domenica 26 agosto 2012

Addio Comandante Armstrong, primo uomo sulla Luna


NEW YORK, N.Y. - Il Comandante Neil Armstrong è decollato ieri per il suo ultimo volo, quello che lo porterà a stabilirsi nel cielo che aveva solcato tante volte, fino allo spazio profondo. Si è spento all’età di 82 anni per complicazioni cardiovascolari dovute ai postumi di un delicato intervento subito al cuore ai primi di agosto.
Questa volta, non ha avuto il tempo e il modo di pronunciare una frase storica adeguata, ma quelle che ci lascia, assieme ai momenti in cui le ha dette, bastano e avanzano a fare di lui se non uno dei più grandi eroi americani di sempre, come ha commentato il Presidente Obama, di sicuro uno dei personaggi più leggendari della storia del ventesimo secolo e forse di sempre.
Insieme ad Edwin Buzz Aldrin e a Michael Collins, Neil Armstrong faceva parte dell’equipaggio di quell’Apollo 11 che per la prima volta nella storia del mondo andò ad atterrare su un pianeta diverso da quello su cui era stato costruito. Era il 20 luglio 1969. Armstrong, pilota e collaudatore di aerei provetto fin dai tempi della Guerra di Corea, era stato aggregato al Programma Spaziale Apollo, ordinato nel 1961 dal Presidente John Fitzgerald Kennedy per riprendere la supremazia nello spazio ai sovietici, dopo che questi avevano lanciato nel 1957 la prima navicella nello spazio e nel 1961 vi avevano spedito il primo uomo, Yuri Gagarin.
In fretta e furia gli americani, terrorizzati da un sorpasso tecnologico russo in piena Guerra Fredda, concentrarono i migliori e più coraggiosi piloti in un team esclusivamente dedicato alla corsa allo spazio, e finalmente nel 1969 venne il momento che ha fatto sognare una generazione in diretta, e quelle successive nella memoria e nella nostalgia: lo sbarco sulla Luna.
Neil Armstrong era un uomo coraggioso, e consapevole del momento che grazie a lui l’umanità stava vivendo. Così, dopo aver guidato personalmente e con estremo sangue freddo il modulo di atterraggio Eagle sul suolo lunare (escludendo il computer di bordo che faceva i capricci), pronunciò la prima delle sue storiche frasi: «Houston, qui Base della Tranquillità. L’Aquila è atterrata».
Poi venne il momento che nessuno potrà scordare (per noi italiani commentato dalle storiche voci di Ruggero Orlando e Tito Stagno), quello in cui Armstrong scese a passi incerti dovuti alla ridotta gravità lunare i gradini della scaletta dell’Aquila, per andare a lasciare la prima impronta su un pianeta diverso da quello di origine. Le sue parole di allora sono ormai in tutti i libri di storia: «un piccolo passo per me, ma un grande passo per l’umanità».
Fu il primo grande evento mediatico dell’era moderna, attraverso una televisione ancora in bianco e nero. Fu anche la presa di coscienza collettiva che alla razza umana non erano posti limiti, se non quelli stessi che essa voleva darsi. Vennero poi la tragedia sfiorata dell’Apollo 13 e la crisi economica degli anni 70 a ridimensionare l’euforia generata dalle passeggiate lunari di Armstrong. 
Il quale, spentisi i riflettori sulla sua impresa, non ebbe problemi a ritornare, come un vero Cincinnato dell’era moderna, a insegnare la sua materia, Ingegneria, all’Università. Solo un paio di anni fa era riemerso dall’oblio, per criticare pubblicamente la politica spaziale di Obama, che ha ridimensionato il ruolo della NASA per affidare la corsa alo spazio alle compagnie private. Al vecchio pioniere la privatizzazione dello spazio non piaceva.

Addio Comandante Armstrong. Ti sia piacevole il viaggio verso quel cielo a cui tu appartieni da sempre.

lunedì 13 agosto 2012

DIARIO OLIMPICO: Addio Londra. La fiamma olimpica si è spenta.


LONDRA - Addio Londra. Arrivederci Olimpia. La fiamma si è spenta stanotte alle 24:00 circa, ora di Greenwich, a chiusura della edizione dei Giochi Olimpici più rock e più glamour che la storia ricordi. Del resto, il mondo (non solo quello sportivo) non si era riunito per la terza volta nella capitale britannica per caso, ma bensì per ritrovare quella sua anima swinging che già cinquant’anni fa aveva cambiato la nostra società e la nostra vita in un modo che allora era sembrato migliore.
Con una cerimonia di chiusura più informale e tuttavia più suggestiva di quella di apertura, è andata in archivio la XXX Olimpiade dell’Era Moderna. Le grandi stelle del Rock di tre o quattro generazioni hanno preso il palcoscenico che per 16 giorni era stato degli atleti, e hanno dato vita a uno spettacolo a cui, da Woodstock in poi, siamo certamente ormai abituati ma che ogni volta si rinnova in un nuovo evento memorabile quanto i precedenti.
E così, alla fine, quando Roger Daltrey degli Who ha chiuso il concerto con My generation è sembrata a tutti la scelta migliore. Dagli anni cinquanta in poi tutte le generazioni hanno celebrato se stesse e la propria voglia di vivere in modo sempre diverso da quelle precedenti qui, a Londra.
Gli atleti, disposti sul terreno dell’Olympic Stadium di Stratford (per l’occasione riadattato a rappresentazione vivente della Union Jack, la bandiera britannica) sono sembrati per due ore nient’altro che fans delle stelle del rock sul palco, se non fosse che molti avevano al collo ed esibivano le medaglie olimpiche conquistate nelle settimane passate.
Londra e la Gran Bretagna hanno dunque celebrato se stesse nel modo più appariscente ed efficace, e non solo a livello musicale. Sebastian Coe, presidente del Comitato Organizzatore, ha potuto a buon diritto esibirsi in un discorso degno della migliore tradizione britannica, giustamente orgoglioso di quanto il suo paese ha fatto per questi Giochi Olimpici e dell’immagine che ha dato al mondo. When came Great Britain’s time, we did it right.
Dal lato sportivo, vanno in archivio dei Giochi molto spettacolari, non solo perché si sono svolti negli avveniristici e splendidi impianti costruiti dagli inglesi, ma anche per i risultati e per i personaggi che li hanno ottenuti. Storie affascinanti, come quelle dei cannibali Phelps e Bolt che hanno allungato di un’altra olimpiade la loro leggenda.
Come quelle di tutte le donne che hanno superato i maschi nella conquista delle medaglie nelle grandi realtà sportive quali USA e Cina, o che hanno superato ostacoli ancora più grandi emergendo in paesi e in realtà sociali dove la condizione femminile è ancora problematica, se non drammatica. Un nome su tutti, quello di Sarah Attar, la judoka saudita prima donna della storia qualificata alle olimpiadi per il suo paese. L’eco della standing ovation che ha ricevuto entrando nella Wembley Arena non si spegnerà tanto presto nelle  nostre orecchie.
E poi le storie italiane, quelle di sempre, di ragazzi che per quattro anni lottano e si sacrificano per pochi giorni di notorietà, in un paese dove gli impianti sportivi non esistono quasi più, dove le federazioni servono ormai da anticamera della politica e dove la stampa si ricorda di loro solo per fare del sensazionalismo, e riempire pagine che d’estate sarebbe difficile riempire altrimenti. E il tutto finisce con un ricevimento al Quirinale, poi di nuovo nell’oblio.
Ma loro, i ragazzi, scrivono sempre belle storie, o comunque storie appassionanti, per chi abbia voglia di leggerle veramente. Londra ha segnato il passo d’addio di alcune grandi signore dello sport italiano, Valentina
Vezzali, Josefa Idem e forse anche Federica Pellegrini. Londra ha visto le lacrime di gioia di squadre che si sono ritrovate, e quelle di rabbia di altre che si sono perse.
Londra ha visto medaglie italiane conquistate all’ultima freccia, e pugni inglesi immaginari contro volti italiani che avevano già l’espressione d’orgoglio per un nuovo trionfo. Londra ha visto una ragazza che si è allenata a sparare sotto il terremoto, e il cui braccio non ha mai tremato. E altri ragazzi che invece si sono persi perché non ricordano più cosa vuol dire soffrire. E’ la legge dello sport, quattro anni sono tanti e lasciano il segno, finché si trova qualcuno che ha più fame, come una volta l’avevamo noi.
E’ il momento di chiudere, di mettere tutto nel cassetto dei ricordi. Ma non prima di aver fatto un augurio speciale ad Alex Schwazer: che quello che è successo sia stato davvero l’inizio del suo sogno più grande, quello a cui lui stesso ha detto di aspirare di più. Una vita normale. Arrivederci a Rio de Janeiro alla gioventù di tutto il mondo, e anche a chi avrà voglia di rimanere giovane.

martedì 7 agosto 2012

DIARIO OLIMPICO: Alex Schwazer, quando cadono gli eroi



LONDRA - Alex Schwazer, medaglia d’oro a Pechino nella 50 chilometri di marcia, non difenderà il suo titolo a Londra. Non andrà nemmeno nella capitale britannica. Il CONI ha deciso di fermarlo dopo che l’azzurro è risultato positivo all’Eritropoietina (Epo) a seguito di un test a sorpresa effettuato dalla World anti-Doping Agency (Wada, l’Agenzia indipendente che esegue i controlli antidoping per le federazioni sportive di tutto il mondo) il 30 luglio scorso a Oberstdorf in Germania, località dove risiede la sua fidanzata, la pattinatrice Carolina Kostner.
«Ho sbagliato io, volevo essere più forte, la mia carriera è finita», sono le parole con cui il campione altoatesino ha commentato a caldo la notizia esplosa ieri nei flash di tutte le Agenzie d’informazione. In effetti, in questa frase c’è la sintesi di tutta la vicenda, e poco altro da aggiungere.
Il momento più duro dell’ultima giornata da atleta di Schwazer è stato quando ha dovuto comunicare la sua squalifica al suo allenatore Michele Didoni, ex campione mondiale di marcia. «Siediti! Il fermato per il doping
sono io». Didoni parla di tradimento, di immaturità, di presa in giro, tra le lacrime. Petrucci, presidente del Coni, parla con rabbia di giornata amara, sconvolgente, e di decisioni irrevocabili che arriveranno «Una medaglia in meno e pulizia in più».
Oro a Pechino, polvere a Londra. La parabola del marciatore di Vipiteno ripercorre quelle drammatiche di altri campioni, altri beniamini della gente appassionata di sport. Il pensiero va innanzitutto a quel Ben Johnson che sembrava dominare la scena della corsa veloce alla fine degli anni ’80 avendo interrotto il dominio del figlio del vento Carl Lewis.
Dapprima ai mondiali di Roma nel 1987 e poi alle olimpiadi di Seul nel 1988, il canadese di origine giamaicana stabili record strepitosi e stravinse la medaglia d’oro. Ma tre giorni dopo la impressionante vittoria nei 100 metri piani con record del mondo 9’79 e braccio alzato negli ultimi metri quasi a irridere l’avversario, Johnson fu trovato positivo relativamente all’uso di steroidi anabolizzanti. Conseguentemente fu squalificato, i suoi record cancellati e le medaglie revocate.
Carl Lewis, al momento di ricevere la medaglia d’oro olimpica (la seconda dopo quella di Los Angeles) dichiarò che comunque niente avrebbe potuto restituirgli quella sensazione di vittoria che avrebbe provato senza la prestazione dopata di Johnson, e che quindi non avrebbe mai potuto riavere ciò di cui era stato veramente defraudato. Johnson dal canto suo, pur ammettendo la sua colpa, gli rispose di avere soltanto ecceduto in quello che facevano tutti, Lewis compreso: aiutarsi con sostanze proibite per restare al top delle prestazioni atletiche.
Olimpia quindi inquinata dal doping, di stato o privato. Lo si sa dal dopoguerra, quando le grandi potenze (anche sportive) cominciarono a farsi la guerra per primeggiare anche sotto la bandiera a cinque cerchi. Ma il
doping non aspettava e non aspetta quattro anni, da un’olimpiade all’altra. Ormai pervade l’attività sportiva a tutti i livelli, in tutte le discipline, ogni giorno.
La vicenda che torna alla mente (e al cuore) degli appassionati italiani più immediatamente e dolorosamente è quella del “Pirata”, Marco Pantani. Alla fine degli anni ’90, il corridore di Cesena si stava affermando come l’ultimo splendido erede di Coppi e Bartali, l’ultimo italiano a compiere l’impresa di vincere Giro d’Italia e Tour de France nello stesso anno, il 1998.
L’anno dopo, mentre si apprestava a bissare il successo al Giro, fu fermato alla penultima tappa perché risultato positivo a un controllo del sangue. Il suo ematocrito aveva valori oltre il consentito, e così Marco fu una delle prime vittime accertate dell’abuso di Epo. Dalle stelle alla polvere nel giro di pochi giorni, il Pirata non si riprese più, cadde in depressione e concluse la sua carriera in una stanza d’albergo a Rimini, a seguito di un arresto cardiaco dovuto all’uso di sostanze stupefacenti.
La vicenda di Marco Pantani ha probabilmente permesso da un lato alle autorità sportive di mettere a fuoco il problema dell’Eritropoietina e delle altre sostanze dopanti negli sport di massa come il ciclismo (è emerso infatti che perfino ai livelli amatoriali si fa uso diffuso di queste sostanze per aumentare non si sa bene quali prestazioni) e a stabilire dei controlli più capillari ed efficaci, nell’ultimo dei quali pare essere incappato lo stesso Alex Schwazer. Ma ha forse consentito a tanti colleghi del Pirata di farsi più furbi, se è vero – per fare un esempio - che il suo successore, quel Lance Armstrong che ha vinto sette volte il Tour, è stato ampiamente e apertamente “chiacchierato”, ma a suo carico non è emerso mai nulla o quasi.
Chi è senza peccato scagli la prima pietra, ha dichiarato ieri sera Stefano Tilli, che conosce l’ambiente delle gare in generale, e olimpico in particolare. Certo è che a Olimpia ormai certi peccati sembrano essere diventati la regola. Ma gli eroi, quando cadono, fanno sempre lo stesso rumore.

lunedì 6 agosto 2012

Enola Gay

Il 6 agosto 1945 un bombardiere B-29 Superfortress decollò dalla base americana di Tinian nelle Filippine diretto verso la città di Hiroshima, al limitare sud dell’isola principale dell’arcipelago giapponese. Quell’aereo era stato battezzato il giorno prima dal suo comandante, il colonnello Paul Tibbets, con il nome di Enola Gay, in onore della propria madre secondo un’usanza molto in voga nell’esercito americano.
A bordo dell’Enola Gay, c’era un carico dal nome altrettanto amichevole, frivolo se si vuole: Little Boy. L’aereo in realtà trasportava la più micidiale arma di distruzione mai messa a punto dall’uomo in tutta la sua storia: Little Boy infatti altro non era che la prima bomba atomica, messa a punto negli ultimi mesi della guerra dagli scienziati riuniti a Los Alamos nel Nuovo Messico dal governo americano nel tentativo spasmodico di arrivare a possedere l’arma risolutiva prima della Germania di Hitler.
L’impresa, definita Progetto Manhattan, aveva avuto successo, e a Potsdam dove era riunito in conferenza con i suoi alleati dalla metà di luglio, il presidente americano Truman aveva proposto l’impiego della bomba atomica quale mezzo per ottenere la rapida capitolazione dell’ultima potenza dell’Asse ancora belligerante, il Giappone, e “risparmiare” in questo modo vite umane. Gli Alleati, Churchill e Stalin, avevano acconsentito, e così Enola Gay e il suo Little Boy erano stati spostati nelle Filippine. Fu lì che ricevettero l’ordine esecutivo di decollo.
La missione fu definita nei verbali dell’aviazione USA “un successo impeccabile”. La bomba, sganciata sulla città che fino a quel momento era stata risparmiata dai bombardamenti americani, esplose ad un'altitudine di 576 metri con una potenza pari a 12.500 tonnellate di TNT. Il ragazzino provocò circa 130.000 morti immediate, mentre altre 180 000 persone morirono negli anni successivi a causa delle radiazioni. Si calcola che nel 2002 gli hibakusha (i colpiti dalle radiazioni del fallout nucleare), nonostante i 57 anni trascorsi, fossero ancora 285.000.
La vista del primo fungo atomico della storia e la presa di coscienza delle sue devastanti conseguenze ebbero un impatto enorme sul mondo, facendo comprendere a tutti che era finita per sempre l’era delle guerre convenzionali e cominciata invece una nuova era di terrore tecnologico. Il Giappone, prostrato dalla bomba di Hiroshima e da quella sganciata poi tre giorni dopo su Nagasaki, mise da parte ogni velleità di resistenza ad oltranza e chiese la resa.
Le grandi potenze vincitrici della seconda guerra mondiale si gettarono quindi a capofitto nella preparazione del conflitto successivo, la Guerra Fredda, e di quella che sarebbe stata la sua arma principale. Di lì a poco si sarebbe sviluppata una nuova dottrina politica, basata sul cosiddetto “equilibrio del terrore”. Una dottrina destinata a durare a tempo indeterminato.
Enola Gay andò in pensione poco dopo la fine delle ostilità, divenendo proprietà dello Smithsonian Institute, il più importante museo americano. Il suo comandante, quel Paul Tibbets che si dice avesse esclamato la fatidica frase “Mio dio, cosa abbiamo fatto!” subito dopo lo sgancio della bomba, continuò una brillante carriera nell’Air Force americana, ma fu fatto oggetto di odio nella società civile un po’ in tutto il mondo, a causa di quello che ormai rappresentava, per tutto il resto della sua vita.

L’uomo che aveva dato il nome della madre all’aereo che portava il più spaventoso carico di morte della storia riposa adesso in una tomba, a Columbus, Ohio, che non ha nome.

domenica 5 agosto 2012

Goodbye Norma Jeane, 50 anni senza Marylin


Goodbye, Norma Jeane, come cantava un giovane Elton John, forse il poeta che meglio ha raccontato la sua vita. Cinquanta anni fa moriva Norma Jeane Baker, o forse Mortenson, o forse Glifford. Non aveva mai saputo chi fosse il suo vero padre, tra tutti gli uomini che aveva avuto sua madre, Gladys Pearl. Per partorirla, il 1° giugno del 1926, Gladys si era potuta ricoverare al Country Hospital di Los Angeles solo grazie alla colletta di alcuni amici. Malata di cinema, battezzò poi la figlia con i nomi di due delle sue attrici preferite, Norma Talmadge e Jean Harlow, e con il cognome che sembra fosse più probabile, Baker.
Questa sarebbe stata la sua storia, se lei avesse accettato il suo destino. Il mondo però avrebbe conosciuto la sua leggenda con un altro nome: Marylin Monroe. Sfuggendo a una vita che la voleva figlia di una madre mentalmente instabile, oggetto delle attenzioni poco solerti di assistenti sociali, ospite infelice di orfanotrofi degni protagonisti di un film di Raymond Chandler o di un best seller di Michael Connelly, vittima di molestie sessuali da parte di improbabili tutori nominati da altrettanto improbabili tribunali, e perfino succube di un matrimonio di convenienza organizzato dalla madre, Norma Jeane visse al meglio il sogno americano passando da una adolescenza fatta di scuole superiori sofferte a servizi fotografici anticamera del dorato, e a caro prezzo raggiunto, mondo del cinema.
La storia è quella che abbiamo sentito raccontare tante volte: nel 1949, il destino mise sulla sua strada il calendario sexy Miss Golden Dreams. Compenso 50 dollari. Norma Jeane, che non se la passava ancora gran che bene, accettò. Le sue foto nude finirono su Playboy, vennero dapprima censurate, ma le aprirono le porte di Hollywood. Era il momento di trovarsi un nome d’arte. Il cognome scelto fu quello della sua nonna materna, probabilmente l’ultimo ricordo felice del’infanzia. Il nome, Marylin, pare fosse scelto perché suonava bene sulle labbra, con la doppia M. Marylin Monroe.
Era bella, Marylin. Bella da impazzire. Da Elia Kazan, a Robert Slatzer a Joan Crawford, a Joe Di Maggio, a Greta Garbo, a Frank Sinatra, il jet set americano perse ben presto la testa per lei. Nel 1953, con Niagara diventò una star del cinema, grazie a Darryl F. Zanuck che vide in lei anche una grande attrice. Seguì Billy Wilder, che le fece girare alcune indimenticate commedie, mai più superate come capolavori, come Quando la moglie è in vacanza e Fermata d’Autobus.
Dopo Joe Di Maggio, sposò in terze notte l’autore teatrale Arthur Miller, e dicono che fu a questo punto che la sua vita, sopravvissuta a tanti drammi e sofferenze, andò in crisi. Combattere nei bassifondi per emergere non era pesato a Norma Jeane. Lottare per avere la stima di intellettuali che vedevano in lei una bellissima donna da scopare e basta si rivelò troppo, per una donna che forse aveva una intelligenza pari alla sua straordinaria bellezza.
Tra la fine degli anni 50 e l’inizio dei 60, i suoi film furono tutti capolavori, da A qualcuno piace caldo a Gli spostati, suo ultimo film. Ma ormai, più che le sceneggiature e i registi di successo, suoi fedeli compagni erano diventati gli psicofarmaci. Era ormai pronta per la psicanalisi e tutto ciò che ne consegue, quando il destino le gettò tra le gambe l’ultimo ostacolo, insormontabile: entrare nel mirino della famiglia reale. I Kennedy.
Prima JFK, poi il fratello Robert, ne fecero il gioiello più brillante della corona, o forse lo scalpo più prestigioso di una vita sessuale da rapaci. Non sapremo mai quanto di vero c’è nella voce che nel letto di Marylin fossero stati rivelati segreti troppo scottanti. O che forse lei fosse incinta del Kennedy più giovane. O che semplicemente la sua ansia di essere accettata come donna intelligente e non solo come icona sessuale avesse sbattuto irreparabilmente contro la constatazione che gli uomini, quelli potenti, che avrebbero potuto consacrarla in quel mondo dorato a cui aveva sempre sognato di appartenere, in realtà non l’avrebbero mai presa in considerazione fuori dal letto.
Il 19 maggio 1962 Marylin Monroe cantò Happy Birthday Mr. President al penultimo compleanno di JFK. Il 1° giugno fu licenziata dalla Twentieth Century Fox dalle riprese del film Somethin’s got to give con la scusa di scarso impegno nelle riprese. Ai primi di agosto il giudice le dette ragione, reintegrandola nella Fox, che avrebbe dovuto farle girare altri film. Il 4 agosto incontrò il suo psichiatra, dicendogli di essere «di ottimo umore e di non essere mai stata così contenta».
La mattina del 5 agosto 1962 lo stesso psichiatra, chiamato alle tre di notte dalla sua governante preoccupata, trovò Marylin morta nel suo letto, completamente nuda come era suo solito dormire e con il telefono in mano. L’autopsia avallò un referto in base al quale l’attrice era morta per overdose di barbiturici. L’inchiesta della polizia, a detta di tutti, fu estremamente sciatta e frettolosa, e soprattutto evitò di approfondire la presenza confermata da testimoni di Robert Kennedy, fratello del presidente e Ministro della Giustizia in carica, a casa di Marylin poche ore prima della sua morte.
Misteri di Camelot. Leggende che vivono dentro altre leggende. Quella di Norma Jeane, comunque sia andata, è una delle più belle. Marylin Monroe era così bella e affascinante che da 50 anni dopo la sua morte sta facendo sognare intere generazioni che non l’hanno nemmeno conosciuta dal vivo. Come James Dean, altra leggenda fermata nel tempo, per lei vale il detto antico chi muore giovane è grato agli dei.

Grazie a Elton John, che a tutt’oggi è l’unico che abbia saputo celebrare questa splendida donna. In ogni senso.

sabato 4 agosto 2012

DIARIO OLIMPICO: Oscar Pistorius, la cosa più veloce senza gambe



LONDRA - Oscar Pistorius è in semifinale nei 400 metri alle Olimpiadi. Il ragazzo che corre sulle cheetah, protesi in fibra di carbonio che sostituiscono le gambe amputategli a soli undici mesi di vita per una gravissima malformazione, l’uomo che è stato soprannominato the fastest thing on no legs (la cosa più veloce senza gambe), ha coronato un sogno. Quello che si porta dentro da tutta la vita.
Come dice sua madre, non è un perdente chi arriva ultimo, ma chi resta seduto a guardare. Oscar, a guardare, non c’è mai rimasto. Fin dai tempi della scuola superiore, ha praticato sport niente affatto semplici quali il rugby e la pallanuoto. Poi un infortunio l’ha costretto a passare all’atletica, prima per riabilitazione e poi per scelta.
Lunghi anni di allenamenti, poi la chance della vita. Viene selezionato dal suo paese, il Sudafrica dove più nessuno è segregato, per le Paralimpiadi di Atene 2004. E’ un outsider, ma vince il bronzo nei 100 e l’oro nei 200, superando atleti più quotati provenienti da un paese più avanzato, gli Stati Uniti d’America.
Se è lecito sognare, allora il sogno non ha limiti. Il neocampione paralimpico si guarda dentro, e trae le ovvie conclusioni: se posso correre con gli atleti amputati, perché non posso farlo con i normodotati? Perché non posso andare alle Olimpiadi?
Già, perché? Nel 2005 Pistorius avanza la richiesta al federazione Atletica Internazionale di essere omologato e di poter pertanto partecipare ai Giochi successivi, che si terranno a Pechino. Soltanto a pochi mesi dal loro inizio, giunge la risposta, raggelante, della I.A.A.F. non è possibile, un atleta che utilizzi queste protesi ha un vantaggio meccanico dimostrabile (più del 30%) se confrontato con qualcuno che non usi le protesi.
Il ricorso di Pistorius al Tribunale Sportivo gli da ragione, le argomentazioni del C.I.O. vengono giudicate pretestuose e infondate, ma ormai è tardi, manca un paio di mesi alle Olimpiadi e Oscar non riesce a realizzare il tempo minimo per qualificarsi, senza adeguata preparazione. Alle Paralimpiadi, in compenso, stavolta vince tutto: 100, 200 e 400 (in questa ultima disciplina fa addirittura il record del mondo paralimpico).
Dal 2011 si allena in Italia, a Gemona del Friuli insieme ad altri atleti sudafricani, e con loro realizza il tempo minimo per andare a Londra. Il resto è storia di oggi. Il primo atleta biamputato della storia a partecipare alle
Olimpiadi si è qualificato stamattina alle semifinali (cioè nei primi 16 del mondo) con il tempo di 45’44, primato personale stagionale. Cos’altro può fare, a questo punto, è nella mente di Dio, sia nella prova individuale che nella staffetta, in cui difenderà i colori del Sudafrica.
Quello che conta è quello che ha fatto. A 26 anni, Oscar Pistorius ha scalato il mondo, ha corso più veloce di quasi tutti gli uomini più fortunati di lui. E comunque vada, ha vinto. Aveva ragione la sua mamma.
Stamattina, signori, è cominciato un mondo nuovo.

venerdì 3 agosto 2012

DIARIO OLIMPICO: Valentina Vezzali, la leggenda



LONDRA - Alzi la mano chi non si è commosso, quando Valentina si è inginocchiata dopo aver messo a segno la quarantacinquesima stoccata che è valsa la medaglia d’oro alla squadra di fioretto femminile italiana a Londra, ennesimo trionfo di una scuola e di un movimento che non hanno più limiti. E di una campionessa come non ce ne sono mai state e non ce ne saranno, forse, più.
Schiantata anche la Russia 45-31, dopo la Francia in semifinale, la squadra italiana ha bissato, per l’ennesima volta, l’apoteosi della prova individuale. Alla premiazione c’erano solo le azzurre sul palco, a ballare la loro gioia di fronte al mondo. E in mezzo alle azzurre c’era lei, come tante altre volte negli ultimi vent’anni.
E’ stato un doveroso omaggio ad una carriera leggendaria che lei sia stata scelta come portabandiera della squadra italiana a Londra. Ed è stato un omaggio altrettanto doveroso che l’ultimo assalto in pedana sia toccato a lei, che forse abbiamo visto danzare per l’ultima volta con il fioretto in pugno, fino all’urlo liberatorio finale.
Grande Valentina. La fuoriclasse che nasce una volta ogni cento anni. E pensare che alle prime olimpiadi della sua carriera, quelle di Barcellona 1992, non fu neanche convocata, tanto era forte la squadra di allora con Tillini, Bianchedi & C, nonostante lei avesse già nel suo palmares vari allori europei e mondiali. Ma si rifece a partire da Atlanta 1996, argento individuale e oro con la squadra. E da allora non si è fermata più.
Tre ori consecutivi a Sidney, Atene, Pechino. Nel mezzo una maternità che non l’ha minimamente menomata, restituendola anzi più forte di prima. Nella prova individuale è stata la terza sul podio, dietro le più giovani colleghe Di Francisca ed Errigo, la nouvelle vague a cui sta passando il testimne. Nella finale per il bronzo, ha
rimontato da 8-12 a 13 secondi dalla fine, con 5 stoccate consecutive. Una cosa mai vista, e forse l’immagine più forte che ci porteremo dietro di lei.
Prima delle olimpiadi di Londra, Valentina – che ha eguagliato il record di vittorie del leggendario Edoardo Mangiarotti (19) – ha fatto sapere che con queste si concluderà la sua carriera. E’ giusto così, Valentina. Resteremo con l’ultima immagine di te, grandissima e invincibile, inginocchiata a lanciare un urlo di vittoria che non finirà più.