domenica 30 dicembre 2012

ITALIA ANNO ZERO



Il paese che si appresta a dare l’ultimo saluto a Rita Levi Montalcini celebra in concomitanza la chiusura di uno dei suoi anni peggiori, e le due cose appaiono giustamente coincidenti. L’addio a uno degli ultimi intelletti di cui siamo stati orgogliosi di essere concittadini cade nel momento in cui forse prendiamo coscienza del fatto che non solo ci ritroviamo a vivere in un sistema-paese che difficilmente ne riprodurrà altri di quella levatura, ma anche che stiamo più o meno consapevolmente distruggendo le ultime vestigia di quanto di buono questi intelletti medesimi unitamente alla nostra coscienza civile faticosamente coltivata sul terreno impervio della nostra storia moderna avevano prodotto, in termini di conquiste sociali e di istituzioni civili.
Rita Levi Montalcini, Premio Nobel per la Medicina 1986 e Senatrice della Repubblica a vita dal 2001, ci ha lasciati ieri, e non le sarà dato di vedere che fine farà questa patria disgraziata che ha avuto bisogno di eroi come lei, per dirla con Brecht, e oltretutto quasi non ha saputo che farsene. Quando le sue spoglie mortali avranno trovato l’eterno riposo, molti di coloro che si sono sentiti in diritto di oltraggiare la sua stessa presenza in Parlamento in questi ultimi anni, in ragione delle sue sempre più precarie condizioni di salute, si saranno già ripresentati in lista per farsi un altro giro a quel Win-For-Life che sono diventati ormai da noi il Senato e la Camera dei Deputati. Al punto che per avere un rappresentante tra i senatori del calibro della dottoressa Montalcini dovette nominarla il presidente Ciampi nell’ambito delle sue prerogative. Che venisse fuori da una consultazione elettorale una persona della sua levatura non ci sarebbe stato mai verso.
In un panorama intellettuale e morale sempre più depauperato, quindi, la Seconda Repubblica si prepara a celebrare il suo rito di primavera, senza sapere tuttavia se stavolta si tratterà di una ennesima riedizione del capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, quel Gattopardo le cui parole immortali, perché nulla cambi tutto deve cambiare, hanno ispirato secoli di politica nazionale al di là delle possibilità di previsione del suo stesso autore. O se invece avrà luogo uno di quei periodici tentativi che la stessa politica italiana e la società civile che ad essa sottende mettono in scena, dalla Guerra Partigiana agli Anni di Piombo a Mani Pulite. Purtroppo, finora, con risultati non dissimili da quelli preconizzati dal Principe di Salina. Much ado about nothing, molto rumore per nulla, diceva Shakespeare.
Un anno fa se ne andava Giorgio Bocca (Natale non regala più nulla all’Italia, anzi ultimamente si porta sempre via i pezzi migliori), che avrebbe avuto da dirci sicuramente qualcosa di interessante sulle grandi manovre della politica. Soltanto sul Professor Monti e sul suo governo vinil-tecnico avrebbe scritto sicuramente parole memorabili. Ma Giorgio Bocca, come Rita Levi Montalcini, non ci sono più. Siamo più soli, e da soli dobbiamo fare. A capirci qualcosa e a reagire, se ne siamo capaci.
Di governi tecnici è piena la nostra storia, a partire da Badoglio in poi. Periodicamente, la politica si è dimostrata incapace di assolvere ai compiti per cui la paghiamo, e cara, e si è dovuta fare da parte (a volte con acquiescenza infingarda pari alla propria incapacità riconosciuta), lasciando il Monarca di turno, da Vittorio Emanuele III a Giorgio I, a dare l’incarico al tecnico, al professore, così come noi nel nostro piccolo si chiama l’Sos Casa a rimediare ai danni di architetti e ingegneri strapagati a suo tempo.
Quasi sempre, prima di un governo tecnico, o della sua variante esotica minimalista nostrana, il governo balneare, c’era stata in precedenza una bella catastrofe di qualche tipo, bellica o economica. E sempre al tecnico incaricato si chiedeva di ristabilire la situazione dandogli sostanziale carta bianca e nessun obbligo di rendere conto a organi minimamente elettivi e rappresentativi della volontà popolare. Il Re d’Italia incaricò il Maresciallo Badoglio di tirare fuori il paese dalla seconda guerra mondiale con la stessa nonchalance e la stessa lettura disinvolta (ma legale) delle sue prerogative con cui 20 anni prima l’aveva consegnato al Fascismo di Mussolini.
Il Presidente della Repubblica aveva prerogative meno certe ed accertate quando bypassando completamente la volontà popolare ha incaricato il Prof. Mario Monti di tirare fuori il paese dalla crisi finanziaria (non economica, si badi bene) in cui l’avevano gettato le banche (al pari di altri paesi nelle stesse condizioni, che però sono andati a votare) che a suo tempo avevano espresso proprio i Monti, i Draghi e compagnia bella a governare l’economia dell’Unione Europea in senso a loro favorevole. E tuttavia l’ha fatto, con la stessa retorica disinvoltura con cui ha accompagnato ogni azione politica della sua lunga vita, e ci fosse stata una delle forze politiche presenti in Parlamento (ad eccezione di Lega ed Italia dei Valori, peraltro squalificatesi da sole su altri terreni e per altri motivi) che avesse avuto da ridire!
Anzi, proprio loro hanno finito per legittimare l'azione di Napolitano dandogli quella maggioranza che la Costituzione gli impone di cercare. In nome dello spread, della spending review e di altre due o tre parole in lingua inglese che non hanno più significato di quel gramelot con cui Dario Fo ci deliziava nei suoi splendidi spettacoli teatrali di qualche anno fa, dalla sera alla mattina maggioranza e opposizione sono sparite, in una ammucchiata che non ha avuto nemmeno quel minimo di parvenza dignitosa dell’Unità Nazionale successiva al rapimento e al delitto Moro. Tutti compatti a sostenere Mario Monti e la sua politica patrimoniale verso i poveri, con la sua troupe che in un paio di elementi almeno non ha fatto rimpiangere – quanto a sciocchezze e modo di porgerle, se non di attuarle – i bei tempi di Brunetta.
La legislatura comunque dura cinque anni e alla fine devi decidere, o sciogli le Camere e rimandi la gente a votare o fai un colpo di stato, con tutti i rischi, gli incerti e le fatiche del caso. E stavolta, stante la crisi economica reale e in alcuni momenti veramente spaventosa e la sua gestione che è apparsa decisamente sperequativa da parte di un governo di irresponsabili (in senso letterale) e di uomini comunque provenienti dal mondo del privilegio bancario e finanziario, non è affatto sicuro quale prodotto avrà l’umore sempre più nero del corpo elettorale una volta al’interno della sospirata cabina di voto. Ecco allora che la politica, il cui unico problema è tornare in Parlamento, sta correndo ai ripari in uno scontro tra nuovo che cerca di avanzare e vecchio che cerca di non arretrare che avrebbe fatto la felicità dei grandi commediografi e sceneggiatori di una volta.
Tra partiti e personaggi in cerca di autore, tra sequel o semplici remake di film già visti, tra trasformismi ormai consueti della politica italiana eppure sempre affascinanti nel loro ripetersi come se fosse la prima volta, la commedia delle parti sempre meno chiare ha prodotto uno scioglimento delle Camere ed una convocazione dei comizi elettorali per il 24 febbraio 2013. Per quella data, chi ha qualcosa da brevettare lo tiri fuori, non si va oltre. Rien ne va plus.
Per quella data, sapremo se nel campo Democratico avrebbe valso la pena scommettere sulla nuova generazione dei Renzi, o se pure la vecchia dei Bersani, delle Bindi, delle Finocchiaro  dei D’Alema ha qualche possibilità di riciclo (e qualche politica da attuare che non sia quella di Mario Monti, se di politica si è potuto parlare). Se nel campo liberale funziona ancora l’equazione di vent’anni fa tra l’imprenditore di Arcore che sa parlare agli italiani e la loro paura del cambiamento avventuroso rappresentato da chi nel frattempo ha avuto, soprattutto in sede locale, le sue brave occasioni per sgovernare. Sapremo inoltre se l’ennesimo tentativo di ridare vita alla Balena Bianca, la Democrazia Cristiana, ha possibilità di successo e se vecchi arnesi dell’area di governo e sottogoverno come Casini, Rutelli, Fini e lo stesso Montezemolo hanno visto giusto nel tentare di presentare Mario Monti come il novello Alcide De Gasperi, con buona pace di chi ha ragione di pensare che se lo statista trentino tornasse in vita oggi toglierebbe perfino il saluto a questi suoi sedicenti epigoni che a lui pretendono di richiamarsi.
Sapremo infine che sorte avranno i tentativi veri o presunti di rompere il sistema vigente. Da quello del Movimento Cinque Stelle che si è mosso per tempo ponendosi come alternativa platealmente anti-sistema (e accettando di correre i rischi del caso, in termini di reazione da parte di un sistema che non è mai stato né tenero né leale verso i suoi oppositori), a quello di movimenti che stanno nascendo negli ultimi giorni, dai “Fratelli d’Italia” di Crosetto e Meloni, per nulla convinti del ritorno di Berlusconi, alla Rivoluzione Civile dell’ex magistrato di turno Antonio Ingroia.
A tale proposito, al netto del rispetto delle vigenti norme sia costituzionali che ordinarie, si moltiplica il fenomeno dei giudici che decidono di saltare il fosso e di passare dal Giudiziario al Legislativo. Senza voler esprimere un giudizio di merito sulle persone, c’è da pensare che si tratti a questo punto di un fenomeno che si possa configurare anche come degenerativo, oltre che poco produttivo, della nostra politica nazionale. La lista dei magistrati prestati alla politica e non più ritornati indietro è lunga, ormai, e dati alla mano si può affermare che abbia prodotto ben poco di utile alla causa del paese, in ciascuno dei due ambiti e poteri costituzionali. Di sicuro, si può affermare che magistrati anche valenti hanno cessato di servire il loro paese indossando la toga con profitto come avevano fatto, e sono andati a sedersi in un Parlamento a cui hanno dato ben poco lustro o contributo.
Del resto, che c’è una Costituzione da riformare in profondità e che il capitolo della Magistratura non sia secondario nell’ambito delle riforme da fare, non è novità di oggi. Un plauso semmai alla nostra classe politica che ha pensato bene di trasferire anche questa questione a chi le succederà nella prossima legislatura, cioè a se stessa, senza peraltro nessuna fretta.
Questo è il paese che nei prossimi giorni darà l’ultimo saluto a Rita levi Montalcini. Le sia lieve la terra, Dottoressa. E non porti con sé alcun rammarico nel suo viaggio verso il suo meritato eterno riposo. Per scoprire il gene malformato che avvelena da sempre la nostra vita di cittadini italiani sarebbe occorsa una vita decisamente più lunga e avventurosa della sua. Buon anno a chi resta.

lunedì 24 dicembre 2012

Una serata con i volontari di Emergency


Per chi non sapesse o non potesse dare un senso a questo Natale (è sempre più difficile ogni anno che
passa, a prescindere dalle profezie millenaristiche che tentano di spiegarci perché siamo destinati ad estinguerci, come se non lo sapessimo da soli), per chi volesse comunque dare un senso al proprio tempo e ai propri soldi unendo l’utile al dilettevole di acquistare dei bei regali di natale dedicando qualche attimo di sé nello stesso tempo alla riflessione ed alla solidarietà, Emergency ripropone anche quest’anno il suo punto vendita a Firenze in Via dei Ginori14 (foto).
Entrare dentro il negozio di Emergency è fare un salto d’improvviso in un altro mondo, quello (vastissimo) in cui si lotta per la pura e semplice sopravvivenza e quello di chi ha scelto di dedicarsi ad agevolare questa lotta impari, magari lasciando da parte professioni ben più remunerative, almeno da un punto di vista puramente economico. Per chi entra lì dentro con la voglia di capire, libera da qualsiasi pregiudizio, c’è tutto lo spirito dell’organizzazione fondata nel 1994 dal cardiochirurgo milanese Gino Strada e da sua moglie Teresa Sarti, non appena fu chiaro che il mondo non più costretto dalla logica dei blocchi e della Guerra Fredda si stava aprendo a nuovi e ancora più impensabili orrori, e che c’era bisogno di qualche visionario che ritenesse possibile e doveroso (già allora) offrire cure mediche e chirurgiche gratuite e di alta qualità alle vittime della guerra e della povertà e promuovere una cultura di pace, solidarietà e rispetto dei diritti umani. Tutta merce che con l’andare del tempo si è dimostrata, se possibile, ancora più deperibile. Non a caso, questa organizzazione si chiama, fin dalla sua nascita, Emergency. Non c’è bisogno di traduzione, semmai di constatare che dopo 18 anni quella che era emergenza sta diventando purtroppo, in molte aree del mondo, più che mai la normalità.
Una volta dentro il negozio, i volontari sono ben contenti di accompagnarvi dentro un viaggio che vi porta dentro un sogno: quello di popoli che cercano di recuperare una autonoma e orgogliosa rinascita produttiva magari solo ripartendo da produzioni artigianali che già esistevano e che guerre e dittature
avevano spazzato via. Un caso per tutti, i manufatti di vetro di Herat, una delle zone dell’Afghanistan che più stenta a trovare pace e normalizzazione in un paese che pace e normalità non ne ha mai avute. L’Afghanistan è diventato uno dei paesi simbolo dell’impegno di Emergency, per motivi di storia e di cronaca attuale. Ma stesso discorso si può estendere a varie parti del cosiddetto Terzo Mondo in cui l’organizzazione di Gino Strada, riconosciuta ONLUS dal 1998 e ONG da 1999, tenta ogni anno di avviare nuovi progetti di realizzazione di strutture sanitarie che diano assistenza medica, ma più in generale diritti sostanziali, a chi finora non ne ha mai avuti. Fino al punto di individuare addirittura nel nostro stesso paese, nei tempi della Sanità disastrata pre e post spending review, delle sacche territoriali di sofferenza in cui intervenire, con la certezza di poter fare meglio e a costi molto più contenuti rispetto a chi ha fatto finora.
Per far capire tutto questo, e spiegare perché si sta lavorando e perché le pur generose risorse messe a disposizione ogni anno dai donatori e da istituzioni pubbliche e private sensibilizzate (l’elenco è esposto nel negozio) sono sempre per forza di cose insufficienti, Emergency ha deciso quest’anno di far parlare i propri volontari, in alcune serate messe a disposizione del pubblico dei visitatori. Abbiamo partecipato ad una di queste, la sera del 21 dicembre, in cui due infermiere professionali operanti nelle strutture sanitarie italiane hanno raccontato perché hanno deciso un bel giorno di lasciare tutto, ma veramente tutto, e andare a fare quello che facevano dall’altra parte del mondo, e con che risultati.
Paola Stillo (foto), ex caposala dell’ospedale pediatrico Sant’Anna di Como, ci racconta di come fu convinta nell’arco di una giornata dai “reclutatori” di Emergency a prendere aspettativa ed aggregarsi alla missione destinata a quella che nel 2003 era la zona più calda del mondo, la valle del Panshir, la zona afghana più vicina al territorio cinese da sempre controllata dall'Alleanza del Nord, i Mujahidhin del leggendario Masud il Leone. In quel paese, che veniva da più di 20 anni equamente divisi tra la guerra contro gli invasori sovietici, la dittatura talebana e la guerra di liberazione successiva all’attentato alle Torri Gemelle, Emergency aveva svolto un ruolo fondamentale fin dagli ultimi tempi dei Talebani, riuscendo ad essere presente di fatto come l’unica organizzazione in grado di fornire assistenza sanitaria nel paese.
Tale situazione, non certo semplificata dalla nuova situazione creatasi dopo l’occupazione NATO, era rimasta sostanzialmente immutata. Al punto da spingere i responsabili dell’organizzazione di Gino Strada a valutare come prioritario non solo l’apporto di cure mediche ad una popolazione martoriata da una guerra infinita, ma anche la ri-creazione di professionalità mediche e para-mediche in un paese dove da quando avevano governato i Talebani non era andato a scuola più nessuno (meno che mai le donne, ritenute però essenziali, nella cultura islamica, per l’esercizio di una professione infermieristica nel caso specifico rivolta in molto casi ad un’utenza principalmente femminile, si pensi a maternità e pediatria), e prima ancora di un approccio culturale al mondo moderno che riprendesse quel filo interrotto per forza di cose nel 1979, quando l’invasione sovietica aveva fatalmente frenato lo sviluppo di un paese che almeno nei centri maggiori dimostrava di potersi inserire in quello che consideravamo e consideriamo il mondo moderno. I risultati ottenuti, ha raccontato Paola Stillo, sono andati al di là delle più rosee previsioni. Le infermiere istruite dai volontari occidentali, a prezzo di sacrifici inimmaginabili per chi non ha presente la loro condizione ripiombata in un abisso di violenza e segregazione degni del peggior fanatismo religioso e della peggiore arretratezza culturale, hanno conseguito un livello di professionalità (oltre che titoli di studio legalmente riconosciuti) che lascia ben sperare.
Chiara Peduto (a destra nella foto al tavolo), infermiera del reparto di Terapia Intensiva di Careggi, ha raccontato invece un’altra esperienza altrettanto estrema, e altrettanto nota a chi ha seguito le cronache internazionali della sofferenza e del bisogno. Reclutata anche lei dans l’espace d’un matin dagli uomini di Emergency, la sua destinazione è stata il Centro Salam di Cardiochirurgia di Karthoum, la capitale del martoriato Sudan. Il suo racconto ha messo in evidenza l’incredibile contraddizione tra il prestare servizio in una struttura sanitaria quasi d’eccellenza, che nulla parrebbe avere da invidiare alle nostre europee, e vivere in un paese dove domina una delle dittature più feroci ed oppressive dell’intero Terzo Mondo. Il Sudan è da anni teatro di sofferenza, con la tragedia del Darfur ed il conflitto interrazziale e interconfessionale tra le sue popolazioni per lo più per la maggior parte allo stato tribale. Karthoum è una città dall'apparenza moderna, impiantata nel cuore di uno stato di polizia tribale. In quest’area Emergency ha scelto volutamente di costruire una delle sue strutture più prestigiose, et pour cause. Il paese confina con altre nazioni africane,dall’Egitto, alla Repubblica Centraficana, al Ciad, all’Eritrea, alla Somalia, all’Etiopia, è in posizione strategica tanto più alla luce dell’insorgenza massiccia tra la popolazione di questa vasta regione africana di malattie legate alla contrazione dello streptococco metabolitico, che causa febbri reumatiche con complicazioni cardiache devastanti (una persona su mille abitanti la contrae, ed è destinato alla morte in un paese dove qualsiasi assistenza medica è esclusivamente a pagamento). Come in Afghanistan, la cultura locale dà inoltre pochissimi spazi a quelle persone, soprattutto di sesso femminile, che vogliono emanciparsi acquisendo una professionalità medica e paramedica.
Questo è solo un esempio sommario di quanto è emerso dai racconti dei volontari, di quanto fa Emergency ogni anno per andare a portare vita e rinascita dove altrimenti ormai prospererebbe soltanto la morte. Ci sarebbe da parlare del Centro Chirurgico e Pediatrico di Goderich in Sierra Leone, dell’assistenza sanitaria fornita ai profughi della sanguinosa Primavera Araba del 2011, dei progetti di Emergency per rendere più accessibile e più effettiva la stessa sanità italiana. Ci sarebbe tanto da dire, chi è interessato può approfondire in Via Ginori, e negli altri centri Emergency sparsi in 12 città italiane.

Come ricorda ancora Paola Stillo, gli operatori sanitari volontari farebbero il loro mestiere comunque e dovunque, ma è solo il cuore e la generosità della gente che consentono loro di andare a farlo là dove ce n’è veramente bisogno. Il negozio di Emergency rimane aperto fino al 24 dicembre alle ore 18,00.

lunedì 26 novembre 2012

RENZIADE: L'Uragano Renzi si abbatte sulle Primarie del PD

Il Ciclone Matteo si abbatte sulle Primarie del Partito democratico. Alla fine degli scrutini il coordinatore nazionale delle elezioni per il centrosinistra Nico Stumpo ha annunciato il risultato definitivo del primo turno: «Hanno votato circa 3 milioni e centomila cittadini. Bersani è al 44,9%, Renzi al 35,5%, Vendola al 15,6%,Puppato al 2,6% e Tabacci all'1,4%».
Al secondo turno di ballottaggio vanno quindi il segretario uscente Pierluigi Bersani ed il sindaco di Firenze Matteo Renzi, e sarà una partita tutta da giocare. Non soltanto perché il terzo classificato, il Presidente della Regione Puglia Nicky Vendola ha un bel gruzzolo di voti da distribuire tra i due contendenti rimasti, ma anche perché dall’analisi stessa del voto appena effettuato dai simpatizzanti del centrosinistra emergono alcuni dati che fino a poco tempo fa potevano essere considerati sbalorditivi, e che gettano incertezza sull’esito finale della contesa.
Il primo dato è che di zoccoli duri all’interno della sinistra non ce ne sono più. Di tutti gli schieramenti che si sono avvicendati sulla scena della politica italiana, quello rappresentato oggi dal Partito Democratico è forse storicamente il più conservatore di sempre. E tuttavia la cosiddetta base sta dimostrando di essere sempre più insofferente alla riproposizione della nomenklatura che da diversi decenni governa il partito. Una classe dirigente che è avvertita come sempre più distante e non in sintonia con la gente comune e le sue necessità, tanto più in questi tempi di crisi e di ricette anti-crisi che hanno molto poco di sinistra, malgrado la sinistra stessa le abbia patrocinate e sostenute.
Il secondo dato è che Renzi è andato a vincere, anzi a stravincere – come lui stesso non ha mancato di sottolineare a caldo ieri sera - proprio in quelle zone dove sembrava più saldo il controllo dell’organizzazione storica del Partito: le cosiddette Regioni Rosse, tanto per capirci. Il sindaco di Firenze ha trionfato non soltanto nella sua città, ma un po’ in tutta l’Italia centrale e anche in Emilia Romagna. Ad un certo punto sembrava addirittura che il suo quoziente nazionale potesse salire al 40%, ma anche il 36% è un risultato che gli lascia aperte tutte le possibilità. «Ce la giochiamo fino in fondo», ha dichiarato di fronte alla Convention Viva l’Italia Viva – Il meglio deve ancora venire alla Leopolda, che ormai è diventato il suo quartier generale.
A proposito, quale contrasto fra le immagini provenienti dalla stazione fiorentina riecheggianti il clima delle primarie americane, con il giovane sindaco nei panni di un Barack Obama nostrano, e la frase secca e disarmante riportata dai giornalisti che avevano cercato di intervistare Bersani a botta calda: «Parlerò più tardi, adesso lasciatemi guardare Milan-Juventus in pace». Non c’è che dire, bel mix tra veterocomunismo e repubblica delle banane, immaginarsi un leader americano o anche europeo qualsiasi che risponde così alla stampa del suo paese! Poi non c’è da meravigliarsi che il cosiddetto Nuovo Che Avanza vada a vincere nelle roccaforti rosse, come ad esempio Pontedera, terra d’origine del Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi o quella Castelfiorentino che come ha ricordato il candidato sindaco ai tempi del PCI faceva registrare l’80% dei consensi.
Nelle stesse ore, lo sconfitto Nicky Vendola ringraziava i suoi sostenitori per l’appoggio nella battaglia sostenuta, e pur non dissimulando la scarsa simpatia per Renzi prometteva a Bersani vita dura per ottenere il suo quasi 16% di voti al secondo turno. Si riparte da zero, per citare ancora Renzi, e sarà una settimana intensa, fino a domenica prossima. Ma comunque vada a finire, il Partito Democratico, ex PDS, ex PCI come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi sta per andare nell’archivio storico, e chi governerà la nuova Cosa si troverà a gestire una realtà ben diversa e finalmente, nel bene e nel male, più simile alla realtà degli altri paesi europei

mercoledì 31 ottobre 2012

L’Impero ha colpito ancora. La Disney compra la Lucasfilm: arriva Star Wars 7

La fabbrica dei sogni non si ferma. L’Impero ha colpito ancora: quello di Walt Disney. 90 anni dopo la sua fondazione a Burbank, California, da parte dei fratelli Walter Elias e Roy Disney, 46 anni dopo la morte di Walt, la company che è ad oggi la più grande azienda del mondo nel campo dei media e dello spettacolo ha annunciato ieri la sua terza sorprendente acquisizione, dopo quelle dei Pixar Animation Sudios e della Marvel Entertainment:. Stavolta è il turno della Lucasfilm Ltd., la holding con cui George Lucas ha incantato il mondo per 35 anni a partire da quel 1977 in cui uscì il primo episodio della celeberrima saga di Star Wars.
Si tratta di un affare da oltre 4 miliardi di dollari, allo stato attuale. Quale sarà poi il valore dello sfruttamento del merchandising e dei franchise (le serie a suo tempo prodotte) della Lucasfilm da parte della nuova proprietaria, è soltanto ipotizzabile. O forse è meglio dire fantasticabile.
George Lucas aveva annunciato da tempo la sua intenzione di passare la mano, sia come manager che come produttore di film. Nel primo caso, aveva detto di essere intenzionato a cedere la poltrona di presidente al suo braccio destro Kathleen Kennedy, che a questo punto farà riferimento alla Disney. Nel secondo, aveva manifestato la sua ferma determinazione di non rimettere più mano alle sue creature più celebri: Star Wars, appunto, e la saga di Indiana Jones
Ma se l’ultimo episodio della serie avente per protagonista l’archeologo avventuriero interpretato da Harrison Ford sembra aver avuto un finale “conclusivo” che conferma l’intenzione del creatore, per quanto riguarda la lotta tra il Bene e il Male in una Galassia molto lontana, tra i Jedi e i Sith, sembra che ci siano novità clamorose.
Come parte dell’accordo concluso oggi, la Holding che passa dal controllo di Lucas a quello di Disney comincerà subito a lavorare a quello che i fan della Spada Laser aspettano da tempo e finora avevano solo potuto sognare. Star Wars Episode 7 si farà, e la sua uscita è prevista per il 2015. Il primo episodio della nuova trilogia, ambientata nella Galassia dopo la vittoria di Luke Skywalker sull’Imperatore, avrà come supervisor Kathleen Kennedy e come consulente creativo lo stesso George Lucas.
Non si sa altro al momento su trama, cast, regista e quant’altro. Si sa solo ciò che ha dichiarato il papà di Guerre Stellari, a commento del passaggio della sua creatura alla Disney: «Nel corso degli ultimi 35 anni, uno dei miei più grandi piaceri è stato veder passare Star Wars da una generazione a quella successiva. Ora è giunto il momento per me di passare Star Wars a una nuova generazione di registi. Ho sempre pensato che Star Wars potesse vivere a prescindere da me, e ho sempre pensato che fosse importante impostare questa transizione nel corso della mia vita. Sono sicuro che con la Lucasfilm sotto la guida di Kathleen Kennedy, e nella sua nuova casa nella organizzazione Disney, Star Wars vivrà a lungo e in prosperità per molte generazioni a venire».
Nel frattempo, mentre la notizia comincia a diffondersi nella rete, Twitter e gli altri social network stanno già impazzendo. Vecchi e nuovi fan si dichiarano affascinati dall’unione tra i due colossi dello spettacolo, e soprattutto estremamente eccitati all’idea di poter assistere al nuovo episodio della saga stellare. Qualcuno sogna già il primo parco a tema ispirato agli Skywalker.

Il sogno continua, insomma, più impetuoso e travolgente che mai. E come diceva Walt Disney, if you can dream it, you can do it.

domenica 14 ottobre 2012

APPUNTI DI VIAGGIO: Trieste è la Vela. Europa 2 e Onorato vincono la Barcolana più difficile di sempre

Alla fine vince sempre e comunque lei, Trieste. Non c’è niente da fare, la Coppa America può essere andata anche a Valencia, grazie ai bigliettoni spagnoli messi sotto il naso di Bertarelli, ma avrebbe dovuto essere disputata qui. Come ha detto Vincenzo Onorato, oggi skipper dell’equipaggio più bello ed emozionante di tutta la regata che qui chiamano Barcolana, Trieste è la vela. Punto e basta.
E lo ha dimostrato nel giorno più difficile. E’ stata la Barcolana più lenta degli ultimi 10 anni, una delle più lente di sempre. 5 nodi di vento, di media, forse anche meno, poco più di 2 nel lato conclusivo. Un’agonia, come essere in macchina e non mettere mai nemmeno la terza. Ma, dicono gli addetti ai lavori, è stata anche una delle più tecniche, perché è quando c’è poco vento che si vede il marinaio. E nelle lunghe pause della regata, almeno, il Golfo di Trieste ha potuto farsi ammirare in tutto il suo splendore.
Dal Castello di Miramare al Faro della Vittoria lungo la Riva di Barcola davanti alla quale si stende la linea di partenza della regata inventata 44 anni fa, nel 1969, dalla Società Velica di Barcola e Grignano con il nome di Coppa d’Autunno (perché chiudeva idealmente un’estate di regate nel golfo), la città che per ultima si unì al Regno d’Italia e per ultima ritornò alla Repubblica Italiana dopo due guerre mondiali oggi si è fatta ammirare in tutta la sua classe e la sua nobiltà che non decade. Dopo una settimana di happenings di tutti i tipi, stamattina ha schierato al via 1737 barche di tutte le classi veliche e di varie nazionalità. Meno delle oltre 2000 degli anni scorsi, ma comunque un bello schiaffo alla crisi. Qui c’è voglia di vivere, e la luce non l’ha spenta né il decreto Monti né il clima beffardo, che proprio oggi – nella città celebre per il vento – ha fatto mancare completamente proprio il vento.
Alla partenza, annunciata come sempre dal colpo di cannone, scattano in due, il veterano e già vincitore nel 2009 Mitja Kosminja con il suo Maxi Jena, barca di classe supermaxi, e l’enfant prodige di casa, Vasco Vascotto con il suo TP52 Aniene, barca di categoria 1a classe. Perché qui a Trieste alla Barcolana non c’è un regolamento rigido, possono partecipare tutti, con le loro barche di tutte le categorie. E’ la festa del mare, e basta. Poi vince il migliore. O chi si può permettere la barca più tecnologica. Cioè, negli ultimi 10 anni, Igor Simcic, miliardario sloveno divenuto tale con il petrolio e con l’hobby della vela, che gli ha dato otto Barcolane in un decennio (compresa quella di oggi) e negli ultimi due anni tutto quello che c’era da vincere nel Mediterraneo, e non solo.
La sua barca, Esimit Europa 2, è un gioiello di tecnologia. Progettata dai costruttori californiani per la rotta California- Hawaii, attraverso i venti ed i marosi del Pacifico, pur essendo attualmente di categoria non ammessa alla Coppa America è tuttavia una delle barche più versatili del mondo, capace di reagire a qualunque condizione di mare e di vento. E di vincere, come fa qui dal 2004. Oggi, partita senza troppa adrenalina nel groviglio delle mille navi e più, uno spettacolo unico dai tempi dell’Iliade, ha lasciato sfogare per metà del primo lato Vascotto e Kosminja per poi prendere la testa ed andarsene, lasciando ai contendenti la lotta per un prestigioso secondo posto.
Vascotto è riuscito a stare davanti al super Maxi Jena fino all’inizio del terzo lato, cioè finché il vento si è mentenuto sui 5 nodi. Poi, crollato a poco più di due, tanto da mettere in difficoltà perfino Esimit, che ha provato tutto il corredo di vele a disposizione per risalire il bordo fino alla terza boa e dopo all’arrivo, il fuoriclasse triestino ha dovuto cedere il passo ai due scafi di stazza superiore, Jena e l’outsider ungherese Wild Joe, concludendo comunque con un brillantissimo quarto posto.
L’arrivo è stata una agonia. La vincitrice Esimit ha impiegato 4 ore a compiere l’intero percorso di 17 miglia. La seconda è arrivata un’ora e mezzo dopo. Alle 17,00, tempo ultimo da regolamento di regata per completare il percorso, erano arrivate solo venti imbarcazioni. Da qui alcune polemiche, che hanno investito la Giuria, colpevole di non aver accorciato la gara come successo in circostanze analoghe negli anni passati.
Molte barche di stazza piccola, impossibilitate a muovere pochi passi oltre la linea di partenza, all’ora di pranzo avevano già disertato il campo di regata nell’impossibilità di fornire una prestazione che avesse un minimo di senso.
Ma le polemiche, qui a Trieste, fanno presto a passare in secondo piano. E’ stata anche oggi la festa del mare, anche in assenza di vento. E al di là del risultato tecnico, anche oggi sono stati consegnati alla storia barche ed equipaggi che hanno onorato la manifestazione. E anche qualcosa di più.
Uno su tutti, Vincenzo Onorato, armatore della Moby Lines, patron di quel Mascalzone Latino che ci ha resi orgogliosi in Coppa America. Oggi possiamo esserne orgogliosi ancora di più. Ha armato una barca, La Poste, già prestigiosa competitor della Whitbread, la celebre regata intorno al mondo, con un equipaggio tra i quali una decina di ragazzi affetti da Sindrome di Down.

Questi ragazzi, stravolti dalla fatica, sono stati fermati a 200 metri dalla linea d’arrivo al Castello di Miramare. Eppure, saranno d’accordo anche Simcic, ed il suo pluridecorato skipper Jochen Schumann, non c’è nessun dubbio che oggi abbiano vinto loro.

sabato 13 ottobre 2012

RENZIADE: Sulle Rive di Trieste a spasso con... Matteo Renzi

Vai a Trieste nella settimana della Barcolana, ti fai le Rive avanti e indietro ogni giorno ammirando i Maxi ed i Grand Soleil ormeggiati nel porto in attesa della regata, speri di incontrare magari un Mauro Pelaschier, un Vasco Vascotto, un Paul Cayard, e chi ti trovi? Non c’è che dire, comunque andrà a finire la sua avventura, Matteo Renzi va accreditato di un gran senso del momento. Non è una settimana qualsiasi questa per Trieste, e lui ha scelto oggi, quando la presenza e la fibrillazione della gente per la Barcolana stanno salendo ai massimi livelli, per fare qui la tappa del suo tour.
Qualcuno per la verità mugugna per l’arrivo del camper del candidato premier PD “a far confusione in un momento già di per sè di congestione urbana”. I più per la verità guardano incuriositi per la prima volta da vicino il sindaco di Firenze che aspira a diventare primo ministro. Nel suo blitz triestino, Renzi si è sicuramente fatto vedere nei luoghi giusti, visitando dapprima il Villaggio della Barcolana, con foto di rito tra i velisti. Poi, altra foto con la maglia della Triestina (dopo aver rotto il ghiaccio allo Stadio Franchi un mese fa, il Sindaco d’Italia ha scoperto che lo sportwear gli dona).
Quindi, accompagnato dal sindaco pidiessino di Trieste Roberto Cosolini e dal segretario provinciale del PD Francesco Russo, che nella sua lettera di benvenuto peraltro ha criticato la sua rottamazione indiscriminata, si è spostato nella centrale Piazza della Borsa, dove ha incontrato i lavoratori della Sertubi e di altre aziende in crisi dell’area della Ferriera che stanno manifestando contro il rischio di chiusura, confermando la sua recente svolta operaista soft.
Viene da dire, se il suo recente antagonista Marchionne non sembra capace d’altro che di tentare di vender frigoriferi agli eschimesi, e di sicuro non le Fiat a Firenze, Matteo Renzi sta dimostrando ogni giorno di più di saper essere al posto giusto nel momento giusto, a dire le cose giuste a chi è pronto ad ascoltarle. O almeno costretto. Al consigliere regionale della Venezia Giulia Bruno Marini che gli ha augurato una sfida finale Alfano- Renzi, ha risposto prontamente “Grazie, però dovete fare le primarie anche voi”.
In serata, Renzi si è trasferito a Udine a presentare la sua candidatura ufficiale per le Primarie della sinistra. Poi nella notte a casa. Il camper del sindaco on the road non si ferma mai. E domani al lavoro a Palazzo Vecchio. Business as usual, in attesa di scrivere la storia.

giovedì 11 ottobre 2012

APPUNTI DI VIAGGIO: Trieste capitale dalla vela alla cucina

La settimana che precede la famosa e prestigiosa regata velica detta La Barcolana (poiché si svolge nel tratto di mare prospiciente la riviera denominata appunto Barcola) restituisce a Trieste per un breve periodo quella che una volta era la sua dimensione usuale cosmopolita. E’ uno degli eventi in concomitanza del quale vale la pena di organizzare le proprie vacanze in questa città, anche per chi non ama o non si intende di vela, perché è in questa occasione che essa cerca di offrire il meglio di sé.
Negli stand e sulle bancarelle che vengono allestite in questa ed in altre circostanze sulle Rive e lungo il Canal Grande per il Mercato degli Ambulanti d’Europa, si può trovare una varietà di merci provenienti non soltanto dall’area del mediterraneo e del vecchio impero austro – ungarico, ma un po’ da tutto il mondo. Questa settimana, per qualche giorno, fino al colpo di cannone che darà il via alla 44^ Barcolana, Trieste ritorna la capitale del Mare. Nella suggestiva Piazza dell’Unità d’Italia si sta montando il palco su cui verranno ad esibirsi grandi artisti d’ogni genere. Stasera, Elio e le Storie Tese. E chi non è in cartellone questa settimana, probabilmente verrà sotto Natale, quando arriverà il grande tradizionale abete da una località delle Alpi retrostanti (spesso dal Trentino, Trento e Trieste sempre legate nella nostra storia, oppure dalla Carinzia austriaca) e sotto la sua luminaria il grande palco verrà rimontato.
Tra le due feste, chi cerca qualcosa di più tradizionale, ma altrettanto caratteristico di un mondo in via di estinzione, può andare per Osmize nei dintorni di Trieste, sul Carso italiano e sloveno. Le Osmize (nome derivato da una parola slava italianizzata) altro non sono che fattorie dove si vendono e si consumano vini e prodotti tipici (quali uova, prosciutti, salami e formaggi) direttamente nei locali e nella cantine dei contadini che li producono. In determinati periodi dell’autunno, a rotazione secondo un regolamento antichissimo, ciascuna di queste fattorie può vendere direttamente, al dettaglio, i propri prodotti senza pagar dazio, o altra gabella. L’usanza sembra risalire addirittura ala dominazione di Carlo Magno, ma la sua codificazione definitiva avvenne nel 1784 con l’imperatore Giuseppe II, figlio della grande Maria Teresa. La fattoria che vende espone una frasca per tutta la settimana, secondo la tradizione, così da far capire al pubblico che l’Osmizza è aperta.
Per chi invece non vuole lasciare la vecchia Trieste che si rinnova sempre, segnaliamo alcuni locali dove tutto l’anno la buona cucina e il buon bere si sposano ad atmosfere culturali che non hanno perso il loro fascino.
All’Happy Hour, niente di meglio del James Joyce Bar, nello stesso edificio dove lo scrittore abitò durante il suo soggiorno triestino in Piazza del Ponterosso, dove ad una calda atmosfera d’epoca si unisce un ambiente giovane e accattivante e si servono ottimi ed innovativi
aperitivi. Dal Caffè Tommaseo una volta ritrovo degli irredentisti, al Caffè San Marco punto di raccolta di artisti e intellettuali, dove è posibile trovarsi seduti accanto a Claudio Magris che sta lavorando alla stesura del suo ultimo libro, al Caffe’ degli Specchi, da sempre completamento elegante di Piazza dell’Unità, nella zona delle Rive sono tanti i luoghi in cui è possibile perdersi in atmosfere suggestive, in attesa della notte triestina.
La cucina locale è da tempo immemorabile un esempio di fusion food, risultato dell’incrocio di popoli e culture al pari dell’arte cittadina. Dallo strudel austriaco al goulash ungherese ai sardoni in savor e a tutto il pesce cucinato in tutti i modi possibili e raffinati conosciuti nell’Adriatico e nel Mediterraneo, è a tavola che si può misurare il livello di integrazione raggiunto dalle varie etnie che abitano a Trieste, città italiana a cui l’Italia va stretta da sempre. Si può trovare un angolo della Baviera di Ludwig II da Kapuziner dietro Piazza dell’Unità. O della Vienna tra le due guerre alla Birreria Forst in Piazza Oberdan. O gustare dell’ottimo pesce alla Vecchia Lira, locale di nuova apertura ma di buone tradizioni in Piazza Ponterosso.
Se poi si è in cerca dell’eccellenza e di una pausa nella giornata tipicamente triestina, il cosiddetto rebechin (spuntino o merenda a qualsiasi ora del mattino o del pomeriggio), c’è un nome solo: quello di Pepi, che i triestini chiamano S’ciavo (schiavo, appellativo anticamente riservato agli slavi) a sottolineare l’origine slovena dei proprietari. Nello storico locale sito in Piazza della Borsa, a suo tempo recensito addirittura dal New York Times, primo fast food dell’era moderna, si possono assaporare i piatti tipici di carne di maiale cucinati a caldaia: porcina, luganiga de Vienna e luganiga de cragno
Altro nome storico della ristorazione triestina è quello di Masè, presente nel centro città con diversi punti vendita e specialità di carne a caldaia, nonché il delizioso baccalà mantecato e il prosciutto cotto tagliato a mano. Altro santuario della cucina locale è Marascutti in Via Battisti. Il tutto annaffiato da ottima birra viennese, bavarese o addirittura australiana, o da buon vino bianco di uva Tokai o Terrano carsolino. E se a tavola ci siamo andati pesanti, c’è sempre dell’ottimo amaro sloveno Pelinkovac, e una splendida passeggiata sul lungomare, verso la Riva IV Novembre o verso la Riva Nazario Sauro, per godersi lo spettacolo della città e del golfo che le luci notturne rendono se possibile ancora più suggestivi, e delle prime barche da regata o da crociera che attraccano al molo per la Barcolana.

martedì 9 ottobre 2012

APPUNTI DI VIAGGIO: Trieste, il sogno neoclassico degli Asburgo

Arrivare a Trieste lungo la litoranea che da Sistiana scende a Barcola non è soltanto un itinerario geografico, ma piuttosto un’esperienza di vita, e di quelle intense. Dopo aver percorso il tratto terminale friulano della pianura padana, che costeggia il Carso fino a Duino ed al Lisert, all’improvviso ci si trova di fronte al mare, ed è sempre una vista che non lascia indifferenti.
Unico tratto italiano dell’Adriatico dove il sole va a morire sul mare, anziché nascervi, la città di Trieste sorge sulle rive di un ampio golfo contornato sullo sfondo dalle Alpi italiane e austriache e da un orizzonte sul quale nelle giornate migliori, quando la Bora ripulisce il cielo dalle nuvole, si può intravedere perfino Venezia ed il suo Campanile di San Marco.
In questo angolo di mondo che sembra essere stato dotato dalla natura di tutti i doni possibili, il porto naturale più ospitale e capiente del tratto di mare compreso tra la penisola balcanica e quella italiana, insieme alla politica illuminata adottata dai suoi possessori per ben sei secoli, gli Asburgo Imperatori d’Austria (non a caso ancora oggi rimpianti da molti “nostalgici”), ha fatto sì che sorgesse una delle città più cosmopolite e veramente internazionali d’Europa.
Superando il Castello di Miramare, costruito da Massimiliano d’Asburgo come residenza personale prima della sua sfortunata e fatale avventura in Messico, e poi base del Comando militare dei Blue Devils, i soldati americani di stanza a Trieste prima del suo ritorno all’Italia nel 1954, e la riviera di Barcola, di fronte alla quale si svolge la celebre regata annuale, ed arrivando al centro storico che sorge intorno al Porto Vecchio ed a quelle che i triestini chiamano le Rive, ci si accorge presto di essere arrivati nella capitale di tante cose: della Mitteleuropa, più di Vienna, Budapest o Praga, del Mediterraneo civilizzato dalla marina e dal commercio italiani, di un impero che aveva saputo trascendere la sua origine montanara austriaca per diventare il più straordinario melting pot di genti e di culture realizzato dall’uomo prima degli Stati Uniti d’America.
Trieste è la città della Bora, il vento di est-nord-est che trae origine dalla pianura ungherese e che quando soffia a più di cento chilometri orari (cioè quasi sempre) è capace di gettare in mare anche i veicoli più pesanti che si trovano sulle Rive. Ma è anche e soprattutto la città del Neoclassico, che qui ha avuto la sua massima espressione.
Basta mettere le spalle al Molo Audace (che prende il nome dall’incrociatore italiano da cui la mattina del 3 novembre 1918 scesero i bersaglieri con il tricolore a rivendicare la città al Regno d’Italia) e guardare verso la Piazza dell’Unità d’Italia, che già da sola offre gli splendidi esempi architettonici rappresentati dai palazzi una volta di proprietà del governatore imperiale o delle assicurazioni (Trieste fu il porto della penisola in cui i Lloyd di Londra scelsero di stabilirsi, fondando il Lloyd Triestino), e adesso sedi di Comune, Regione Autonoma e Prefettura.
Dalla piazza, poi, percorrendo le Rive o addentrandosi nell’interno per le vie del borgo medioevale o per i nuovi quartieri voluti nel settecento da Maria Teresa d’Asburgo fino alla Stazione e al Porto che la sovrana stessa volle come via d’accesso marittima all’Impero, è un percorso architettonico e culturale che sublima neoclassico e Mitteleuropa come non è dato di vedere da nessun altra parte.
L’antica città romana di Tergeste, costruita in un punto strategico per le comunicazioni tra le due penisole affacciate sull’Adriatico, aveva conosciuto una fase di decadenza durante il dominio della Serenissima repubblica di Venezia, che non tollerava concorrenti. Quello che fu vissuto come un pericolo mortale da gran parte dell’Europa e del Mediterraneo, l’ondata espansiva turca ottomana, si rivelò il colpo di fortuna decisivo per i triestini.
Gli Asburgo, unici sovrani dell’Europa dell’Est che parevano in grado di fermare la marea ottomana, si annessero la parte della penisola balcanica fino al nord della Serbia, compresa l’Istria e, appunto, Trieste. E quando Maria Teresa, la più lungimirante dei sovrani austriaci, desiderò dotare l’Impero di uno sbocco al mare che facesse concorrenza a Venezia, a Istanbul, a Genova e a chiunque altro nel Mediterraneo attirando i commerci del Commonwealth inglese, la città incontrò il suo destino.
Abbattute le mura medioevali, costruiti il porto e la ferrovia, attirati nella città commercianti e imprenditori di tutte le etnie e confessioni religiose, la grande impresa di Maria Teresa provocò dapprima il boom di abitanti (da 6.000 a 30.000 alla metà del 18° secolo) e poi, nel secolo successivo dopo la caduta della repubblica di Venezia, il suo primato economico e culturale. Trieste è a tutt’oggi l’unica città italiana in cui sono presenti edifici di culto di tutte le confessioni religiose europee. In particolare la chiesa serbo-ortodossa spicca per lo splendore della sua facciata, in un quartiere che di splendide chiese ne può vantare molte.
E molte sono le vestigia di un passato culturale glorioso. Da Italo Svevo, a Scipio Slataper, a Reiner Maria Rilke, a Umberto Saba (del quale si può ammirare ancor oggi la storica libreria dove lavorò), al triestino d’adozione James Joyce (che vi soggiornò a lungo e qui iniziò la stesura del suo capolavoro, l’Ulysses), la storia della letteratura a cavallo tra la fine dell’ottocento e la prima guerra mondiale fu scritta in gran parte qui. Pare che, in tutto il diciannovesimo secolo, il solo Stendhal rimanesse immune del fascino di questa città e proprio qui accusasse una pausa nella propria celebre sindrome. Come dire, l’eccezione (per quanto clamorosa) che conferma la regola.

lunedì 1 ottobre 2012

Lawrence d'Arabia,lo spirito dell'Occidente


Esce in versione restaurata e rimasterizzata uno dei capolavori assoluti del cinema mondiale. Lawrence d’Arabia è uno dei masterpiece di un regista che ha prodotto soltanto masterpieces, quel David Lean che aveva già girato il Ponte sul Fiume Kwai e che avrebbe proseguito con il Dottor Zivago, La figlia di Ryan e Passaggio in India.
Nel 1962, il kolossal interpretato da Peter O’Toole, Alec Guinness, Anthony Quinn, Anthony Quayle, Omar Sharif, e scusate se ho dimenticato qualcuno, vinse sette Premi Oscar, tra cui quello per il miglior film e quello per la miglior regia, seguiti l’anno dopo da cinque Golden Globe e da un Grammy Award a Maurice Jarre per quella splendida colonna sonora che a distanza di cinquant’anni ancora oggi commuove l’immaginario di chi lascia volare la propria fantasia verso il Medio Oriente.


Il film che Steven Spielberg ha definito «un miracolo, lo riguardo sempre prima di cominciare delle riprese», e che è stato inserito sia dal British che dall’American Film Institute ai primissimi posti della classifica dei migliori film del XX secolo, è tratto da quello che all’epoca fu un best seller di successo, I sette pilastri della saggezza, libro di memorie autobiografiche di uno dei personaggi più straordinari della storia moderna, il tenente colonnello dell’esercito inglese al tempo della Prima Guerra Mondiale Thomas Edward Lawrence, altrimenti conosciuto come – appunto – Lawrence d’Arabia.
Il colonnello Lawrence, in origine semplice ufficiale dell’esercito britannico impegnato in Palestina inviato in missione presso le tribù arabe per spingerle a sollevarsi contro i loro dominatori di allora, i Turchi Ottomani alleati di Germania ed Austria, grazie alle sue imprese che andarono ben al di là del mandato ricevuto dal generale Allenby diventò ben presto l’eroe della rivolta araba, riuscendo a compattare dietro di sé un intero popolo che non aveva goduto di nessuna libertà, dopo i secoli d’oro. Ma soprattutto eccitò la fantasia dell’opinione pubblica mondiale a tal punto da diventare l’unico vero eroe romantico di una guerra che di eroi e di romanticismo ne ebbe ben pochi.
Lawrence, negli anni in cui si moriva nelle trincee sulla Somme, sul Carso, sulle Ardenne, e si veniva più che altro sterminati dal gas nervino in posti come Yprés, si rivelò un condottiero degno di altri tempi, un Garibaldi della penisola araba. E, stando alla fedele rappresentazione sullo schermo operata dal maestro David Lean, addirittura forse un archetipo dell’uomo occidentale, imbevuto sì di cultura classica e quindi di ammirazione anche per quella araba del periodo aureo (prima che soldato e condottiero era stato archeologo e grecista, avendo curato una traduzione in proprio dell’Odissea di Omero) ma permeato di valori tipici di quell’individuo che, da quell’Ulisse che lui conosceva così bene in poi, avevano fatto progredire la civiltà inglese ed occidentale oltre ogni limite, se non quello che l’uomo stesso accetta di porsi.
Riassumere la trama di un film come Lawrence d’Arabia è impossibile, come lo è riassumere la vita avventurosa di un uomo che ha fatto la storia dell’occidente e dell’oriente, dalla conquista del forte di Aqaba (decisivo per il controllo del Mar Rosso) fino al suo esautoramento a Damasco, quando la realpolitik che voleva l’Arabia Saudita nelle mani della dinastia di re Faisal in cambio dei Protettorati francese e Britannico su Siria e Palestina si scontrò irrimediabilmente con il suo sogno di autodeterminazione per le tribù arabe che non capivano nemmeno il significato di questa parola. Lawrence, sconfitto ma pago di quanto aveva fatto, fu rimpatriato in Inghilterra dove cercò nuove imprese, in un mondo che cambiava diventando più moderno, ma non necessariamente più gradevole.
Nel 1935 trovò il suo destino mentre alla guida della sua moto assecondava l’ultima delle sue passioni cercando di superare un nuovo limite, quello di velocità. E’ la scena con cui si apre il film, che ripercorre la sua vita nel ricordo dei presenti alla sua cerimonia funebre. Ma la scena chiave, per chi ha colto l’essenza del personaggio, è quella in cui viene decisa l’impresa di Aqaba, che prevede l’attraversamento della parte più tremenda del deserto del Sinai, il Nefud. Un preoccupatissimo Omar Sharif, sceicco musulmano osservante ancorché già affascinato da quel bianco fuori del comune per cui avverte già un sentimento di ammirazione ed amicizia, gli dice: “Non puoi farlo, è scritto! Il Nefud non può essere passato!”

E Lawrence, dall’alto dei suoi tremila anni di storia cominciati quel giorno in cui Ulisse si presentò di fronte alle Colonne d’Ercole, e non si fermò, risponde: «Io lo farò. Perché è scritto qui». E indica la sua testa.

Buon compleanno 007





Il 1° ottobre 1962, preceduto da una sigla di apertura destinata a diventare leggendaria, la Gunbarrel, usciva nelle sale cinematografiche del Regno Unito e degli Stati Uniti Doctor No. Il film, prodotto da due sconosciuti, Harry Saltzman e Albert R. Broccoli, girato a basso costo da un regista altrettanto sconosciuto, Terence Young, ed avente come protagonista principale uno sconosciutissimo attore scozzese, tale Sean Connery, costituiva la trasposizione sullo schermo di un romanzo d’azione nato dalla fantasia di uno scrittore inglese che aveva da poco raggiunto una modesta notorietà, Ian Fleming.
Fleming era stato marinaio durante la seconda guerra mondiale, e poi giornalista. Dicono le cronache che si mettesse a scrivere nel 1952 un romanzo avente per protagonista un agente del servizio segreto inglese, il leggendario MI6, quasi per gioco, per alleviare le noie della vita coniugale. Il personaggio da lui creato, James Bond, nome in codice 007, agente britannico con licenza di uccidere al servizio di Sua Maestà e dell’Occidente, era l’ultima di una lunga serie di spie nate dalla fantasia letteraria di scrittori anche assai famosi, da Rudyard Kipling a Graham Greene, che si erano cimentati con il grande gioco in cui la Gran Bretagna era da secoli impegnata per la supremazia nel mondo prima e per la sopravvivenza poi. Fleming, modesto scrittore fino a quel momento, non poteva immaginare che proprio la sua creatura sarebbe diventata la spia più famosa di tutti i tempi, nonché uno dei personaggi di maggior successo della cinematografia mondiale.
A decretare il successo di James Bond, fu certamente il suo sbarco al cinema dei grandi effetti speciali nel momento in cui il mondo si scopriva più che mai terrorizzato dalla Guerra Fredda, dalla corsa ad armamenti sempre più tecnologici, sofisticati e micidiali, dall’ossessione per le Quinte Colonne, le spie, appunto, che si infiltravano nella nostra rassicurante società occidentale per sovvertirla, a beneficio di un avversario sinistro facilmente identificabile nel Blocco Sovietico prima, e nelle nascenti organizzazioni terroristiche internazionali poi. Era il 1962, l’anno della crisi dei Missili a Cuba, e di una Terza Guerra Mondiale (nucleare) sventata per un soffio. La presenza di Bond fu subito molto rassicurante.
Dopo un tentativo da parte di Fleming di realizzazione di una serie televisiva (sulla falsariga di altre che andavano per la maggiore all’epoca, come Il Santo, o il Prigioniero), Saltzman e Broccoli acquisirono i diritti d’autore del personaggio e produssero il primo film. Che non fu il primo libro, in ordine cronologico, di quelli scritti da Fleming, cioè Casino Royale (poiché il produttore che aveva già acquistato i diritti per la serie tv non accettò di cederli), ma bensì – appunto – Doctor No, in Italia tradotto in Licenza di uccidere. Ad impersonare l’agente segreto furono chiamati la star dell’epoca Cary Grant, che declinò ritenendosi troppo in là con gli anni, poi Roger Moore e David Niven. Entrambi rinunciarono a loro volta, essendo già impegnati nelle serie televisive suddette (anche se Moore aveva comunque Bond nel suo destino, e lo avrebbe incontrato 10 anni dopo). La scelta cadde alla fine su un oscuro attore scozzese, che fino a quel momento aveva recitato solo in alcune comparse, come il soldato nello Sbarco in Normandia nel Giorno più lungo di Darril F. Zanuck.


Nel primo film, Sean Connery fa il suo ingresso nei panni di 007 dopo una ventina di minuti circa, e non è una entrata in scena di quelle epiche. La cinepresa lo coglie seduto al tavolo da gioco, intento ad una di quelle partite a carte che saranno una delle sue specialità, ed è lì che riceve la chiamata di M, il capo dell’MI6, per la prima missione, indagare sulla morte di un collega in Giamaica. Niente di travolgente, ma dal momento in cui pronuncia la storica frase “il mio nome è Bond, James Bond” ha inizio la carriera straordinaria di uno dei più grandi attori di tutti i tempi. E insieme, la leggenda di 007.
Da allora, l’agente segreto più amato del mondo è tornato sullo schermo 22 volte in film ufficiali, e 2 in film cosiddetti apocrifi, cioè al di fuori dei diritti d’autore di Saltzman e Broccoli. Connery ha vestito lo smoking di Bond sette volte, altrettante Roger Moore che gli succedette nel 1973, una George Lazemby, due Timothy Dalton, quattro Pierce Brosnan e due l’attuale interprete, Daniel Craig, che l’ha impersonato anche nella cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici di Londra. Craig è in procinto di tornare a combattere per il mondo libero nel ventitreesimo episodio della serie, Skyfall, in procinto di uscire.

Buon compleanno 007. Cinquanta anni e non sentirli.


venerdì 21 settembre 2012

RENZIADE: Fenomenologia di Matteo Renzi

Diceva Thomas Paine che “il governo, nella migliore ipotesi, non è che un male necessario; nella peggiore, un male intollerabile". L’attivista radicale americano ideologo della ribellione delle colonie contro la madrepatria Inghilterra, scriveva per dare sostegno morale e filosofico all’azione intrapresa dai suoi compatrioti in rivolta contro il legittimo sovrano per diritto divino, come si diceva allora. Azione inaudita, per l’epoca, ma che poiché ebbe successo, passò alla storia come Rivoluzione Americana.
I suoi scritti, che per alcune posizioni allora ritenute estreme sconcertarono perfino i Giacobini francesi, oggi possono essere considerati patrimonio culturale comune di tutti i paesi che si ispirano ai valori che trionfarono con le due rivoluzioni americana e francese. Il principale, per l’appunto, si chiama Senso comune, come se l’autore preconizzasse che poiché le verità che affermava erano talmente evidenti e basate sul puro buonsenso, un giorno sarebbero state riconosciute per tali e poste a base della filosofia politica come postulati indiscutibili.
Il senso comune vuole che un governo, quando si pone come tirannico o comunque lontano dai desideri e bisogni del popolo, venga rovesciato dal popolo stesso. Dalle nostre parti, qualcosa del genere è stata affermata dal compianto ex Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che parlò esplicitamente dell’ammissibilità nel caso suddetto del ricorso a mazze e pietre.
Per il resto, sia il pensiero politico-filosofico, sostanzialmente fermo a Machiavelli ed al suo Principe, sia la mentalità spicciola e la prassi quotidiana del popolo italiano, sostanzialmente fermi a Masaniello e alle rivolte del pane dei Promessi Sposi (episodi fini a se stessi, nel mare magno dell’arte di arrangiarsi), non hanno consentito ai cittadini di questo paese grossi passi in avanti nel rapporto con i propri governanti, nonostante alcune conquiste ratificate dalla costituzione repubblicana.
Nel dopoguerra, stante la contrapposizione dei due blocchi occidentale e sovietico, abbiamo avuto una serie di governi che giustificavano la loro esistenza principalmente, e in alcuni momenti quasi esclusivamente, con la necessità di tenere lontano dal potere un’altra forza politica, il Partito Comunista, che si riteneva non compatibile con il sistema occidentale stesso, quando non addirittura asservito agli interessi dell’altro blocco.
Cosicché, un partito contraddittorio come la Democrazia Cristiana ha potuto governare ininterrottamente per quasi 50 anni senza mai correre o quasi il rischio di essere sconfitto per la semplice ragione che non esisteva alternativa. E’ rimasta celebre la frase di Indro Montanelli, che invitava i suoi lettori in occasione di ogni tornata elettorale a turarsi il naso ed andare a votare, per la DC o i suoi alleati, ovviamente.
Dopo un periodo iniziale caratterizzato dal grande carisma di Alcide De Gasperi e dalla grande paura
dell’Unione Sovietica guidata da Stalin, la DC ha protratto il proprio potere nel tempo nonostante la perdita progressiva di immagine causata da episodi di corruzione e di malgoverno conclamato che producevano altrettanti scandali, mai nessuno dei quali però decisivo, per la consapevolezza popolare che al governo non ci si ribella, al massimo gli si mugugna contro, ma da dietro le spalle. E poi perché, come si è detto, alternativa non c’era, o faceva comodo pensare che non ci fosse.
Finché l’ultimo di questi scandali, sfociato nell’inchiesta Mani pulite, poco dopo il crollo del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda che misero fine alla giustificazione dell’anticomunismo, riuscì a spazzare via Democrazia Cristiana e Prima Repubblica, illudendo chi sperava in un cambiamento epocale che quel momento fosse arrivato.
Ma è proprio allora che quegli italiani hanno appreso - dai loro stessi concittadini - la lezione storica più importante, che poi consiste sempre in una sostanziale parafrasi della celebre frase che Giuseppe Tomasi di Lampedusa mette in bocca al personaggio principale del suo Gattopardo, il Principe di Salina: in questo paese, tutto cambia sempre perché nulla cambi veramente..
Apparve chiaro allora e lo è rimasto in seguito che qui si va sempre a votare non per l’alternativa migliore, ma per quella meno peggio. A DC e PCI successero da un lato un partito nato dalla trasposizione armi e bagagli in politica di una azienda privata e dei suoi interessi in conflitto, dall’altro una gioiosa macchina da guerra che dicevano avesse chiuso i conti con un passato dai risvolti abbastanza sinistri ma che sotto la quercia aveva ancora la falce ed il martello (e soprattutto, come ha dimostrato e dimostra tutt’ora ove ne ha la possibilità, poca o nessuna cultura amministrativa).
Una cosa accomuna sempre gli elettori di destra a quelli di sinistra in Italia: sono regolarmente costretti a turarsi il naso con forza per spuntare sulla scheda il nome di personaggi più o meno inguardabili con l’unica consolazione vera o presunta che quelli dall’altra parte sono anche peggio.
Nell’anno di grazia 2013, quando dicono che i poteri forti che governano l’Europa adesso consentiranno anche a questo Belpaese di tornare a votare (cosa per la quale, evidentemente, non eravamo pronti - o meritevoli - nel 2011), a quanto pare si riproporrà la stessa alternativa di sempre. Gli attori in gioco sono arcinoti, e tutti ormai abbondantemente indigesti ad un popolo che sta pagando duramente una crisi economica prodotta in buona parte dai suoi stessi governanti (con la sua acquiescenza). Qui interessa parlare del cosiddetto nuovo che avanza.
Scontata l'affermazione di Lega Nord e Movimento Cinque Stelle come catalizzatori del voto di protesta trasversale, il fenomeno chiave da monitorare sarà, una volta di più, quello di Matteo Renzi. L’uomo che esordì in pubblico nello studio televisivo di Mike Bongiorno, meriterebbe forse che Umberto Eco gli dedicasse (come fece per lo stesso Mike nel 1961 nel suo Diario minimo) uno studio di fenomenologia.
L’uomo che si schiera con Marchionne in un paese di sempre più disoccupati, l’uomo che vorrebbe far funzionare l’Italia e per il momento amministra la città più sporca e mal funzionante d’Italia, l’uomo che vorrebbe rottamare il Partito Democratico e che si candida dentro il Partito Democratico, che vorrebbe rottamare Berlusconi eppure deve tutto a Berlusconi, soprattutto il modo come buca lo schermo e si pone in sintonia con i sentimenti spesso inespressi della gente comune; quest’uomo si appresta a riscuotere una valanga di consensi, sorprendenti (adesso come quelli di vent’anni fa per Berlusconi) solo per chi analizza la politica dalle stanze della politica e dalle redazioni dei giornali, non tra la gente comune.
Per capire questo, basta sintonizzarsi per una settimana su una delle tante rubriche di approfondimento che la TV ci propone (e propina) quotidianamente. Dopo aver visto scorrere il Museo delle Cere (o degli Orrori) dei protagonisti della vita politica della Seconda Repubblica, dopo aver sentito dire a Vendola che stanno seriamente pensando di candidare Prodi al Quirinale, o a Rosy Bindi che nel programma di Renzi c’è solo l’attacco personale a lei (e viene da mordersi lingua e quant’altro ripensando alla celebre battutaccia di Berlusconi), o Bersani dire qualcosa che francamente non capiscono nemmeno al suo paese, o quelli del PDL dire che nel Consiglio Regionale del Lazio ci sono dei rubagalline (come 20 anni fa nel partito socialista c’erano dei mariuoli, abbiamo poi visto come è andata a finire), dopo aver sentito il decano sopravvissuto dei giornalisti Eugenio Scalfari pontificare su come Mario Monti sia il migliore dei presidenti del consiglio possibili, ecco che arriva Matteo Renzi.
Non dice altro che quello che sa che la gente, devastata da una crisi spaventosa e dai ricami sconcertanti che ci fanno sopra i suoi politici (che bruciano risorse come Maria Antonietta mangiava le brioches alle Tuileries), vuole sentirsi dire. Magari nonsense agghiaccianti, o posizioni contrarie a quel senso comune che da Tom Paine ad oggi anche in Italia ci eravamo abituati ad esercitare. Ma li dice con sicurezza e convinzione, o almeno così pare alla stessa gente.
Quando un popolo è abituato ad attendere l’Uomo della provvidenza, e ad andargli dietro se questo si
presenta al momento giusto, quando cioè la crisi morde le caviglie a sangue, quell’uomo sa che è solo
questione di tempo, di non fare gaffes come quella di Romney in America, e se non intervengono giochi strani, avrà la sua chance. E la coglierà. Non perde mai la sua sicurezza, o sicumera, Matteo Renzi. Vorrà pur dire qualcosa. 
Quanto ci manca Indro Montanelli…..