giovedì 31 luglio 2014

DIARIO VIOLA: A San Paolo una Fiorentina bella e sprecona

Sarà anche un momento difficile per il calcio brasiliano, il 7-1 subito dalla Germania pesa, malgrado le parole dolci di Mario Gomez, il tedesco più diplomatico che ci sia. Ma la passione della torcida non è venuta meno, a giudicare dagli oltre 20.000 che assiepano gli spalti del Estadio Municipal Paulo Machado de Carvalho, detto anche Pacaembu (dal nome del quartiere di San Paolo su cui sorge) per questo Palmeiras – Fiorentina, secondo test match per i viola nel quadro della Coppa Euroamericana 2014.
Era lo stadio del Corinthians fino a poco tempo fa. Per i più giovani, o per chi avesse la memoria corta, il Corinthians era la società che vendette alla Fiorentina dei Pontello nell’estate del 1984 nientemeno che Brasileiro Sampaio Souza de Oliveira detto Socrates. Quell’immenso talento che a Firenze ballò appunto una sola estate, pur tuttavia lasciando dietro di sé tanto rimpianto e tanta simpatia. Sono tre anni che il Dottore, il Tacco di Dio come lo chiamavano da queste parti, a casa, sua, ci ha lasciati. Chissà se oggi sarebbe venuto a vedere la sua vecchia squadra. Crediamo proprio di sì, pare che chi ha indossato la maglia viola non la scordi più, sviluppando una specie di saudade a rovescio.
Il grande Julio Botelho aveva in camera un labaro viola, lo si scoprì quando passò a miglior vita nel 2003. Avrebbe fatto 85 anni due giorni fa, lui ci sarebbe stato sicuramente sugli spalti del Pacaembu. C’era comunque suo figlio Carlos, che ha fatto volentieri da anfitrione alla Fiorentina in questo soggiorno paulista. Con lui Leandro Amaral, vecchia piccola gloria viola, capitato a Firenze nel momento sbagliato, quello del crepuscolo di Cecchi Gori, ma rimasto anche lui in un angolino del cuore dei tifosi anche perché legò il suo nome a quello che a tutt’oggi resta l’ultimo successo in una competizione ufficiale della Fiorentina, A.C. o A.C.F. che sia.
Per una società ed una squadra che di titoli ne hanno ancora zero ma di voglia di far bene ne hanno dimostrata e ne dimostrano tanta, questa Coppa Euroamericana è un bel banco di prova ed un ottimo palcoscenico. La cornice di pubblico, come si è detto, non manca. Il pallone in Brasile è un virus che risiede nel sangue e per il quale non esiste antidoto. La gente affolla malgrado tutto gli stadi per divertirsi e dimenticare vecchi e nuovi problemi. La Fiorentina per fortuna è in condizione di onorare l’impegno, lasciando al Palmeiras i tre punti ma mettendo in mostra un gioco apprezzabile anche per i palati fini paulisti.
Montella lascia in tribuna a firmare autografi Mario Gomez, il match winner di La Plata, e ripresenta al suo posto Pepito Rossi. Diciamo subito che il tormentone dell’estate non soltanto di Cesare Prandelli ma anche di quanti tengono ancora alla maglia azzurra e alle quattro stelle che vi sono cucite sopra vale il prezzo del biglietto. Il gol più brasiliano della partita lo segna lui, innescato alla perfezione da Babacar, con un tocco delizioso di esterno sinistro sul portiere in uscita. Gli applausi della torcida avranno fatto fischiare sicuramente le orecchie a qualcuno in riva al Bosforo, malgrado la distanza geografica ed umana.
Per il resto, la Fiorentina schiera in campo tra i pali un Neto che avrebbe preferito non incassare i due gol del Palmeiras, e almeno il primo avrebbe potuto evitarlo, come Zoff in Argentina una quarantina di anni fa. Ma siamo all’avvio della stagione, e il portierino viola è un diesel, le sue prestazioni migliorano con l’andare del tempo, si è visto nella scorsa stagione. Dietro di lui poi non è che al momento ci sia di meglio, se non nella nostalgia. Sebastien Frey in questi giorni è a Firenze, ma in gita di piacere e nulla più.
Anche gli altri sono quelli della scorsa stagione, nel bene e nel male. Hegazy è una piacevole sorpresa, che dà abbastanza sicurezza e rende meno spasmodica la necessità di ridisegnare la difesa, dove peraltro Pasqual e Tomovic si mettono come al solito in luce da centrocampo in avanti e molto meno quando sono indietro. Cercasi terzino disperatamente.
In mezzo, Mati Fernandez per ora offre più fumo che arrosto, sicuramente va meglio però dei due oggetti misteriosi Bakic e Lazzari. Meglio di tutti, per il poco che si è visto stasera, Piccini. In avanti, in attesa che la miglior forma torni ad assistere un Joaquin per il quale purtroppo gli anni passano inesorabili, solite note per Ilicic, costantemente messo in crisi dai dirimpettai brasiliani che hanno almeno una marcia in più, e Babacar, che se continua a mangiarsi ancora gol già fatti presto dovrà mettersi a dieta.
Il risultato finale di 2-1 per i padroni di casa tutto sommato non è male, se si considerano le almeno sei occasioni non trasformate dai viola, un paio almeno clamorose. La formazione come detto è rimaneggiata, Montella sembra aver voluto schierare le seconde linee per mostrarne più che altro le lacune.  Basterebbe veramente poco, sembra dire alla società il tecnico di Pomigliano d’Arco, per fare quel benedetto salto di qualità che i tifosi sognano, autorizzati tra l’altro da un Giuseppe Rossi che trasforma in oro tutto quello che tocca.

Stai a vedere che Cesare Prandelli ha fatto un piacere a Firenze risparmiando il suo talento migliore per la stagione che viene. Com’è lontano il Bosforo…..

martedì 29 luglio 2014

DIARIO VIOLA: Da San Paolo a Roma via Cuadrado

La stagione viola, che tutti si augurano ancora più lunga e densa di impegni (e di risultati) della precedente, comincia dall’altra parte del mondo. E comincia bene. L’Argentina è un paese dalle mille suggestioni, non solo nel calcio. Andare a dare spettacolo nella terra dei Gauchos, è sempre un avvenimento, specialmente adesso che loro sono vicecampioni del mondo e noi siamo ripiombati in una zona grigia della nostra storia calcistica che forse non ha precedenti nemmeno negli anni “azzurro tenebra” tra il Cile nel 1962 e la Corea del Nord nel 1966.
Eppure la Fiorentina, in formazione rimaneggiata causa vacanze post-mundial, rinnovi contrattuali e prove tecniche di cambio modulo da parte di Montella, porta a casa un ottimo esordio al primo turno di questa Coppa Euroamericana 2014 che la vede impegnata contro l’Estudiantes di La Plata. Squadra che evoca suggestioni dentro suggestioni. Ricordi di una Coppa Intercontinentale giocata nel 1969 contro il Milan. Giocata si fa per dire, in campo volarono botte da orbi, fu definita una delle più violente partite dell’intera storia del calcio. Il Milan si aggiudicò il trofeo, malgrado le botte argentine, ogni ben di dio che volava giù dagli spalti della Bombonera, l’Estadio Alberto Jacinto Armando di Buenos Aires dove si giocava per l’occasione, e l’arresto del rossonero Nestor Combin all’aeroporto con il pretesto della renitenza alla leva.
Altri tempi, altro mondo, altro calcio. Adesso l’Estudiantes è semplicemente la terza squadra del campionato argentino, dietro River Plate e Boca Juniors (la società che ha ospitato i viola nella prima parte di questa trasferta sudamericana). Niente di eccezionale, i migliori argentini giocano indubbiamente in Europa, ma quanto basta per testare cuore e gambe dei nostri eroi dopo le partitelle con i dilettanti della Val di Fassa e dintorni.
Mancano Cuadrado, in ferie dalla Colombia giunta ai quarti di finale ai Mondiali ed in attesa di sapere dove ripresentarsi il 5 agosto, e Aquilani, che le ferie le ha fatte in Brasile grazie a Prandelli che proprio non lo vedeva e che adesso aspetta di sapere se andrà a buon fine il rinnovo contrattuale. Occasione per vedere all’opera dunque alcune “pianticelle” nel frattempo cresciute come quel Bernardeschi Federico di cui si è parlato un gran bene in quel di Crotone dov’era in prestito, o quel Khouma El Babacar che viene da 20 gol segnati a Modena.
Più quel Brillante di nome e di fatto che viene dalla Terra dei Canguri e che ha tolto subito dal volto dei tifosi qualsiasi smorfia di perplessità con la sua prestazione fatta di qualità e di sostanza. Joshua Brillante è uscito dal gruppo, per dirla con Enrico Brizzi, nel senso che si è messo in mostra agli occhi di Montella. Se il buongiorno si vede dal mattino, il centrocampo viola – che già era uno dei punti di forza della squadra - ha un’arma in più.
Ha vinto con merito la Fiorentina a La Plata, capoluogo della Provincia di Baires, grazie al gol dell’unico tedesco che finora non aveva sorriso, in questa estate di weltmeistershaft. Mario Gomez sembra ritrovato fisicamente, e con la voglia di spaccare il mondo. La sua rete è stupenda, innescata da Bernardeschi alla perfezione e conclusa con un contropiede travolgente, una sterzata secca davanti al portiere e un tiro che non lascia scampo.
A chiudere un attimo gli occhi, ricorda quella che aveva illuso tutti a Torino a marzo, consegnando momentaneamente la qualificazione ai quarti di Europa League alla Fiorentina contro la Juventus, prima del Pirlo Show. Oppure, ma qui bisogna andare veramente indietro ad un’epoca ormai favolosa, quella di Roberto Bettega, sempre da queste parti, con cui l’Italia mise in ginocchio un’Argentina che voleva diventare campione del mondo per la prima volta, e che tirò un sospirone di sollievo a non ritrovarsi di nuovo gli azzurri in finale ai Mondiali del 1978.
Bando ai ricordi, che possono anche far male. Facciamoci invece del bene sognando cosa può diventare questa Fiorentina se recupera tutti i suoi acciaccati della scorsa stagione. A San Paolo del Brasile, dove giocherà la seconda partita contro il Palmeiras, la Viola dovrebbe ricomporre finalmente quel duo delle meraviglie che abbiamo visto solo due volte un anno fa circa, prima che pedate contro ginocchia facessero strage dei migliori investimenti dei Della Valle. Se Pepito Rossi ha la stessa voglia di Mario Gomez, anche per rispondere nel modo migliore a Cesare Prandelli e alle sue “delusioni umane”, può darsi che se ne vedano delle belle.
Se poi la mission impossible di Andrea Della Valle andasse a buon fine, con Juan Cuadrado – o JC11 come lo chiamano adesso le nuove generazioni di tifosi cresciuti a pane, calcio e playstation – allora si che le cose si farebbero interessanti. La strategia della società di Viale Manfredo Fanti è quella di trattenere il colombiano ancora per un altro anno, magari accordandosi fin d’ora con la società compratrice, una riedizione insomma degli affari Toni 2007 e Jovetic 2013.
Se Cuadrado ci sta e le ginocchia di tutti reggono (un salto a Montesenario in questo senso non guasterebbe, di ritorno dal Sudamerica) nei prossimi mesi potremmo vedere una Fiorentina ancora più forte di quella della passata stagione. E chissà che qualcuna delle sue concorrenti non stia perdendo terreno. A Torino, per esempio, per il momento c’è poco da stare Allegri, il gioco di parole è scontato quanto si vuole, ma i campioni d’Italia potrebbero rimpiangere il tecnico pluriscudettato e dalla celebre pettinatura che ha da poco salutato tutti.
A proposito di concorrenti (visto che con buona pace di Sky nominalmente nell’alta classifica c’è anche la Fiorentina), escono i calendari e per i viola c’è subito la Roma all’Olimpico. O bene bene o male male, si direbbe. Prima che il vittimismo riprenda puntuale a serpeggiare nella tifoseria dopo la pausa estiva, vorremmo dire che i casi sono due, e tutti e due in mano saldamente ai nostri eroi in maglia viola ed al loro condottiero Montella: se la squadra è forte, la Roma prima o poi la devi trovare, o prima o dopo non fa nessuna differenza. Se non lo è o mantiene delle lacune, come si è visto nella passata stagione anche un Cagliari ti può far vedere i sorci verdi, e in casa tua.

Domani sera a San Paolo intanto esame di calcio brasiliano, test attendibile anche in questi tempi di magre verdeoro. Dopo Batistuta, a seguire con affetto i viola in tribuna ci sarà Carlos Botelho, figlio dell’indimenticabile Julio, detto Julinho. In attesa poi del 5 agosto, quando dovrebbe ricomparire la nostra grande bellezza, JC11. Il suo agente è già a Firenze, e qualcosa lascia intuire che molti giochi possano essere già stati fatti. Stiamo a vedere, chissà che, come era d’uso dire qualche stagione fa, il miglior acquisto non ce l’abbiamo già in casa.

Mese decisivo per la Concordia e Piombino

10 febbraio 2014
articolo profetico......

Stai a vedere che raddrizzarla è stata la parte più semplice del lavoro. Il 15 settembre scorso nelle acque dell’Isola del Giglio fu realizzato quello che fino ad allora avevamo visto soltanto al cinema. Il colosso del mare naufragato sugli scogli dell’isola al largo delle coste toscane, che giaceva ferito a morte disteso su un fianco, fu riportato in linea di galleggiamento grazie ad un’impresa condotta da un consorzio dove enti pubblici nazionali e locali, ditte private specializzate in salvataggi marini e la stessa Costa Crociere proprietaria del relitto lavorarono insieme come si vede fare soltanto nei grandi kolossal hollywoodiani. E il risultato fu il lieto fine che in quei film non può mai mancare, preparato da un anno e mezzo di lavoro coordinato dalla Regione Toscana e favorito da una fortuna che non si dimenticò di aiutare gli audaci in quella circostanza.
Le immagini della Costa Concordia rimessa in piedi commossero il mondo, riportando la mente di tutti alle drammatiche ore del naufragio, della morte di oltre 30 passeggeri crocieristi, della vicenda del comandante che abbandonò la nave in spregio a qualsiasi regola della marineria e su cui la magistratura sta ancora indagando, e chissà per quanto e con che esito. Assorbito l’impatto emotivo, per tutti cominciò poi la parte più oscura e più difficile dell’opera, quella che secondo i programmi (ed a riflettori spenti) consentirà di mettere in grado la grande nave di raggiungere la sua ultima destinazione, quella in cui verrà smantellata e indirizzata all’eterno riposo.
E’ cominciata allora una partita doppia, che si gioca in parte alla luce del sole e in parte nel mondo sotterraneo delle lobbies. Secondo il cronoprogramma, la Costa e tutte le autorità interessate si sono date dodici mesi di tempo per portare via dal Giglio la Concordia, che dovrebbe partire per il suo ultimo viaggio a settembre 2014. Ciò presuppone che venga messa in condizione di navigare, con degli appositi galleggianti da fissare alle paratie, quella sana e quella squarciata. E presuppone anche di avere allestito un apposito cantiere nel porto in grado di accoglierla.
Se le idee progettuali circa la rimozione della nave sono chiare da tempo, sulla scelta del porto vige tutt’ora una suspence tutto sommato abbastanza sorprendente. Dal giugno scorso infatti, sembrando accogliere e fare propria una proposta ispirata principalmente dal buon senso, il governo italiano ha destinato circa 130 milioni di euro per l’adeguamento del vicino porto di Piombino alle necessità indotte dall’allestimento di un cantiere capace di ospitare la Costa Concordia ed i macchinari necessari a smontarla.
Scelta già fatta quindi, verrebbe da pensare. Lo impone del resto la ragionevolezza: il porto della penisola toscana, imbarco privilegiato per l’Elba, le isole dell’Arcipelago e la Sardegna, è il più vicino al luogo del naufragio e consentirebbe di ridurre al minimo la durata del trasferimento ed il conseguente rischio di sversamento in mare del contenuto non proprio biodegradabile del relitto attraverso le sue falle non richiuse. Per lo stesso motivo è stata tra l’altro scelta la data di fine settembre, per non compromettere la stagione balneare che porta su quelle coste ed in quelle acque centinaia di migliaia di persone.
Scelta già fatta, dicevamo? Macché. In realtà non esiste nessuna decisione ufficiale del governo italiano e della Costa circa il luogo dell’ultima dimora della nave da crociera. Incredibile ma vero. Regione Toscana, il cui Presidente è stato commissariato dal governo a tale scopo, ed Autorità Portuale di Piombino in qualità di ente attuatore stanno allestendo un porto-cantiere (che tra l’altro dovrebbe restare come struttura qualificante in dotazione permanente alla cittadina marittima) senza nessuna certezza effettiva circa la scelta finale, che dovrà essere adottata, sempre secondo cronoprogramma, alla fine di marzo da un joint committee formato dal Dipartimento Nazionale Protezione Civile e dal management della Costa Crociere.
Il fatto è che il business comprensibilmente legato al disfacimento della Concordia fa gola a molti, praticamente tuti i porti del Mediterraneo si sono fatti avanti. Un po’ come successe – ci sia consentto il paragone irriverente - per l’edizione della Coppa America di vela organizzata nelle acque europee dal Consorzio di Bertarelli qualche anno fa. L’attività di lobby procede quindi frenetica di pari passo a quella di chi sta aprendo i cantieri a Piombino, e gioca le sue carte nelle commissioni tecniche e nelle maglie della normativa bizantina a cui nemmeno una gestione commissariale, cioè dotata di tutti i poteri straordinari consentiti in caso di emergenza dalla legge vigente, riesce realmente a derogare.

A Piombino si gioca un pezzo del futuro della Toscana, e come sempre il suo destino verrà deciso altrove. I cantieri dovrebbero essere aperti comunque entro questo mese, per rispettare la scadenza finale di settembre. Il porto sarà ingrandito con l’aggiunta di un bacino di carenaggio e di un cantiere capace di ospitare una nave grande come il leggendario Titanic. Ma fino alla fine del mese successivo non sapremo se questa opera ingente sarà l’ultima casa della Concordia o resterà almeno nell’immediato come una delle tante cattedrali nel deserto italiane.

sabato 26 luglio 2014

Ancora nel nome del popolo italiano

18 luglio 2013

Scrivevamo tempo fa, nell’articolo In nome del popolo italiano, delle non certo felici condizioni in cui versa la giustizia italiana, l’unica questione tra quelle che sono o dovrebbero essere oggetto di riforma nel nostro Paese su cui si registra – almeno nelle intenzioni – un consenso bipartisan, staremmo per dire una unanimità. Domani è l’anniversario della strage di via d’Amelio, e spiace un po’ dover sollevare l’argomento della giustizia che non funziona proprio a ridosso di un evento simile, che ci ricorda e ci ricorderà fino alla notte dei tempi che è esistito chi ha nobilitato fino ai massimi livelli la professione, anzi diciamo meglio, la missione di magistrato. D’altra parte, se una cosa non funziona, non funziona, a prescindere dall’impegno degli addetti ai lavori. Il discorso vale per tanti altri settori, dalla pubblica amministrazione all’ambito di impiego delle professioni più varie, comprese quelle aventi a che fare con la politica (anzi soprattutto loro).
Il Palazzo di Giustizia di Roma, detto il "Palazzaccio"
Dunque, la giustizia. Argomento delicato, si rischia sempre di urtare delle suscettibilità pericolose. Eppure argomento più che mai d’attualità perché non passa giorno senza che l’attualità stessa incalzi, offrendo nuove testimonianze a proposito di quanto l’amministrazione della legge sia bisognosa di essere riformata. Scrivevamo ieri a proposito delle offese del vicepresidente del Senato Calderoli alla ministro per l’Integrazione Kyenge, vicenda dai molti aspetti scabrosi che abbiamo cercato di riassumere su queste colonne. Non poteva mancare un seguito giudiziario, ovviamente. Il Codacons (ma non era un’organizzazione che per statuto si occupava della tutela dei consumatori?) ha presentato alla Procura di Bergamo un esposto-denuncia contro Calderoli per le offese razziste alla Kyenge, l’ipotesi di reato è diffamazione aggravata da discriminazione razziale.
La vicenda, se prima era scabrosa, adesso – ci sia consentito dirlo – sfiora il ridicolo. La scarsa conoscenza della legge di certi cittadini (o loro associazioni) si somma ad alcune previsioni normative formalistiche che obbligano sempre e comunque all’azione una Procura della Repubblica, a prescindere dalla fondatezza o meno della questione. Risultato? Azzardiamo un pronostico: l’unico certo sarà lo sperpero, per quanto doveroso, di denaro pubblico.
Roberto Calderoli e Cecile Kyenge
Detta in parole povere, il Codacons denuncia le offese razziste di Calderoli, il procuratore di Bergamo è costretto ad aprire un fascicolo. Che poi ne segua qualcosa, è da vedere, perché ci sono due piccoli particolari da tenere in considerazione: il primo è che si tratta di un reato d’opinione, questione assai delicata (come non ha mancato di rilevare il procuratore di Bergamo dott. Dettori) e giustamente trattata con le pinze dalla nostra stessa Costituzione; l’altro è che il presunto reo è un parlamentare, che come dovrebbe esser noto anche ai frequentanti le scuole materne, “non è perseguibile per le opinioni espresse ed i voti dati nell’esercizio delle proprie funzioni” (art. 68 Cost.). Pertanto, almeno per i prossimi cinque anni (salvo rielezione), Calderoli non è perseguibile, e se la sua Camera di appartenenza non lo autorizza, nemmeno indagabile.
La Procura ha l’obbligo dell’azione penale perché qualche cittadino l’ha messa nel mezzo, deve aprire un fascicolo ed assegnarlo a qualcuno dei suoi magistrati, che per poco o per tanto tempo ne risulterà impegnato, fino all’inevitabile nulla di fatto. Inevitabile peraltro anche la reazione dell’opinione pubblica, per quanto solo parzialmente esatta: dice, ma la Procura di Bergamo non ha nulla di più utile da fare? Certo, basta vedere la quantità di cause che ha in arretrato, come tutte le Procure. Anche il Codacons aveva qualcosa di meglio da fare, ma questo è un altro discorso. Qui interessa rimarcare che questo sistema va riformato, altrimenti la giustizia in Italia non esiste più.
Come se il sistema non fosse già abbastanza delegittimato dalle sue oggettivamente cattive regole di funzionamento, ci si mettono anche le prese di posizione di alcuni personaggi che hanno fatto parte di quel sistema, anche se forse il fatto di essere passati alla politica ha un po’ condizionato certi loro giudizi. Così, Antonio Ingroia, ex pubblico ministero di Palermo poi in aspettativa per (tentato) mandato parlamentare e poi di nuovo reintegrato in servizio (ma, come prevede la legge, nell’unica sede in cui non aveva corso alle elezioni, Aosta), ha delegittimato pubblicamente il Consiglio Superiore della Magistratura, accusandolo senza mezzi termini di aver preso una decisione “politica” per punire la sua “non omologazione”. A cosa? Lo lascia immaginare lui stesso, quando dice che il suo desiderio di seguire le orme del “maestro” Borsellino è stato frustrato ingiustamente, che la sua azione antimafia è stata pesantemente ostacolata e che il suo tentativo di passare nel campo del Potere Legislativo è stato anch’esso mal visto dal CSM e di conseguenza punito.
Antonio Ingroia
Accuse non da poco, come si vede, devastanti come il tritolo usato dalla Mafia qualche anno fa. Nel frattempo, il CSM ha disposto la rimozione del procuratore di Palermo Francesco Messineo, proprio per la sua acquiescenza con lo stesso Ingroia che a detta dello stesso Consiglio ha avuto una ricaduta negativa sull’azione antimafia, impedendo tra l’altro la cattura dell’attuale capo dei capi, quel Matteo Messina Denaro che ha raccolto l’eredità di Bernardo Provenzano. Grandi smentite di Messineo e di Ingroia, l’un contro l’altro armati e tutti e due contro il CSM. Basta così? Nemmeno per sogno, Ingroia continua con la sua azione a tutto campo. Ne ha anche per i giudici che hanno assolto il generale Mori e gli altri carabinieri imputati di essere il braccio dello Stato nella presunta trattativa con la Mafia. “Di imperdonabili sbagli a propria insaputa ne abbiamo visti fin troppi, anche i questi giorni”, ha commentato l’ex PM di Palermo. Dimenticando forse che di quel sistema che eventualmente ha sbagliato ne ha fatto parte lui stesso, fino a pochi mesi fa.
Ma l’attacco più duro al sistema, uno di quelli per cui verrebbe voglia di non credere più a niente, è stato portato recentemente da uno dei mostri sacri del mondo giudiziario italiano. Il giudice Ferdinando Imposimato è una figura di prestigio per chi ha frequentato e frequenta le aule di tribunale, e non solo. Attualmente presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione e addirittura candidato alla Presidenza della Repubblica per il Movimento 5 Stelle, è stato giudice istruttore di alcuni dei più importanti processi della storia d’Italia, tra cui per dirne solo due quello sull’attentato a Papa Giovanni paolo II e quello per l’omicidio di Aldo Moro, prima di darsi alla politica (eletto prima alla camera e poi al senato come indipendente nelle liste del PCI).
Proprio sul delitto Moro, Imposimato ha ritenuto opportuno rompere un silenzio quasi trentennale, svelando alcuni retroscena abbastanza gravi in un suo memoriale di recente pubblicazione e facendo riaprire il relativo fascicolo alla Procura di Roma. In sintesi, con stile pari alla tempestività, ha accusato come mandanti del delitto Moro gli ex compagni di partito Giulio Andreotti e Francesco Cossiga, i quali ebbero un interesse coincidente con quello degli Stati Uniti d’America e di alcuni loro alleati quali la Gran Bretagna, e perfino con l’Unione Sovietica (per motivi speculari a quelli delle potenze rivali).
Ferdinando Imposimato
Sull’opportunità di rivolgere accuse così gravi a due persone scomparse (guarda caso soltanto dopo la dipartita dell’ultimo dei due), ognuno tragga le sue conclusioni, morali e civili. Sull’opportunità di riaprire un fascicolo presso la Procura, crediamo si possano fare le stesse considerazioni fatte per quello aperto a Bergamo contro Calderoli. In questo caso, gli storici possono far risparmiar tempo alla magistratura inquirente, che ha senz’altro di meglio da fare. Ciò che disturba di più, è che a leggere ed ascoltare Imposimato sembra di sentir parlare non il giudice istruttore dei maggiori processi politici del XX secolo, ma piuttosto un polemista politico, che non è dato sapere quando e come è venuto al corrente di verità così importanti, e sulla base di quali riscontri.
Dire la verità, se di verità si tratta, 30 anni dopo non serve a niente, così come non servono a niente questi fascicoli aperti a giro per le varie Procure d'Italia. Servirebbe invece che la verità venisse accertata sul momento, e con criteri più oggettivi e prove più certe di quelli adottati in aula in processi - per esempio - come quello cosiddetto di Ruby, dove il PM Boccassini ha potuto smentire il teste principale sulla base di nient'altro che la propria impressione.
Un atteggiamento che potremmo definire quasi "lombrosiano", se non si corresse il rischio di offendere il grande studioso veronese. Oppure servirebbe capire qualcosa di più su vicende come quella degli Ablyazov, i dissidenti kazaki rimpatriati con il beneplacito della Procura di Roma. Vicende molto più attuali, di sicuro significativa della sorte che potrebbe toccare non solo a Berlusconi o a presunti amici o nemici di Berlusconi, ma anche a chiunque di noi in circostanze analoghe. Vicende per le quali (come per altre) non vorremmo dover aspettare 30 anni prima che qualcuno che già adesso conosce la verità ritenga giunto il momento di dircela.

Non è questa la giustizia di cui i cittadini possono aver fiducia, ora come tra 30 anni nel futuro. Questa giustizia va soltanto riformata, radicalmente. Esserne consapevoli è l’unico modo per commemorare degnamente l’anniversario di domani.

venerdì 25 luglio 2014

In nome del popolo italiano

5 marzo 2013

23 marzo 2013, giornata di varie manifestazioni di protesta contrapposte nelle piazze di Roma. Ognuno per sé eDio contro tutti, si intitolava un vecchio film di Werner Herzog. Tutti contro tutti per i motivi più vari, nessuno dei quali abbastanza forte da accomunare tutti quanti in un unico popolo. Eppure, nella lunga lista del cahier des doléances portata nelle piazze c’era almeno un punto che avrebbe dovuto accomunare gli italiani. Tra i tanti motivi che rendono il nostro paese sempre più invivibile, e ultimamente anche poco dignitoso da abitare, sicuramente quello più clamoroso per una nazione che continua a ritenersi civile e che addirittura in questo campo vantava fondati diritti di primogenitura è la Giustizia.
Amanda Knox
28 aprile 2013, di tutti i ministri del nuovo governo presieduto da Enrico Letta che faticosamente è arrivato a giurare nelle mani del Presidente della Repubblica Napolitano, uno di quelli verso la cui azione c’è maggiore aspettativa è Anna Maria Cancellieri. Il suo Dicastero, la Giustizia, è sotto la luce dei riflettori, accesi su quelle cose che questo governo deve assolutamente fare, o rifare, nel tempo di vita che gli sarà concesso. E a ragione.
Triste a dirsi, ma la patria del diritto non esiste più. Avevamo le Tavole della Legge quando gli altri popoli stabilivano il giusto e l’ingiusto a colpi di clava, adesso per chi deve affrontare la giustizia italiana sembrerebbe valere il verso di Dante “lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”. Per quanto generalizzare sia sempre pericoloso e ingeneroso, è indubbio che a moltissimi cittadini che hanno avuto a che fare con un tribunale è rimasta la sensazione di essere in balia delle onde, completamente impotenti. Una sensazione che finisce per prevalere su tutto il resto.
Di tutte le funzioni pubbliche repubblicane, l’amministrazione della giustizia è oggi quella che presenta la situazione di maggiore difficoltà. Dai grandi casi di cronaca nera a quelli legati alla criminalità organizzata ed al terrorismo, fino ai casi normali che caratterizzano la vita quotidiana, sono veramente tanti gli esempi del disagio dei cittadini di fronte alla giustizia, e inevitabilmente sovrastano i risultati positivi che dal dopoguerra ad oggi l'Italia ha pur potuto vantare in questo campo. Le cause civili e penali durano in media dai tre ai cinque anni, a seconda della capacità di spesa di chi deve sostenerle.
Alberto Stasi
Nessuno lo dice chiaramente, ma la capacità di un cittadino di avere giustizia è direttamente proporzionale alle sue facoltà economiche. Molti rinunciano, perché anche un semplice parere legale è aldilà delle loro possibilità. I poteri forti, pubblici o privati, lo sanno, e dormono sonni tranquilli proprio per questo. Ricorrere contro un datore di lavoro prepotente oppure un prepotente qualsiasi ma dal portafoglio ben fornito è qualcosa da perderci il sonno, per la parcella dell’avvocato prima ancora che per l’incertezza per la sentenza.
La situazione si fa ancor più seria risalendo fino ai cosiddetti onori della cronaca. Dopo 40 anni, del terrorismo sappiamo tutto, chi militava dove e chi ha sparato a chi. Non sappiamo nulla purtroppo dei mandanti, i veri autori della strategia della tensione. Piazza Fontana impunita, quattro processi per stabilire chi volle morto Aldo Moro e non siamo andati oltre Prospero Gallinari, che si è portato i suoi bravi segreti con sé, nella tomba. La strage di Bologna, quella di Ustica, l’Italicus, il Rapido 904, Giorgiana Masi, il G8 di Genova. La manovalanza ormai la conosciamo tutta, del livello superiore non sappiamo niente. Mani Pulite si è dissolta nel nulla. La criminalità organizzata è stata contenuta, i boss sono finiti in galera, al 41bis. Qui per la verità magistrati di grandissimo valore hanno pagato un prezzo di sangue altissimo per fare il loro dovere. Falcone, Borsellino, Livatino, Chinnici, Terranova e altri, hanno reso questo paese migliore a costo della loro vita.
Piazza Fontana
Invece adesso, altri loro colleghi – dispiace dirlo - sembrano disperdere ai quattro venti la loro eredità, perdendosi in polemiche intestine di cui non si capisce il senso. Menzione a parte merita il fenomeno dei magistrati che saltano il fosso, dal potere giudiziario a quello legislativo. La legge 30 marzo 1957 n. 361 all’art. 8 elenca i casi in cui è ammissibile la candidatura al parlamento di magistrati che si pongono in aspettativa a tale scopo. Tuttavia per magistrati che hanno avuto incarichi o condotto indagini di rilievo nazionale la casistica introdotta dalla norma pare perfino troppo permissiva. Un Violante, un Di Pietro, un Ingroia, adesso un Grasso sono persone che hanno avuto accesso a fascicoli contenenti, tra l'altro, vita, morte e miracoli di molti di coloro che sono poi diventati loro colleghi in Parlamento, o avrebbero potuto diventarlo. Francamente, a prescindere dalle singole persone in questione, tra i tanti conflitti di interesse che propone questa Repubblica quello dei magistrati eletti a una delle due Camere non ci pare di poco conto.
Ma è la cronaca nera forse a presentare il bilancio più inquietante. Dal delitto Montesi che negli anni '50 gettò un’ombra sulla classe politica e sull’alta società di un’Italia in procinto di esplodere nel boom economico, all’omicidio di Pasolini, al delitto di Via Poma, a quello di Marta Russo, a quello di Cogne, a quello di Perugia, a quello di Garlasco, i casi in cui il colpevole è stato assicurato alla giustizia senza che rimanesse ombra di dubbio quanti sono? A ben guardare, almeno per i casi più eclatanti, la risposta non è certo consolante.
Certo, a volte il problema sorge prima di varcare la soglia del tribunale. Indagini condotte in un modo che rende quantomeno perplessi condizionano i procedimenti penali in partenza. Altre volte, invece, non si capisce se la magistratura inquirente e quella giudicante facciano a gara a chi commette più errori. Ogni grado di giurisdizione sistematicamente rovescia il giudizio espresso nel precedente. Per non parlare della beffa, intollerabile per la giustizia stessa e per i contribuenti già abbastanza vessati, dei processi che come quello di Perugia vengono dichiarati nulli, da rifare da capo. Tanto paga Pantalone, del resto il risultato del referendum popolare sulla responsabilità civile dei magistrati proposto da radicali e socialisti dopo il clamoroso Caso Tortora fu letteralmente ignorato dal legislatore (in certi casi i poteri dello Stato sono solidali tra loro).
Ebbene, dopo sei anni e tre gradi di giudizio ne sappiamo meno sulla colpevolezza di Amanda Knox e Raffaele Sollecito che sull’identità dei veri autori della strage di Piazza Fontana, il che è tutto dire. C’è da chiedersi se la Knox tornerà a farsi processare in un paese dove la giustizia viene amministrata così. Negli USA nessuno può essere processato due volte per lo stesso reato. Ma soprattutto, nessuno, vittima o presunto colpevole, può essere preso in giro in questo modo.
A proposito di prese in giro, quando succede che il colpevole venga assicurato alla giustizia, intervengono i cosiddetti benefici di legge a rimetterlo in libertà. Autori di efferati delitti come Erika ed Omar, Pietro Maso, per non parlare del mostro dei mostri, quel Mario Alessi capace di uccidere un bambino di soli 18 mesi dopo soltanto mezz’ora che ce l’aveva in mano, vengono dichiarati ammessi a godere dei benefici di legge previsti e consistenti nel permesso di andare a lavorare fuori dal carcere, oppure perfino nella completa scarcerazione per indulto, grazia o altro. Chi di competenza si difende dando la colpa al Codice Penale, che dopo la riforma del 1989 sembra avere introdotto nel nostro ordinamento una manica talmente larga da consentire questi ed altri che sostanzialmente parlando non possiamo definire che abomini.
I cittadini s'interrogano se il potere conferito dalla normativa introdotta dalla Legge Gozzini di giudicare ammissibile ai benefici un detenuto ritenuto non più socialmente pericoloso, anche se a suo tempo reo di delitti anche efferati (con l’unica eccezione – grazie a Dio – dei detenuti sottoposti a regime di 41bis, cioè i condannati per criminalità organizzata) sia esercitato con la dovuta competenza ed obiettività, e sopratutto con il giusto senso del diritto e della pena. Davanti ai benefici concessi ad Alessi è lecito chiedersi di cosa può aver provato (e proverà in eterno) la mamma del piccolo Tommy.

Al padre di Tommy invece una mano misericordiosa ha risparmiato questo ulteriore strazio. O almeno c’è da sperare che sia così.

L’ultimo viaggio della Concordia

24 luglio 2014

«Ce l’abbiamo fatta, è quasi incredibile», esclama uno dei tanti tecnici sbarcati a terra per l’ultima volta al Giglio dalla Concordia. Sono le 11:00 della mattina del 23 luglio quando la nave dell’inchino salpa per il suo ultimo viaggio. L’aveva detto Franco Gabrielli, direttore della Protezione Civile italiana, «neanche un meteorite può fermarci». Contro una simile determinazione, anche la natura si è arresa, regalando qualche giorno di tregua in una delle estati più funestate dal maltempo che si ricordino a memoria d’uomo.
Sull’isola che all’improvviso ritrova di colpo il suo naturale landscape, regnano una commozione, un groviglio di sentimenti che riassumono sinteticamente tutta questa vicenda. Le parole delle conferenze stampa, che come le onde del mare si accavallano senza posa, servono meno delle espressioni dei volti dei presenti, addetti ai lavori e semplici spettatori. Su di essi si legge di tutto, dall’inevitabile e giusto raccoglimento per le vittime (di cui una, il cameriere Russell Rebello, manca tuttora all’appello), al ricordo della sciagura causata da un qualcosa su cui indagano e indagheranno chissà ancora per quanto le Autorità inquirenti (ma che si può sicuramente rubricare – senza tema di offendere nessuno – come faciloneria umana, resta da stabilire semmai in capo a quanti, dal singolo ai più), all’orgoglio per un’impresa che fino ad ora si credeva possibile soltanto nei film di James Cameron o di Wolfgang Petersen, fino allo stato d’animo contrastante di chi abita su questo lembo di terra in mezzo al mar Tirreno.
L’isola infatti sta tornando quella che è sempre stata dall’alba dei tempi e dalla comparsa della razza umana sulle sue coste fino a Schettino. C’è compiacimento nel vedere il mostro che lascia le sue coste per sempre, ma – inutile negarlo – c’è anche la consapevolezza che se ne sta andando un formidabile polo di attrazione turistica. Diceva un operatore del luogo giorni addietro: «Pare brutto da dire se si pensa a quante vittime ci sono là sotto, ma questa nave ha portato anche soldi».
E’ una vicenda controversa, una delle storie di mare che sarebbe piaciuta tanto a Joseph Conrad. Una storia di vigliaccheria e di riscatto umano. Di grandi capacità tecniche e di contraddittorie attitudini al comando, a tutti i livelli. Dal disaster manager Nick Sloane all’ultimo dei tecnici messi in campo dalla Costa Crociere per il recupero del relitto di questo Poseidon in salsa nostrana, tutti possono vantarsi giustamente di aver realizzato un qualcosa che resterà nella storia. Dopo due anni e mezzo di mortificazione, la compagnia di navigazione ligure torna a rialzare la testa, pur trattenendo il respiro per tutto il tempo che durerà la problematica traversata della Concordia dall’Arcipelago Toscano al porto di Genova, alla fine prescelto per la tumulazione del mostro marino.
Sono ore di giustificata euforia e di malcelata apprensione, quindi. C’è ancora qualcosa che può andare storto, che può turbare l’happy ending malgrado tutto riscritto per questa tragedia del mare ormai vecchia di due anni e passa. Ma se si spostano i riflettori dal livello tecnico a quello di governo, le cose cambiano. E’ una vicenda questa in cui, nei vari livelli della pubblica amministrazione, molti hanno rincorso il Comandante Schettino. Tanto che viene da chiedersi chi c’è a bordo in questo momento sulla plancia di comando e perché.
Qualcuno dovrebbe infatti spiegare il senso dei 130 milioni di euro concessi dal governo italiano un anno fa al porto di Piombino per una ristrutturazione che – a meno di non avere in previsione nei prossimi anni tutta una serie di disastri navali in successione – aveva l’unica ragion d’essere nel dare estremo riposo alla nave ferita a morte e naufragata – tra l’altro – a poca distanza dallo scalo toscano.
Su questa scelta strategica implicita negli atti del governo Letta in carica al momento della concessione dell’ingente finanziamento, il governatore della Toscana Enrico Rossi aveva scommesso il futuro della popolazione piombinese, oltre che il proprio personale. La cittadina marittima ha visto stilare di recente il certificato di morte della Lucchini, l’acciaieria che per generazioni aveva dato lavoro direttamente o con l’indotto a buona parte della gente del posto e per la quale la nuova proprietà russa ha deciso da tempo la dislocazione. La ristrutturazione del porto, finalizzata allo stoccaggio della Concordia, prometteva posti di lavoro ai piombinesi e voti al governatore. Che adesso probabilmente svaniranno nel nulla, in entrambi i casi.
L’attuale governo nazionale, a guida di Matteo Renzi, non ha grande sintonia con quello della regione d’origine del Presidente del Consiglio, non è una novità. Non c’è da meravigliarsi allora se quando Franco Gabrielli ha comunicato il proprio avallo – a prova di meteorite – alla decisione abbastanza sorprendente di spostare la nave verso la più lontana Genova ed in piena stagione balneare nessuno a Roma ha battuto ciglio o mosso un dito. Il governo romano ha lasciato che quello fiorentino andasse incontro al proprio destino, incassando l’ultima di una serie di sconfitte.
Maggior vitalità ha sicuramente dimostrato il governo francese, che per bocca del ministro dell’ambiente Ségolène Royal non ha mancato di esprimere vive preoccupazioni circa la possibilità che dal fianco squarciato della nave in lenta risalita del Tirreno (in questo momento sta passando al largo delle coste della Corsica) fuoriescano tutta una serie di inquinanti che finora erano rimasti gelosamente custoditi al suo interno. Dice la Protezione Civile che non c’è nulla da temere al riguardo, le acque nella scia della Concordia sono pulite. Le migliaia di persone in questo momento malgrado la stagione a bagno nelle acque delle coste toscane non possono far altro che crederci.

E allora non resta che seguire mediaticamente questo trasporto funebre via mare, combattuti in modo analogo a chi era al Giglio ieri mattina tra orgoglio, entusiasmo, preoccupazione e tristezza. Il Poseidon è stato raddrizzato, il Titanic è stato recuperato. Sabato sapremo se il lieto fine è assicurato, al più tardi domenica con l’entrata nel Porto di Genova e l’ultima salva di sirene. Restano nell’ordine 32 vittime, un processo che durerà verosimilmente quanto durano i processi in Italia, e 130 milioni di soldi pubblici. Che hanno fatto la fine che fanno i soldi pubblici in Italia.

Una concordia di breve durata?

18 settembre 2013

«Questa dimostrazione di capacità tecnica e organizzativa che stiamo offrendo alla pubblica opinione mondiale riscatta l’immagine di un’Italia approssimativa e cialtrona e mi inorgoglisce profondamente». Con queste parole Gregorio De Falco, comandante della Capitaneria di Porto di Livorno, ha riassunto ieri il sentimento di una nazione intera nelle fasi cruciali del recupero della Costa Concordia dal rovinoso (anche per l’immagine del nostro stesso paese) naufragio di 20 mesi fa.
Ce lo siamo sempre detti, noi italiani tiriamo fuori il meglio di noi stessi soltanto nei momenti in cui ci ritroviamo con le spalle al muro, quando il resto del mondo scuote la testa con disprezzo assistendo alle situazioni incresciose in cui andiamo a metterci con le nostre stesse mani. Proprio allora arriva puntuale lo scatto d’orgoglio, il colpo di reni che ci riporta a testa alta, a sollevare la Coppa del Mondo o comunque a recuperare un’immagine che sembrava irrimediabilmente compromessa.
Nelle stesse ore dell’impresa della Concordia, il commissario europeo Olli Rehn, che si trova nel nostro paese per una audizione parlamentare, ha commentato l’attuale situazione politica ed economica italiana con parole che pur scatenando le immediate e prevedibili reazioni di un mondo politico sempre pronto a riscoprire l’orgoglio nazionale solo quando coincide con il suo interesse di parte hanno fotografato l’immagine dell’Italia altrettanto bene delle parole del Comandante De Falco. «L’Italia è come la Ferrari per stile e capacità, ma ora le occorre un motore più competitivo, inutile perdere tempo ai pit stop».
Già, il cittadino italiano che ieri si è inorgoglito per il lavoro dei suoi tecnici e delle sue imprese nel recupero del Titanic dei nostri tempi, che aveva smadonnato non poco la domenica precedente per l’ennesima figuraccia della Scuderia del Cavallino Rampante (attardata dal cattivo sviluppo di una macchina non all’altezza del pilota fuoriclasse che la guida, nonché da una strategia fatta di piccolezze, meschinità da automobilisti della domenica che cercano furbescamente di passare prima degli altri al casello autostradale), è lo stesso che osserva attonito l’evoluzione, o per meglio dire l’involuzione di questa XVI legislatura e della crisi politica ed economica che essa non prova neanche a gestire, meno che mai a risolvere. E’ lo stesso anche che puntualmente ad ogni consultazione elettorale manda a Montecitorio e Palazzo Madama una classe politica tra le più neglette della storia mondiale, salvo poi lamentarsene.
Enrico Letta e Giorgio Napolitano
Ogni popolo ha il governo che si merita, diceva un vecchio adagio. La Ferrari ha gli ingegneri che si è scelta, così come l’Italia ha la classe politica che ha votato liberamente. Il paese che lunedi ha tradotto nella realtà in mondovisione un kolossal tra i più spettacolari di sempre è lo stesso che non riesce ad organizzare un minimo di gestione della cosa pubblica che si discosti dal ridicolo. «Se il ridicolo uccidesse, in Italia ci sarebbe una strage», diceva Indro Montanelli. E’ questo che ci meritiamo, l’eterna dicotomia tra l’altare e la polvere, tra le stelle e le stalle, tra il ridicolo e l’orgoglio, tra Francesco Schettino, comandante che abbandona la nave e i suoi passeggeri, e Manrico Giampedroni, ufficiale di bordo che rischia di rimanere intrappolato nel relitto con una gamba rotta perché anziché fuggire come il suo comandante scende una volta di più nella stiva a controllare che non ci siano rimasti passeggeri?
Olli Rehn è finlandese, viene da una realtà in cui lo stato sociale è da tempo un valore acquisito e consolidato, al pari della corretta gestione di bilancio. Che ci paragoni ad una Ferrari è già tanto, i nordici solitamente non ci amano, troppo distante il Belpaese con il suo casino esistenziale dalla Scandinavia Felix con il suo rigore protestante. Le sue parole peraltro misurate hanno già scatenato un putiferio, dal PDL al Movimento Cinque Stelle l’uscita del caporale di giornata Rehn è stata stigmatizzata come l’ennesima ingerenza europea nei nostri affari interni. Come se l’entrata in Europa, in questa Europa ingessata da Maastricht e da Schengen non fosse stata decisa liberamente da un governo altrettanto liberamente eletto dagli italiani. Quello di Romano Prodi e dell’Ulivo, per chi non lo ricordasse.
Oli Rehn
Queste sono le estreme conseguenze, fino all’essere diventati il lebensraum della Germania di Angela Merkel e a subire gli ultimatum sui conti in pareggio di qualunque commissario UE che si trovi a passare di qui, come gli scapaccioni che prendevamo da piccoli ad ogni pié sospinto da genitori meno comprensivi di quelli di adesso. Mal voluto non è mai troppo, recitava un altro adagio. Mal voluto e reiterato, verrebbe da aggiungere. Il governo Letta prende la palla lanciata da Rehn al balzo per ventilare l’aumento dell’IVA al 22% a coprire il mancato introito dell’IMU da esso stesso deliberato. Delle promesse elettorali fatte da dieci e passa liste non si ricorda più nessuno. Il PDL si preoccupa di salvare il suo leader, in sede di trattativa finale accetterebbe qualsiasi cosa. Il PD si preoccupa di sostituire lo smacchiatore di giaguari con il sindaco “asfaltatore”, Letta faccia pure quello che crede nel frattempo, compreso lasciarsi sfuggire in un lapsus freudiano che l’attuale sistema si regge soltanto su lui stesso e Re Giorgio del Quirinale. Il Movimento Cinque Stelle sembra Beppe Grillo dopo essere stato buttato fuori dalla Rai: sparito.
E’ un sistema-paese che da vent’anni si regge solo sul pro o contro Berlusconi. Anche adesso, nella sua crisi probabilmente finale (del sistema-paese, non di Berlusconi), con migliaia di profughi che si riversano ogni giorno sulle sue coste e sulla sua economia da raschio del fondo del barile, l’Italia si ferma per votare l’ineleggibilità di un leader politico che viene eletto da vent’anni al Parlamento a larghissimo consenso. La sensazione è che a questa Italia – come alla Ferrari – serva ben più di un motore, bisogna rifare tutto, dalla catena di montaggio dei singoli pezzi fino all’amministratore delegato. Fino alla proprietà stessa, che nel caso del paese coincide con il popolo.

Centocinquantadue anni dopo l’Unità d’Italia, gli italiani restano ancora da fare, per dirla con la buonanima del Conte di Cavour. Godiamoci il successo della Concordia, e l’orgoglio che giustamente ci ha provocato. Giorni così, da queste parti, è destino forse che se ne vedano pochi. 

Impresa storica, la Costa Concordia recuperata in mondovisione

17 settembre 2013

ISOLA DEL GIGLIO (Grosseto) - Sono le 4 di notte del 17 settembre 2013 quando il capo della Protezione Civile italiana Franco Gabrielli può dare l’annuncio: il giorno che abbiamo sognato tante volte al cinema e mai avevamo realmente pensato che avremmo visto arrivare è questo, e rimarrà nella storia. Il Titanic è stato recuperato veramente, il Poseidon è stato raddrizzato, l’impresa che nessuno aveva mai osato tentare è stata compiuta, in mondovisione.
La Costa Concordia, la nave da crociera naufragata sugli scogli dell’isola del Giglio la notte del 13 gennaio 2012 a seguito del presunto inchino del Comandante Schettino e rimasta per 20 mesi pericolosamente adagiata su un fianco incastrata su quegli stessi scogli, è stata finalmente raddrizzata stanotte, grazie a una immane operazione cosiddetta di parbuckling, la rotazione in assetto verticale per mezzo di cavi d’acciaio ed il successivo zavorramento della fiancata squarciata dall’impatto per mezzo di appositi cassoni di galleggiamento.
L’operazione è stata condotta a termine dal consorzio italo-americano Titan-Micoperi, costituito appositamente per l’occasione e nell’ambito del quale hanno lavorato le maggiori imprese italiane del settore dell’ingegneria navale e dell’indotto, da Fincantieri, a Cimolai, Rosetti, Gas & Heat, Trevi, Fagioli, Nuova Olmec. Il Comandante Gregorio De Falco, che la notte del 13 gennaio 2012 coordinava i soccorsi alla Capitaneria di Porto di Livorno e che stanotte ha seguito sempre alla Capitaneria l’operazione di salvataggio della Concordia, ha potuto sottolineare con soddisfazione e orgoglio il grande recupero di immagine del nostro paese di fronte all’opinione pubblica mondiale ed il fatto che “le energie degli attori in gioco pubblici e privati, quando si integrano, danno i risultati sperati”.
Il Consorzio, incaricato da Costa Crociere e da questa coordinato sotto la supervisione della Protezione Civile nazionale e della Regione Toscana, ha messo a punto infatti un progetto che non aveva precedenti, trattandosi di recuperare dal mare uno scafo di 114mila tonnellate di stazza e 298 metri di lunghezza (20 metri in più del leggendario Titanic), adagiato su un fianco da quasi due anni a subire l’azione corrosiva delle acque marine e nel frattempo incagliatosi sempre più a fondo nella scogliera contro la quale aveva terminato la sua corsa. La scogliera tuttavia ha agito positivamente, impedendo per tutto questo tempo lo scivolamento del relitto alla profondità di 150 metri che si rileva a breve distanza.
Il progetto, come ha spiegato il responsabile dell’operazione per la Costa Franco Porcellacchia, “non ha potuto privilegiare il prezzo più basso, ma esclusivamente i tempi di realizzazione”, finendo per costare circa 600 milioni di euro, interamente a carico della Compagnia. La nave necessitava di essere recuperata dal mare al più presto, in quanto gli studi più recenti dimostravano che la sua permanenza nella posizione del naufragio per un altro inverno ne avrebbe compromesso irrimediabilmente la resistenza strutturale, pregiudicando in futuro qualsiasi operazione di recupero e causando probabilmente un danno ambientale incalcolabile, con sversamento in mare di materiale e sostanze tossiche fino ad ora rimaste all’interno dello scafo.
Il rischio di sversamento, che aveva sconsigliato tra l’altro in fase di progettazione la demolizione in loco del relitto proprio per evitare un inquinamento massivo delle acque del Tirreno, è tutt’ora ipoteticamente presente anche ad operazione ultimata, anche se la responsabile dell’Osservatorio Ambientale sulla Costa Concordia della Regione Toscana Dott.ssa Maria Sargentini ha garantito che le operazioni si sono svolte nel massimo rispetto delle salvaguardie ambientali ed ha escluso la possibilità di verificarsi di danni significativi in tal senso.
L’operazione di parbuckling ha richiesto complessivamente 20 ore, da quando il salvage manager della Titan Micoperi Nick Sloane ed i suoi tecnici hanno preso possesso della control room allestita appositamente in mare a poca distanza dal relitto (aperta con qualche ora di ritardo rispetto al previsto a causa delle avverse condizioni atmosferiche nella notte tra domenica e lunedi) a quando il recupero è stato dichiarato concluso da
Protezione Civile e Costa Crociere.
Le immagini della nave riportata in assetto sono suggestive ed agghiaccianti nello stesso tempo. Alla gioia per la conclusione dell’operazione senza precedenti e perfettamente riuscita – sottolineata dalle sirene suonate dalle imbarcazioni presente e dagli abbracci e dalle lacrime di addetti ai lavori e uomini delle istituzioni – fa da contraltare l’angoscia della rievocazione della tragedia inevitabilmente generata dalla vista della fiancata devastata e mangiata dalla salsedine della Concordia, insieme alla constatazione che i corpi delle ultime 2 delle 32 vittime del naufragio restano tuttora dispersi.
La nave da crociera verrà adesso messa in sicurezza da piattaforme costruite allo scopo e sistemate sotto la sua stiva al fine di permetterne il galleggiamento fino a che non sarà in condizione di essere trasportata alla sua ultima destinazione, il porto in cui verrà definitivamente smantellata. Questa località è stata ad oggi identificata nel porto di Piombino, il più vicino al luogo del naufragio, che verrà ristrutturato ed attrezzato allo scopo con un ingente stanziamento di fondi, circa 130 milioni di euro, messo a disposizione dalla pubblica amministrazione nazionale e locale, anche se qualcuno avanza ancora dubbi circa l’effettiva possibilità e convenienza di questa ulteriore operazione, per la quale il presidente della Regione Toscana è stato nominato
Commissario straordinario. E’ delle ultime ore la candidatura di Napoli (dopo quella di Palermo già scartata), la cui eventualità però al momento viene smentita dalla Protezione Civile, che per bocca del suo responsabile Gabrielli ha confermato – salvo buon fine – la location di Piombino.
Quello che è certo è che la Costa Concordia rimarrà al largo dell’Isola contro la cui scogliera ha avuto termine  la sua ultima crociera fino all’estate del 2014, quando dovrebbe essere stata rimessa in condizione di navigare e nello stesso tempo il porto di Piombino dovrebbe essere in grado di accoglierla per darle l’estremo riposo.

Lance Armstrong si arrende all'anti-doping

24 agosto 2012

Lance Armstrong si è arreso. Come già Geronimo prima di lui, dopo una lunga resistenza ha deciso di consegnarsi alle giacche blu, nella fattispecie la United States Anti-Doping Agency (U.S.A.D.A.), che da dieci anni circa lo accusa di essersi dopato sistematicamente per ottenere i suoi successi leggendari, tra i quali sette vittorie al Tour de France a partire dal 1999 e una medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Sidney 2000, e di essere stato addirittura uno dei leaders del sistema americano del doping a fini sportivi, al pari di Marion Jones, l’atleta trovata positiva dopo le stesse olimpiadi australiane e che fu squalificata nel 2007 e obbligata a restituire tutti i titoli e i premi in denaro ottenuti in carriera.
Questo sembra essere il destino anche del corridore texano, che ha rinunciato a opporre qualsiasi azione legale ai procedimenti messi in atto contro di lui dalla U.S.A.D.A, «Arriva un momento nella vita di ogni uomo in cui si deve dire: quando è troppo, è troppo. Per me questo momento è ora. Negli ultimi tre anni sono stato soggetto di due indagini penali federali in seguito alla caccia alle streghe di Travis Tygart». E ancora: «Io so chi ha vinto quei sette Tour. Nessuno può cambiarlo, neanche Travis Tygart».
Travis Tygart, presidente dell’U.S.A.D.A. chiamato in causa da Armstrong che lo ha esplicitamente accusato di persecuzione e di aver messo in piedi procedimenti scorretti e di parte, ha dichiarato dal canto suo: «E' un giorno triste per tutti quelli che amano lo sport. Questo è un esempio che spezza il cuore di come la cultura dello sport del vincere a tutti i costi, se non controllata, supera la giusta, sicura e onesta competizione».
Armstrong, che dice di volersi dedicare d’ora in avanti alla famiglia e alla sua Fondazione contro il Cancro (di cui egli stesso è stato vittima prima di cominciare la serie delle sue passeggiate trionfali sugli Champs Elysées), ha sempre contestato alla U.S.A.D.A .di non essere mai stato trovato positivo ai test anti-doping, ma di essere sempre stato accusato sulla base di prove indirette o testimonianze di colleghi. Tra i quali, per altro, sono spesso corse voci sia di comportamenti illeciti del texano, sia di sue minacce a corridori apparentemente disposti a riferire degli stessi alle autorità sportive.
Tra tutti gli episodi noti, è rimasto famoso ed eclatante lo scontro avvenuto tra Armstrong ed il suo ex-amico e compagno di stanza Tyler Hamilton, in procinto di testimoniare contro di lui. Armstrong minacciò Hamilton apertamente in un ristorante di Aspen, Colorado, di "distruggerlo e di rendere la sua vita un inferno", qualora non avesse rinunciato a testimoniare.
Adesso cala il sipario su una delle vicende sportive più affascinanti e controverse degli ultimi decenni. La statura di Armstrong, nel ciclismo moderno, è pari a quella che potrebbe avere nell’Atletica un Usain Bolt, o nel Basket un Michael Jordan, per fare degli esempi. C’è molta attesa per i provvedimenti che saranno adottati nei suoi confronti, con molta probabilità la revoca di tutti i titoli e i premi vinti e la radiazione perpetua da qualsiasi attività sportiva professionistica.

E non si può fare a meno di ricordare che quel 1999 che vide la sua prima vittoria a Parigi e l’inizio della sua favola sportiva di eroe buono che ha sconfitto prima il male e poi gli avversari fu lo stesso anno in cui era stato appena fermato Marco Pantani al Giro d’Italia per valori ematici fuori regola. La giustizia, anche quella sportiva, a volte segue percorsi tutti suoi.

Dieci anni senza il Pirata: i giorni della disperazione

L'estate del 1998 coincise con il momento più felice, ancorché conquistato a caro prezzo, della vita di Marco Pantani. Al Giro del 1999 era talmente favorito che nemmeno la proverbiale sfortuna, sotto forma di un salto di catena a Oropa a pochi chilometri dall'arrivo, sembrava poterci fare nulla. Sembrava, appunto.
A Madonna di Campiglio, il 4 giugno, vinse la terzultima tappa portando il distacco su Savoldelli, il secondo in classifica, a quasi sei minuti. Il giorno dopo c'era il Mortirolo, per chi sa un po' di ciclismo notoriamente il paradiso e l'apoteosi degli scalatori. Quasi una passeggiata per Marco, un inferno per gli altri. Il giorno dopo ancora, c'era la passerella a Milano e un nuovo capitolo da aggiungere alla sua leggenda.
Alle 10,00 circa, il destino colpì Marco alle gambe peggio di qualunque fuoristrada o gatto randagio. La Direzione Corsa lo squalificò sulla base dei risultati del controllo sul sangue effettuati dai medici dell'UCI: il valore del suo ematocrito, il tasso di concentrazione dei globuli rossi, era superiore dell'1% a quello consentito, 51%. Con 52%, Pantani fu disarcionato dalla bici e costretto a fermarsi. La Federazione non lo sapeva, ma aveva appena fermato la sua stessa vita. A nulla valsero le proteste di tifosi e anche compagni, Savoldelli si rifiutò di indossare la maglia rosa rischiando la squalifica. La Mercatone Uno, la squadra del Pirata, si ritirò in blocco dal Giro. Niente da fare, Pantani fu lasciato fuori, il Giro lo vinse un altro di cui non si ricorda nessuno. E il peggio doveva ancora venire.
Marco non era risultato positivo al doping, aveva assunto sostanze che agivano sull'ematocrito in violazione di una norma introdotta da poco con la buona intenzione di tutelare la salute dei ciclisti. Tuttavia nessuno percepiva questa violazione come qualcosa di grave, o di veramente influente sui suoi risultati. Il Pirata in salita volava perché era il Pirata. Perché le sue gambe schiantavano tutto e tutti, strada e fatica comprese. La sua forza era nel fisico e nel carattere. Proprio in quest'ultimo, però, accusò il colpo più duramente. «Mi sono rialzato, dopo tanti infortuni, e sono tornato a correre.
Questa volta, però, abbiamo toccato il fondo. Rialzarsi sarà per me molto difficile», dichiarò. La squalifica comminatagli, 15 giorni, gli avrebbe consentito di andare al Tour, ma lui non se la sentì e si chiuse in casa, per sfuggire alla pressione dei media scatenati ed al nuovo insidioso avversario che gli si era improvvisamente affiancato: la depressione.
Cominciavano a girare voci (mai provate e non si sa quanto interessate) circa un coinvolgimento del Pirata nel doping vero e proprio. Persino la sua fidanzata, la danese Christine Janssen lo abbandonò, finendo per dichiarare a un giornale svizzero che l'ex fidanzato faceva uso regolare di sostanze dopanti. Per quanto sia risultato in seguito evidente che il doping nel ciclismo fosse pratica comune, entro certi limiti, le accuse evidentemente erano una macchia troppo infamante per un animo come il suo.
Ce n'era di che abbattere un toro. Marco Pantani non si riprese più. Sebbene nei quattro anni successivi tentasse a più riprese di riannodare il filo della sua carriera, incrociando anche la strada di quel Lance Armstrong che stava approfittando della sua sostanziale uscita di scena per dare inizio a quella che sarebbe stata la sua fasulla epopea, Marco ritornò se stesso solo per brevi istanti. Come il giorno che batté proprio Armstrong a Mont Ventoux (e quest'ultimo, per non smentire il suo animo da sempre avvelenato, non trovò di meglio che dichiarare che aveva lasciato graziosamente la vittoria a Marco per ridargli morale, ottenendo invece di farlo arrabbiare). L'americano, che lo aveva definito uno dei più grandi scalatori di tutti i tempi, probabilmente temeva più di ogni altro un ritorno di Marco. Tanto quanto lo desideravano i tifosi.
Nel 2003 Marco decise finalmente di affrontare la sua depressione ricorrendo all'aiuto di medici specialisti. Ma era troppo tardi, il malessere aveva scavato troppo dentro di lui. In una lettera del dicembre di quell'anno, Marco Pantani consegnò ai suoi tifosi, all'opinione pubblica i suoi sentimenti più riposti, le ferite di un animo straziato che non trovava più pace. «Ho solo perso la mia voglia di essere come tanti sportivi (...) che le regole ci siano, ma siano uguali per tutti (....) ma andate a vedere cosa è un ciclista (....) mi sento ferito e tutti i ragazzi che mi credevano devono parlare».
I ragazzi credevano in lui. Ci credono ancora, se è per quello. Ma lui non sentiva più quel calore che gli dava la gente lungo la strada, aspettando il suo passaggio e sperando di vedergli compiere il mitico gesto, quel gettare via il berretto che segnava l'avvio della sua proverbiale irresistibile fuga. Adesso era la vita che gli sfuggiva. Lui che forse non si era mai dopato per correre, o almeno non più di tanti altri campioni conclamati e sicuramente molto meno di quanto sarebbe emerso in seguito per Armstrong o altre primedonne, adesso doveva doparsi per vivere.
Il monumento a Marco Pantani
Quando lo trovarono nella stanza dell'albergo di Rimini in cui si era recluso per l'ultima volta nel giorno di San Valentino del 2004, nel suo sangue c'erano ovviamente le tracce dell'overdose di cocaina che lo aveva ucciso, causandogli un edema polmonare e cerebrale. L'autopsia in compenso consentì di escludere che nella sua carriera avesse fatto ricorso frequente ed in quantità all'Epo, la sostanza che aumentava il tasso di concentrazione dei globuli rossi nel sangue. Le sue vittorie erano state tutte vere. Ma questo la gente lo sapeva già. Certe cose si avvertono a pelle, basta guardare negli occhi un campione che passa stravolto dalla fatica.

Negli occhi di Marco c'era la voglia di vincere, di rivincita di un talentuoso e sfortunato ragazzo di Romagna. In quelli di Armstrong, per smascherare il quale ci sono voluti più di dieci anni di battaglie legali, a ben vedere si leggeva da subito il freddo come l'acciaio di un business man disposto a tutto e consapevole delle connivenze di cui poteva approfittare. Non c'era bisogno di analisi mediche e di pronunciamenti di federazioni varie per capire che abbiamo rivisto per un'ultima volta il grande Ciclismo con Marco Pantani detto il Pirata. E quel mondo è finito per sempre il 14 febbraio 2004.

Dieci anni senza il Pirata: i giorni della gloria

San Valentino è in tutto il mondo il giorno in cui gli innamorati festeggiano se stessi. Meno che a Cesenatico. Per gli abitanti della cittadina romagnola, da dieci anni a questa parte è la ricorrenza del giorno in cui se ne andò il loro compaesano più illustre. Marco Pantani detto il Pirata, l'uomo che aveva rinnovato (per l'ultima volta) la leggenda di un ciclismo epico di cui solo i più vecchi avevano ormai memoria.
Lo sport delle due ruote era stato soprattutto Fausto Coppi e Gino Bartali, due campionissimi italiani, due mostri sacri che avevano fatto del ciclismo del dopoguerra un derby tutto tricolore. Dopo di loro, tanti campioni, a cominciare da Felice Gimondi fino a Francesco Moser e Giuseppe Saronni e Mario Cipollini. Ma nessuno capace di rinverdire veramente quei fasti dei nostri due italiani "uomini soli al comando". Nessuno, a parte lui.
Era un ragazzo di Romagna come tanti, Marco Pantani. Tutti innamorati delle due e delle quattro ruote, in genere. Tutti a sognare una Ferrari o una Ducati, tutti con il mito della velocità nel sangue. Nel DNA. Il successo d'esordio del fuoriclasse della canzone Gianni Morandi, nato nella vicina Emilia, era stato Andavo a 100 all'ora, guarda caso. Anche Marco sognava la libertà e inseguiva le leggende che attraversavano in lungo e in largo la sua terra su una due ruote. Ma di quelle spinte dalle gambe di un uomo sui pedali, non da un motore.
Era nato nel 1970, vent'anni dopo esatti era già sul podio del Giro d'Italia dilettanti, che vinse altri due anni dopo nel 1992. Sembrava l'inizio di una grande carriera. Marco era uno scalatore impressionante, di quelli che arrivano in fondo alle corse a tappe, e si lasciano dietro gli altri a distacchi abissali. Questo fu subito chiaro fin dall'esordio, come fu chiaro anche che però la fortuna era l'unica a correre più veloce di lui.
Nel 1994 esplose, classificandosi secondo al Giro e terzo al Tour de France. Il mondo si accorse di questo ragazzo dall'aspetto antico, dal volto già segnato da una fatica immensa che lui sfidava e batteva tutti i giorni, dalla testa glabra che proteggeva dai raggi del sole con quella che sarebbe diventata la sua fedele compagna di tante fughe in salita: la bandana che gli avrebbe valso il suo Marco Pantani (in maglia rosa) soprannome più bello. Il Pirata.
Il 1995 doveva essere il suo anno, ma un'auto si mise di traverso ai suoi sogni e gli ridusse un ginocchio così male da costringerlo a saltare il Giro e ad accontentarsi di un 13° posto al Tour, impreziosito comunque da una clamorosa vittoria sulla mitica Alpe d'Huez. Erano gli anni di Miguel Indurain, il fuoriclasse spagnolo che cannibalizzava le corse a tappe. Ma sulle salite che contavano, a Marco non gli stava dietro e doveva accontentarsi di limitare i danni. Nel campionato del mondo di quell'anno, in Colombia, riuscì a stargli davanti di poco, lui argento e Marco bronzo (vittoria all'altro spagnolo Olano).
Era il momento di pensare al 1996 e alla riscossa, ma le macchine sembravano avercela con Pantani. Un fuoristrada che viaggiava in senso contrario durante la Milano-Torino (in Italia succedevano e succedono anche queste cose) gli procurò una frattura a tibia e perone talmente gravi da mettere a rischio la sua carriera agonistica. Salvò gamba e carriera, dedicando il resto del '96 a riprendersi dall'infortunio e a ritrovare la condizione.
Nel 1997 al Giro fu fermato non da un mezzo meccanico, ma da un animale, un gatto che gli attraversò la strada durante una tappa di trasferimento. Nella caduta si lacerò le fibre muscolari della coscia sinistra. Nuovo stop, nuovo sconforto ("avrei voluto essere battuto dagli avversari, invece ancora una volta mi ha sconfitto la sfortuna") e nuova reazione. Al Tour di quell'anno era di nuovo in sella, Indurain non c'era più, c'erano Ulrich e Virenque che per stargli davanti dovettero sputare sangue e ringraziare l'ultima tappa a cronometro. Sull'Alpe d'Huez e a Morzine, Marco aveva attaccato e fatto loro molto male. Poi a cronometro non ce l'aveva fatta.
Era mancata una volta di più la fortuna, non il valore. Ma la gente sa riconoscere gli eroi, che vincano o no. Marco era diventato il beniamino di quanti, appassionati di ciclismo o meno, erano in cerca di un campione vero, di un personaggio vero, di uno capace di rinverdire la leggenda in bianco e nero di Coppi e Bartali, questa volta a colori, con risalto particolare per il rosa e il giallo. Come già il Moro di Venezia aveva attirato alla Vela anche spettatori che non avevano mai visto una barca, o la generazione di fenomeni di Julio Velasco aveva riconquistato al Volley milioni di italiani che se ne erano distaccati dai tempi della scuola, così Marco Pantani il Pirata, il Pantadattilo, come anche veniva chiamato per sottolineare quel suo aspetto "antico", riconquistò al ciclismo una generazione che non lo annoverava più tra gli sport di massa, commosse i più vecchi che dopo Fausto e Gino non speravano più di riprovare certi brividi. E dette materia a quei giornalisti che avevano ancora voglia di scrivere poemi epici intitolati allo sport, come Gianni Mura e Candido Cannavò.

A quel tempo, Cesenatico era una delle capitali dell'Italia sportiva. Il Chiosco di Mamma Tonina, con le sue piadine entrate nella leggenda, era metà di pellegrinaggio come la Mecca per i musulmani. Era lì che si concentrava la movida romagnola, era lì che si respirava l'atmosfera dei grandi eventi sportivi. Che si faceva la storia. Quando l'anno dopo il Pirata ci entrò finalmente dentro a quella benedetta storia, vincendo consecutivamente Giro e Tour ed andando a raggiungere i suoi illustri predecessori Fausto e Gino e gli altri pochi capaci di una simile impresa nella stessa stagione, sotto casa sua si radunò talmente tanta gente che lui si impaurì, temperamento sensibile com'era, e scappò saltando sulla sua Harley Davidson, il casco sopra la bandana nera e via dalla pazza folla.

25 luglio 1943

Mancavano pochi giorni al suo sessantesimo compleanno, settantuno anni fa quella notte in cui entrò da Duce delle Camice Nere nell’ultima storica seduta del Gran Consiglio del Fascismo e ne uscì come un presidente del consiglio qualunque, per di più dimissionario.
Luglio era un mese fatidico nella vita di Benito Mussolini. Quando era nato, il 29 luglio 1883 sotto il solleone a Dovia frazione di Predappio, il padre Alessandro, di professione fabbro ferraio e di fede anarchica, gli mise il nome del più leggendario rivoluzionario dell’epoca, quel Benito Juarez che aveva guidato una delle tante rivolte messicane, forse una delle più famose, quella contro Massimiliano d’Asburgo. Senza saperlo, segnò il destino di quel figlio dal carattere irrequieto, irruento, indisciplinato e anche violento. Quando dopo l’assassinio di re Umberto I a Monza da parte dell’anarchico Gaetano Bresci fu eretto un monumento al sovrano nel parco reale in cui aveva trovato la fine, pare che la mano che andò a scrivere sul basamento le parole “monumento a Bresci” fosse la sua. E aveva solo 17 anni.
Aveva trovato un mestiere poco congeniale alla sua indole ed alle sue idee, il giovane Mussolini. Fare il maestro di scuola gli si addiceva poco. Molto più congeniale fare l’agitatore sovversivo, nelle file di quel partito socialista che stava inesorabilmente abbandonando la via riformista di Filippo Turati ed Anna Kuliscioff per imboccare quella massimalista rivoluzionaria dei Nenni, dei Menotti Serrati e di tutti coloro che dalla Settimana Rossa in poi sperarono di rovesciare il vecchio stato liberale post unitario con la forza.
Fino al 1914, Mussolini compì una irresistibile ascesa a suon di manifestazioni, arresti, articoli e proclami di fuoco. Si, perché nel frattempo aveva scoperto di essere tagliato per un altro mestiere, quello di giornalista. Direttore dell’Avanti, usò l’organo ufficiale dei socialisti per dare la scalata al partito. Fu fermato alla vigilia dello scoppio della prima Guerra Mondiale, che mise in crisi i partiti socialisti di tutta Europa. Quello italiano non fece eccezione. Dovunque, l’internazionale socialista cercò di barcamenarsi tentando di non assumere posizioni in conflitto con le fedeltà nazionali, una sorta di “né con lo Stato né con i suoi nemici” che avrebbe avuto fortuna anche in seguito.
L’unico partito che si mantenne antiinterventista dichiarato fu quello italiano, e fu allora, mentre le potenze straniere cercavano di tirare dentro il conflitto un’Italia all’inizio restia ma con una classe dirigente bramosa di concludere il Risorgimento con Trento e Trieste e di avere il suo "posto al sole" con le Colonie d’Oltremare, che Mussolini ed il Partito Socialista scoprirono di avere due destini diversi. Espulso dal partito, Mussolini fondò il Popolo d’Italia, giornale dalle cui colonne divenne dapprima la figura di riferimento dell’Interventismo, e poi il leader incontrastato del fascismo, il movimento di squadristi sorto nel dopoguerra per impedire che l’Italia facesse la fine della Russia, precipitata nel vortice della rivoluzione bolscevica.
Vittorio Emanuele III di Savoia
La storia dei 20 anni successivi è arcinota, come è noto che il regime che elesse proprio Duce incontrastato l’ex maestro di Predappio ebbe avvio da una marcia di camicie nere ma più ancora da una decisione del Re di impedire al Generale Cittadini di difendere Roma con l’esercito già schierato. Vittorio Emanuele III non era un cuor di leone, non era neanche un intelletto brillante. Vide nella dimostrazione fascista l’occasione di applicare quella norma dello Statuto Albertino del 1848 (la costituzione di allora) che gli dava la prerogativa di incaricare il presidente del consiglio a proprio giudizio insindacabile, pur tenendo conto delle indicazioni delle urne elettorali. Alle ultime elezioni, nel 1921, i fascisti erano stati la forza nuova in ascesa, ed allora il Re ritenne opportuno premiarli con la responsabilità di guidare il paese fuori dalla crisi dello stato liberale, e dalla pericolosa deriva bolscevica.
Fu una decisione “costituzionale”, quindi. Allo stesso modo il Ventennio così cominciato sarebbe terminato per una decisione che pretendeva di avere gli stessi crismi di legalità e costituzionalità. Nell’estate del 1943, il Duce era un uomo stanco, sull’orlo del tracollo nervoso e della sconfitta personale rispetto a tutto ciò in cui aveva creduto e a cui aveva messo mano. Dopo tre anni della guerra a cui aveva in tutti i modi voluto che l’Italia partecipasse (nonostante l’impreparazione dimostrata da precedenti avventure come la Guerra di Spagna), Benito Mussolini si ritrovava con l’Impero ormai perduto, il territorio nazionale invaso dagli Alleati (sbarcati in Sicilia dal 10 luglio), le maggiori città italiane bombardate sistematicamente dalle Fortezze Volanti americane e dai Lancaster inglesi, una popolazione che apparentemente lo applaudiva ancora quando si affacciava dal balcone di Palazzo Venezia, ma che in realtà non ne poteva più e detestava la guerra a fianco dei tedeschi.
Dino Grandi
Per tirare fuori l’Italia da un conflitto che ormai appariva irrimediabilmente perduto a tutti, si stavano mobilitando forze potenti, dal Vaticano agli industriali di maggior spicco alla stessa famiglia reale. La principessa Maria José, moglie dell’erede al trono Umberto e figlia di quel Re del Belgio che era prigioniero dei tedeschi e soffriva insieme ed alla testa del suo popolo, si incontrava con gente come Olivetti, Agnelli, o i loro emissari, con il Cardinale Montini segretario di stato di Papa Pio XII Pacelli. A questi ormai si aggiungevano i maggiorenti del regime, almeno quelli che avevano ancora l’uso della ragione, oltre che il prestigio personale. Non c’era più Italo Balbo, l’unico il cui carisma avrebbe potuto competere con quello di Mussolini e che era caduto in Libia in un misterioso incidente aereo all’inizio della guerra. Ma c’erano persone come Dino Grandi e Galeazzo Ciano che avevano prestigio interno ed internazionale e che capivano ormai che la partita era persa e che occorreva passare la mano.
Ancora una volta, l’uomo del destino era il pavido e poco brillante Vittorio Emanuele III, che sollecitato ad agire tempestivamente oppose l’obbiezione della mancanza di presupposti costituzionali. Toccò a Grandi fornirglieli. Dal 1928 esisteva una specie di Consiglio di Gabinetto del Duce, o piuttosto una sorta di soviet della rivoluzione nera, il Gran Consiglio del fascismo. Era un organo i cui confini non erano mai andati al di là dell’ambito consultivo, ma in quella situazione non c’era da sottilizzare. Un ordine del giorno votato in quel consesso poteva valere come una sfiducia al Duce, e l’invito al sovrano ad agire per salvare il suo paese.
 Mussolini era conscio di questa marea montante, in qualche modo preparato ad affrontarla. Ma quando prima l’invasione alleata, poi l’ultimo incontro con l’alleato Hitler - in cui doveva perorare la causa del disimpegno italiano e che invece si risolse in un monologo del Fuhrer che lo annichilì – gli tolsero le ultime illusioni e le residue energie, acconsentì alla convocazione del Consiglio che aveva sempre rifiutato dopo il 1939.
La seduta del Gran Consiglio del Fascismo la notte del 25 luglio 1943
La notte del 24 luglio, Dino Grandi presentò il suo ordine del giorno in cui chiedeva a Mussolini di restituire al re il comando delle Forze Armate e di rimettergli in sostanza l’incarico. Il Duce parve rassegnato, ascoltò gli interventi di tutti i gerarchi la maggior parte dei quali andavano nella direzione voluta da Grandi, da Ciano a Bottai ai vecchi "quadrumviri" De Vecchi e De Bono (gli ante-Marcia), acconsentì a che si votasse pur sapendo in anticipo quale sarebbe stato l’esito, prese atto della sfiducia del Gran Consiglio e dichiarò sciolta la seduta, annunciando che il giorno seguente si sarebbe recato dal sovrano.
Mussolini doveva sapere, o almeno intuire che il suo ventennale incarico di governo era agli sgoccioli, che Vittorio Emanuele aveva avuto il presupposto di cui aveva bisogno e che adesso non poteva più tirarsi indietro, dando soddisfazione a chi gli chiedeva di deporre il Duce. Quello che di certo non si aspettava era di trovare un plotone di carabinieri, che dopo il colloquio con il re da cui apprese di non essere più a capo di niente lo presero in consegna, portandoselo in caserma in stato di arresto.
L’incarico a succedergli andò al maresciallo Badoglio, che istituì il primo di una serie di governi tecnici che avrebbero costellato, o per meglio dire afflitto, la storia d’Italia successiva. Malgrado il proclama immediato: «La guerra continua a fianco dell’alleato germanico», il governo militare prese a trattare l’armistizio con gli angloamericani, che fu poi firmato a Cassibile, in Sicilia, il 3 settembre 1943, ma comunicato al paese ed al mondo cinque giorni dopo, quando il Re e lo stesso Badoglio erano già scappati rifugiandosi nelle mani degli Alleati ed abbandonando l’Italia e gli italiani al loro destino sotto il tallone nazista.

Mussolini con Otto Skorzeny
Nel frattempo Mussolini era stato liberato dalla prigione di Campo Imperatore sul Gran Sasso dai paracadutisti SS di Otto Skorzeny e portato in Germania dove Hitler lo avrebbe costretto a fondare la Repubblica fantoccio di Salò. La guerra continuava davvero, ed era una storia tragica che per il nostro paese si sarebbe conclusa il 25 aprile del 1945 con la Liberazione, per Mussolini tre giorni più tardi con la fucilazione da parte dei partigiani del Comandante Valerio a Giulino di Mezzegra, lontano ormai da gloria e potere, e dal caldo sole di luglio.