata la Dinamo, fanalino di coda del girone K di Europa League venuta a passeggiare allo Stadio Franchi al cospetto della Fiorentina B. Una gara per fortuna ininfluente, se non sul morale e sull’immagine di una società e di una squadra che avevano appena ritrovato un po’ di tutto ciò mettendo in fila tre o quattro prestazioni tra campionato e coppa dignitose se non addirittura convincenti.
Appena davanti ai microfoni, il mister di Pomigliano d’Arco è un fiume in piena. Particolarmente rabbioso nel suo scorrere, tra l’altro. A confronto, il leggendario sfogo di Cesare Prandelli qualche anno fa dopo un avvio di campionato sotto tono impallidisce nel ricordo. La sentenza di bocciatura per il calciomercato estivo della società è netto, e impietoso. Dei giocatori arrivati a rinforzo Montella non ne salva uno, negando ulteriori prove d’appello. Ma a ben vedere, si capisce che l’imputato numero uno è colui che proprio in estate era stato accreditato di essere il pezzo più pregato della banda viola, quello per cui i top team di tutta Europa in apparenza si stavano accapigliando per acquisirne il cartellino: Juan Guillermo Cuadrado.
La sostituzione a metà primo tempo aveva destato qualche perplessità. Il colombiano non appariva star male, non aveva accusato risentimenti circa l’infortunio occorsogli durante Fiorentina-Juventus. Non aveva giocato né peggio né meglio di quanto gli succede ultimamente: niente più miracoli ma almeno una spinta costante nel suo settore e qualche prezioso tiro in porta, per una squadra che la porta avversaria da tanto tempo la vede con il telescopio di Arcetri.
Dalle parole di Montella si evince invece che il gioiello colombiano è stato tolto per esasperazione. Indisciplina tattica, scarso rendimento, estraniamento dal gioco di squadra, in sostanza queste sono le accuse rivoltegli dal suo allenatore che a quanto dice, o forse da quanto si capisce ha perso la pazienza dopo ripetuti e inutili tentativi di ricondurre il figliol prodigo nel gregge del suo tiki taka. Spazio quindi al giovane Minelli, e siccome la fortuna non aiuta soltanto gli audaci ma anche chi la invoca sconsideratamente, ecco che il ragazzino n. 43 fa un esordio con i fiocchi e risulta addirittura il migliore in campo, dando al tecnico indirettamente una ragione che altrimenti sarebbe stato difficile attribuirgli.
E così, oltre alla figuraccia in eurovisione (e per fortuna non in chiaro, grazie Mediaset) ci si ritrova un nuovo “caso di stagione”, diverso da quelli che hanno movimentato le annate precedenti e tuttavia uguale, se si vanno a vedere le motivazioni delle parti in causa. Il fatto è che Vincenzo Montella nella sua indignazione di fine 2014 è credibile più o meno come Claudio Scajola quando sosteneva di possedere un attico a Piazza di Spagna a sua insaputa.
Delle due l’una. O il tecnico campano ormai è in rotta con l’ambiente viola e dura fatica a organizzare una squadra che tenga debito conto delle risorse (buone o cattive) messegli a disposizione dalla società che gli paga lo stipendio, oppure è perfettamente in sintonia con questa società e si presta al gioco di far ricadere su Juan Guillermo Cuadrado l’intero peso di quella che potrebbe essere una delle più clamorose cessioni al mercato di gennaio di tutti i tempi, non solo della storia della Fiorentina.
Se Montella è davvero esasperato perché questa squadra non è quella che voleva (Cuadrado e mancati sostituti acquistati con il ricavato della sua cessione compresi), aveva un modo molto semplice per farcelo sapere, e per essere coerente con se stesso: dare corso alle dimissioni minacciate tra la fine di luglio e i primi di agosto, che ormai non sono più un mistero per nessuno. Restare, e pretendere di stare in paradiso a dispetto dei santi (che, ripetiamo, gli corrispondono tra l’altro un lauto stipendio) è esiziale, se non nell’immediato sicuramente a gioco lungo. I conti, che proverbialmente si fanno a fine stagione, potrebbero clamorosamente non tornare anche quest’anno.
Sempre in questa ipotesi, uno degli aspetti meno comprensibili è proprio quello di pretendere di forzare il fuoriclasse colombiano al rispetto di schemi rigidi che notoriamente per chi capisce di calcio non si confanno né a lui né a qualsiasi giocatore degno della qualifica appunto di fuoriclasse. Fatte le debite proporzioni, non ci risulta che – per dirne uno – il tecnico carioca vittorioso ai Mondiali del 1958, Vicente Feola, avesse simili pretese con i suoi vari Pelé o Garrincha. Sempre fatte le debite proporzioni, non crediamo che neppure Rinus Michels avesse analoghe velleità con i suoi campioni della mitica Olanda del 1974. In compenso Arrigo Sacchi per idee astruse del genere riuscì quasi a far fallire la spedizione azzurra a USA 94.
Se tu pretendi di forzare il campione ai tuoi schemi, si chiami esso Cuadrado o Roberto Baggio, significa solo che i tuoi schemi valgono poco e tu non hai capito che cosa hai per le mani. Vincenzo Montella, invece di abusare della pazienza nostra e dei giocatori coltivando arrabbiature come quella esplosa a metà primo tempo l’altra sera, bisognerebbe si ricordasse di quante volte il numero 11 colombiano gli ha tolto le castagne dal fuoco fatuo del suo tiki taka sterile in quanto a gol, proprio grazie a quella che lui stigmatizza come indisciplina tattica. La disciplina si insegna ai Lazzari e ai Badelj, con tutto il rispetto, e perfino ai Borja Valero, che altrimenti girerebbero a vuoto per il campo senza costrutto a spargere più fumo che arrosto. A Cuadrado gli si dice solo “prendi la palla e vai”, come fa Pelé nel film “Fuga per la vittoria”, capolavoro di John Houston. E intorno gli si costruisce la squadra.
Poi c’è l’altra ipotesi, e ognuno giudichi qual è la più verosimile. Acca’ nisciuno è fesso, dicono dalle sue parti. Montella non ha nessuna voglia di rinunciare al suo stipendio anzitempo, prova ne sia che é ancora qui e se i risultati in qualche modo continuano a sostenerlo ci resterà fino a fine stagione. E allora se la società viene a dirti che vuole cedere Cuadrado, ma senza creare malcontento tra i tifosi, ecco che il mister ha la soluzione. Diverbio in pubblico, facile a provocarsi perché Cuadrado oggettivamente non è quello della stagione scorsa, siano stati i mondiali e la preparazione ritardata oppure le delusioni circa le voci estive di mercato. Alla prima occasione si crea il casus belli e da quel momento la nostra Grande Bellezza diventa il reprobo, il figliol prodigo che non vuole tornare, non ci vuole più stare. Il Montolivo della stagione in corso, per capirci meglio e più facilmente.
Altro non c’è che possa spiegare le modalità di impiego di Juan Guillermo Cuadrado da parte di Vincenzo Montella in occasione di Fiorentina-Dinamo Minsk, e la sua sostituzione repentina, incomprensibile, ingiustificabile. Quello che è certo, si diceva all’inizio, è che questo caso rischia di deflagrare in un modo o nell’altro clamorosamente, creando una frattura nella stagione. A parte il fatto che le risorse d’attacco della Fiorentina al momento sono veramente ridotte al lumicino (di sicuro non all’altezza degli obbiettivi nuovamente sbandierati recentemente a voce stentorea da Andrea Della Valle), queste situazioni creano di solito conseguenze difficili da gestire in spogliatoi in cui già non si respira un atmosfera idilliaca, come è appunto quello della Fiorentina.

Si tratta di capire insomma quale potrebbe essere il nuovo anno zero, se quello in corso o il prossimo. Di sicuro, si dovesse procedere ad una nuova rifondazione a seguito di delusione più o meno cocente, stavolta difficilmente potrebbe bastare un piatto di tagliatelle offerto alla stampa sotto il cielo delle Dolomiti.

venerdì 12 dicembre 2014

Venite a prenderci

“Se l'Italia e la Francia non procederanno con le riforme annunciate si arriverà a un inasprimento della procedura sul deficit. E se alle parole non seguiranno i fatti, per questi Paesi non sarà piacevole". Sono le parole del presidente della commissione Ue, Jean-Claude Juncker, intervistato dal quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung.
Dopo settant’anni dalla seconda guerra mondiale, di nuovo le minacce di un tedesco (anche se formalmente di nazionalità lussemburghese) verso chi in Europa in un modo o nell’altro mostra di non volersi uniformare alla volontà di potenza di Berlino. La Germania 70 anni dopo Hitler sta tentando di nuovo di sottomettere il resto d’Europa. Stavolta l’invasione è diretta da una signora dai capelli tagliati con la pentola e da Herr Jean-Claude Juncker, un burocrate di lungo corso che non solo nel cognome ma anche nei modi ricorda molto i generali prussiani della Wehrmacht.
Scontata e molto francese la risposta francese: attenzione, con queste minacce si fa soltanto il gioco della destra di Marine Le Pen. Altrettanto scontata e tipicamente italiana la risposta italiana: abbiamo fatto i nostri compiti a casa fino all’ultimo. E’ il solito gioco delle parti sullo scacchiere europeo, tra governi e diplomazie che hanno cambiato gli strumenti (gli spread al posto dei tank) ma non gli atteggiamenti. A giro per il continente tuttavia c’è chi comincia a capire che se si piega la testa tanto valeva morire 70 anni fa. La Grecia medita di tornare a votare per la seconda volta in tre anni, incurante del pericolo e delle minacce tedesche ed europee. O forse cosciente che comunque il suo destino è segnato, e tanto vale ritrovare un po’ del vecchio spirito delle Termopili.
La storia passata di solito non è mai maestra di vita, ma forse stavolta vale la pena ripassarsela, magari per evitare una nuova ecatombe.
Settantacinque anni fa, nell'estate del 1938, la Germania nazista aveva ripreso la Renania, toltale dal Trattato di Versailles del 1919, e annesso l'Austria, quando decise di volgere gli occhi sulla Cecoslovacchia per sottomettere anch'essa, con la scusa di riunire alla Madrepatria il territorio abitato dalla minoranza tedesca dei Sudeti. Era chiaro a tutta l'Europa ormai che Hitler non si sarebbe fermato a quelle che in un primo momento si erano voluto giustificare come legittime aspirazioni tedesche, ma - avendo completato il riarmo in spregio al Trattato del 1919 - si preparava ad una escalation che avrebbe portato la Germania a fare del resto del mondo il proprio lebensraum (spazio vitale).
Con gli Stati Uniti fuori dal gioco a causa del proprio perdurante isolazionismo, le potenze che potevano fermare Hitler erano due, anzi tre: l'Inghilterra del conservatore Chamberlain (teorico dell'appeasement, della pacificazione ad ogni costo), la Francia di Laval (essenzialmente un opportunista, il futuro braccio destro del collaborazionista Petain), l'Italia del dittatore Mussolini (che ancora veniva ritenuta una grande potenza, non essendo stato ancora tragicamente scoperto il suo bluff militare).
E' opinione comune degli storici che queste tre potenze, se si fossero presentate unite a dire NO a Hitler, avrebbero salvato non solo la Cecoslovacchia, ma anche il mondo intero dalla Seconda Guerra Mondiale. Invece, arrivarono a Monaco (convocate dal Führer che non ritenne nemmeno opportuno essere lui a scomodarsi) con l'intento di ricercare ogni modo possibile (anche il più umiliante) per accontentare il dittatore nazista salvando la pace. Abbandonarono la disperata Cecoslovacchia e acconsentirono all'annessione tedesca di quest'ultima, in cambio di generiche affermazioni di Hitler che si sarebbe fermato lì, non avendo altre rivendicazioni. Monaco fu salutata come una grande vittoria dalle destre europee, Chamberlain - tornando in Inghilterra - affermò che i leader europei incontratisi in Baviera avevano «assicurato la pace per il loro tempo». La storia dei sette anni successivi è nota.
Nel 1945, dopo il suicidio di Hitler nel Bunker di Berlino e la resa della Germania, si pose il problema di cosa fare di quest'ultima, che per due volte aveva trascinato il mondo in una carneficina immane. A decidere a quel punto non era più l'Europa, ridotta ad un cumulo di macerie e ridimensionata per sempre come protagonista della politica mondiale, ma da una parte l'Unione Sovietica di Stalin (che poteva gettare sul piatto della bilancia due cose: l'Armata Rossa che era arrivata fino alle porte di Vienna e sulle rive dell'Elba, e 22 milioni di morti russi in quattro anni) e dall'altra gli Stati Uniti d'America, che però essendo una democrazia vedevano al loro interno confrontarsi diverse posizioni in merito al dopoguerra.
Il Senatore Morgenthau elaborò un piano che coincideva sorprendentemente con le idee di Stalin sulla Germania postbellica: essa doveva diventare un enorme pascolo di mucche, terra da arare e coltivare, la Fattoria d'Europa, e mai più avere sul suo suolo una singola industria, in modo da evitare che gli "Unni" tornassero mai a minacciare il continente e l'intero pianeta. Anche qui è storia nota, vinsero i fautori della reindustrializzazione e del riarmo tedesco, et pour cause. Nel 1947, quando fu sottoscritto il Trattato di Pace, era ormai esplosa la Guerra Fredda e non era proprio il caso di lasciare di fronte all'Armata Rossa una prateria da poter percorrere agevolmente per ritrovarsi in un paio di giorni sugli Champs Elysées o a Piazza San Pietro. Così, alla Germania fu permesso di risorgere, obtorto collo per molti.
Nel 1990, crollato il Muro di Berlino e finita la Guerra Fredda, nessuno o quasi vedeva più la necessità di tenere divisa la Germania in Ovest ed Est. A 45 anni dalla morte di Hitler e a pochi mesi dalle estreme conseguenze della Perestrojika di Gorbaciov, il Cancelliere Khol poté festeggiare sulla Porta di Brandenburgo la riunificazione, e l'allora Presidente del Consiglio italiano Andreotti commentare neanche tanto sottovoce che si stava facendo una sciocchezza, perché dei tedeschi mai e poi mai ci sarebbe stato da fidarsi, come ben sapevano quelli della sua generazione. Fu tacciato di essere il solito cinico politicante italiano, e tutti a battere le mani ai tedeschi, non solo perché vinsero subito i mondiali di calcio, ma perché si presentarono come coloro che avrebbero dato impulso alla nuova fase di una più grande unificazione: quella europea, dal Trattato di Maastricht alla moneta unica, l'Euro. E questa è storia così recente che se la ricordano tutti.
L'Italia ha tanti difetti, a cominciare dal carattere dei suoi cittadini e dal sistema politico che questi hanno saputo esprimere, o lasciato che fosse espresso sopra le proprie teste, da un sistema economico squilibrato e finanziato dal debito pubblico, dall'evasione fiscale e dal lavoro nero e/o sottopagato. Ma con la vecchia Lira poteva giocare sul tavolo economico europeo e mondiale a riequilibrare i propri difetti strutturali con svalutazione ed esportazione, quindi ricchezza e posti di lavoro. Nel 1992, quando entrò in crisi il Serpente Monetario (SME), una classe politica dall'avvedutezza inversamente proporzionale ai propri crescenti emolumenti convinse un popolo spaventato dalla grave crisi economica prima e politica poi (Mani Pulite) a trovare rifugio nell'Euro. Così siamo finiti a finanziare la riunificazione tedesca e le sue banche, e a diventare il campo di battaglia di una speculazione selvaggia e di una immigrazione che non è dato sapere se abbia portato realmente benessere a chi è arrivato, ma di sicuro sta portando miseria a noi che l'abbiamo subita.
A questa lunga storia mancano due passaggi. Il primo risale agli anni '50 del ventesimo secolo. Charles De Gaulle è stato un grand'uomo, l'eroe della Francia nella Seconda Guerra Mondiale, il Presidente che salvò il suo paese con la Quinta Repubblica e la fine del Colonialismo e della Guerra d'Algeria. L'unico vero uomo di stato che abbiano avuto a Parigi dai tempi di Napoleone III. Ma per l'Europa è stato una maledizione. Proprio perché era intelligente (e privo di scrupoli) al servizio unicamente della grandeur francese ad ogni costo e in ogni modo possibile. Così, poco tempo dopo la fine della guerra mondiale, messa da parte ogni gratitudine verso gli americani e in spregio alla inevitabile logica dei Blocchi delle due Superpotenze di allora, si mise a lavorare per una nuova egemonia francese in Europa, individuando il partner ad hoc nel nemico di sempre: la Germania, allora governata da un uomo egualmente brillante, il Cancelliere Konrad Adenauer, a cui non parve il vero di costituire quell'asse franco-tedesco che da allora fa il bello e il cattivo tempo nel continente europeo. La Comunità Europea nata a Roma nel 1957 ebbe questi genitori "interessati", e con questo vizio di forma è irreparabilmente cresciuta.
L'ultimo passaggio è più complesso. Attraversa i secoli. E' cominciato nella Piana delle Termopili nel 480 a.C., quando il Figlio del Leone, Leonida re di Sparta sbarrò il passo alla Wehrmacht dell'epoca, l'esercito del re persiano Serse, 300 contro 10.000, salvando il suo paese e consegnandolo alla storia e alla leggenda per l'eternità (*). Ci sono molti motivi per provare ammirazione per il popolo greco nel corso della sua storia.
Tra gli archetipi fondamentali della nostra civiltà ci sono la democrazia nata per la prima volta ad Atene, il coraggio degli spartani che come gli inglesi del 1940 rifiutarono di arrendersi contro ogni logica, salvando così molto di più del loro paese, lo spirito dell'uomo occidentale incarnato da Ulisse che va oltre le Colonne d'Ercole, quando tutti gli dicono di non farlo, non l'ha mai fatto nessuno perché così è scritto nei sacri testi, ma lui, come Lawrence d'Arabia, invece va e lo fa, perché così è scritto nella sua testa. E questo solo conta.
Forse significa sognare, all'alba del ventunesimo secolo, rincorrere debolissime speranze ammantate di letteratura. Ma è lecito pensare che il governo greco più che quello italiano o francese stia facendo il suo dovere verso il proprio popol0, chiamandolo a pronunciarsi sulle cose da fare per affrontare la crisi e sulla opportunità stessa di rimanere in un sistema che per la Grecia, e non solo per essa prevede solo miseria e sottosviluppo, a servizio di banche che stanno a Berlino o ancora più lontano. E che quel popolo, magari, in un soprassalto di dignità nazionale che gli proviene dall'eredità di quegli antenati che combatterono alle Termopili, e anche dall'esempio di chi - come gli argentini e gli islandesi - in epoca molto più recente ha detto NO a chi ha provocato la crisi e adesso vuole che altri la paghino, faccia la stessa cosa, come i guerrieri del Figlio del Leone. Dica forte il suo NO al nuovo pericolo per milioni di persone inermi rappresentato dal nuovo Hitler in gonnella e dai nuovi Petain, Laval, Mussolini collaborazionisti sparsi per mezza Europa. Che non vanno più a conquistare paesi con i Tank e gli Stukas, ma con i Bund e gli Spread.
Ed è lecito pensare che finiscano per tirarsi dietro più di 200 milioni d europei che non hanno nessun interesse a morire di fame nel lebensraum tedesco.

(*) « Μολὼν λαβέ» . (« Venite a prenderci» , Leonida di Sparta a Serse di Persia, Termopili, 480 a.C.)