giovedì 30 aprile 2015

Vietnam giai phong



Una fila di uomini che si inerpicano sul punto più alto del tetto di quell’edificio dove li aspetta l’ultimo elicottero. L’ultima via di fuga da agguantare con la forza della disperazione. L’edificio è il numero 22 di Long Street, l’ambasciata americana di Saigon, capitale del Vietnam del Sud. Il momento è il pomeriggio del 30 aprile 1975. Il giorno che finì la guerra del Vietnam.
E’ una delle foto simbolo del ventesimo secolo, perché ne coglie uno dei momenti più drammatici: la prima e a tutt’oggi unica sconfitta americana in una guerra dichiarata, l’atto conclusivo di una guerra che fu soprattutto un evento epocale, uno spartiacque per una intera generazione non solo dal punto di vista storico-politico, ma anche e soprattutto da quello della coscienza.
Saigon giai phong. Significa Saigon è liberata, in lingua vietnamita. Oppure Saigon è caduta, dal punto di vista degli sconfitti, di coloro che salivano su quegli elicotteri che facevano la spola dal tetto dell’ultima ridotta americana in Vietnam, prima dell’arrivo ormai imminente dell’Esercito del Popolo. Questa fu la notizia che quarant’anni fa sorprese un mondo che sapeva da tempo quale sarebbe stato l’esito di quel conflitto nel lontano sud-est asiatico che tutte le sere per anni era entrato nelle case all’ora del telegiornale fino a diventare un compagno abituale, ma che non se lo aspettava così presto, così repentino.
Da quando il leader comunista Ho Chi Minh aveva sollevato il paese contro l’amministrazione coloniale francese subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, il Vietnam era sempre stato in guerra. I francesi erano stati finalmente sconfitti nel 1954 a Dien Bien Phu e il trattato di Ginevra aveva posto fine al periodo coloniale. A quel punto il paese si era diviso in due parti, il nord controllato dal Vietminh, l’esercito di liberazione filocomunista di Ho Chi Minh e del leggendario generale Nguyen Giap, ed il sud governato da Bao Dai – l’ultimo imperatore, messo sul trono dai francesi – e dal suo primo ministro Ngo Dinh Diem.
Diem aveva deposto l’imperatore e creato una repubblica che aveva cercato di resistere alla crescente influenza comunista del regime del nord, supportato da Unione Sovietica e Cina. Fatalmente la sopravvivenza del governo di Saigon era legata alla logica della Guerra Fredda e dei suoi schieramenti. Diem chiese ed ottenne dagli Stati Uniti d’America un sempre maggiore coinvolgimento nel Sud-Est asiatico, in quel momento la zona più calda del mondo, la principale nella quale la Guerra fredda era diventata guerra guerreggiata.
Al tempo dell’amministrazione Kennedy, gli U.S.A. passarono da un sostegno più che altro logistico e finanziario per il tramite dei cosiddetti consiglieri militari ad un coinvolgimento diretto mediante l’invio di truppe. Nel 1963 a poca distanza furono assassinati sia il presidente Diem che il presidente Kennedy. I loro successori a quel punto si trovarono totalmente impelagati in una guerra senza quartiere contro il regime di Hanoi.
Gli Stati Uniti pensavano di ripetere una guerra come quella che avevano combattuto nel Pacifico dal ‘42 al ‘45 oppure in Corea dal ‘50 al ‘53. La previsione si rivelò ben presto infondata. Il Vietnam si organizzò per combattere una vera e propria guerriglia partigiana, al nord e soprattutto al sud dove i Vietcong, l’esercito di liberazione popolare, dimostrarono ben presto di poter portare la guerra fino a ridosso del quartier generale americano.
All’inizio del 1968, anno che avrebbe segnato in tutto il mondo occidentale una svolta epocale ed uno spartiacque delle coscienze, l’Offensiva del Tet (il capodanno vietnamita) condotta dai Vietcong su vastissima scala contribuì a scuotere quelle coscienze soprattutto negli U.S.A., fiaccando ulteriormente una voglia di combattere che i ragazzi americani non sentivano già in partenza.
La sporca guerra, come fu definita un po’ da tutta la società civile occidentale malgrado facesse parte della logica dei blocchi contrapposti che aveva imperato fino a quel momento, si trascinò fino al 1973. Finché l’amministrazione Nixon pose fine ad un intervento militare statunitense ormai assolutamente impopolare e dai costi spaventosi con gli accordi di pace di Parigi. L’impegno degli U.S.A. regredì al livello iniziale del 1960. Gli ultimi consiglieri militari, soprattutto agenti della C.I.A., lavorarono finché fu loro possibile per tenere in piedi il governo del sud di Nguyen Van Thieu, ormai resosi odioso a tutta la popolazione vietnamita per la sua corruzione e la sua brutalità.
I vietcong avevano già vinto in prospettiva quando nel gennaio del 1975 dettero il via alla campagna di Ho Chi Minh, l’attacco finale al sud intitolato alla memoria del leader comunista scomparso nel 1969. Malgrado l’esercito americano avesse ormai lasciato quasi completamente l’area, nessuno si aspettava una vittoria così fulminea delle forze vietnamite, malgrado Giap e i suoi collaboratori avessero abituato il mondo alla loro genialità tattico-strategica. Alla metà di aprile il destino degli ultimi americani e dei loro alleati sudvietnamiti era segnato, restava da conquistare solo la capitale e l’intero Delta del Mekong era in mano Vietcong.
Gli ultimi giorni del mese furono impiegati dall’ambasciata americana per l’evacuazione del proprio personale, che diventò frenetica, parossistica il 29, allorché l’aeroporto Tan Son Nhat fu reso inservibile dai bombardamenti nordisti. A quel punto, l’unica via di fuga dal Vietnam fu costituita dalla più ingente e clamorosa evacuazione per mezzo di elicotteri della storia. L’operazione Frequent Wind portò via gli ultimi americani dal tetto dell’ambasciata e consegnò alla storia del ventesimo secolo e della Guerra Fredda una delle sue immagini più significative e suggestive.
Il 1° maggio, Saigon era già stata ribattezzata Ho Chi Minh City, in onore del leader scomparso che aveva ispirato trent’anni di guerre di indipendenza. Al Vietnam su cui sventolava la bandiera rossa restava una delle più grandi vittorie di Davide contro Golia della storia, a prescindere dalla connotazione politica che l’evento inevitabilmente assunse in quel momento storico. Una vittoria di cui peraltro fece subito pessimo uso proseguendo la guerra contro la vicina Cambogia, a quel punto governata dal regime gemello dei Khmer Rossi di Pol Pot.
Al mondo intero rimase la sensazione che un’epoca si fosse irrimediabilmente chiusa e che una nuova società fosse alle porte. Nella mitologia post 68 la guerra del Vietnam occupa un posto importante, nel bene e nel male. Speranze e delusioni degli anni settanta e dei successivi passarono tutte per località dai nomi esotici del Delta del Mekong e del Golfo del Tonchino. Ho Chi Minh finì per sostituire Fidel Castro, Che Guevara e Mao Tse Tung nell’iconografia comunista. La storia americana e occidentale cambiarono per sempre, irrevocabilmente.
E soprattutto rimase – e rimane - una immensa stele commemorativa nel Cimitero Nazionale di Artlington, in Virginia. Il Vietnam Memorial riporta i nomi degli oltre 58.000 ragazzi americani caduti o dispersi nel Sud Est asiatico nella più grande e sanguinosa guerra guerreggiata dell’epoca del mondo diviso in due blocchi. Dell’oltre un milione e mezzo tra soldati e civili vietnamiti caduti nello stesso periodo e nelle stesse battaglie ovviamente non rimane nome e cognome. Soltanto la memoria collettiva.

Lo sciagurato aprile della Fiorentina



Dice: almeno consoliamoci con la prestazione. La Fiorentina ha giocato a calcio meglio della Juventus. Non è una novità, del resto, non è la prima volta. Già, peccato che stavolta, per l’ennesima volta, tre gol li segna la Juventus e i tre punti vanno a lei. La squadra che gioca peggio sta per vincere lo scudetto e per giocare una semifinale di Champion’s League, quella che gioca meglio scivola al settimo posto e rischia l’anno prossimo di andare in Europa solo con qualche viaggio organizzato da Alpitour, o simili.
Secondo il regolamento del gioco del calcio, scopo di questo sport è segnare un gol più dell’avversario, oppure prenderne uno in meno, come si preferisce. La prestazione, quindi, da che mondo è mondo dovrebbe servire a questo. La prestazione della fiorentina nel mese di aprile che volge al termine parla chiaro: cinque sconfitte su otto partite, quattro delle quali con almeno tre gol subiti; compromessa una finale di Coppa Italia che sembrava già conquistata ed almeno un quarto posto in campionato che sembrava difficile perdere. Bastava solo un po’ di attenzione.
Dalla Juventus alla Juventus l’aprile viola si ammanta di tenebra, ed è difficile stabilire se siano peggio le sconfitte casalinghe contro le ultime della classe affrontate svogliatamente o quelle contro la prima, affrontata dapprima presuntuosamente in casa propria e poi spavaldamente e brillantemente in trasferta allo Juventus Stadium. Cambia poco, del resto, né il risultato né la classifica. Quanto alla benedetta prestazione, c’è da dire che cambia poco soprattutto da un anno all’altro. Passano le stagioni e le occasioni, che si impegni o no la Fiorentina perde sempre allo stesso modo, con gli stessi avversari, nelle stesse circostanze. Che schieri le riserve o i titolari. Anzi, alla fine sono proprio gli uomini che dovrebbero fare la differenza a farla, sì, ma in negativo per la Fiorentina.
In settimana, Vincenzo Montella si era battuto perché la squadra non andasse in ritiro, contro il parere di Andrea Della Valle. Tanto di cappello, sono pochi su questo pianeta gli allenatori capaci di far cambiare idea al proprio datore di lavoro. E poi, si sa, i ritiri servono a poco o nulla, la concentrazione la si acquisisce con un esercizio quotidiano attraverso l’allenamento e la coltivazione della propria professionalità. Nonché con la consapevolezza – insostituibile – di avere alle spalle una società che non ti perdona il minimo errore. Come la Juventus, appunto.
Tanto di cappello, e giustizia fatta a proposito di tante illazioni. Qualcuno ha insinuato che tra il mister e la società si stia creando una spaccatura. Se Montella convince Della Valle a lasciare le cose come stanno, vuol dire che tanto spaccati non sono.
La partita di Torino dà dunque ragione a Montella su questo e anche sulla formazione scelta per andare in campo. Gli uomini che si schierano al fischio d’inizio dell’arbitro Banti hanno i numeri e la voglia di tenere il pallone per lunghi tratti in casa della capolista e di metterle anche pressione e paura, anche se sotto il profilo del punteggio per poco tempo.
La facilità con cui la capolista ribalta la situazione in una serata in cui la Fiorentina le imporrebbe appunto il proprio gioco in casa sua dà invece torto a Montella per quello che si diceva prima. In tre anni i suoi giocatori, compresi i migliori, si badi bene, non hanno imparato a non commettere gli stessi madornali errori. Per esempio, farsi segnare di testa da Llorente e Tevez, non proprio due giganti, o farsi prendere di infilata dopo essere andati ripetutamente allo sbaraglio in avanti. Per non parlare di quei benedetti calci piazzati. Sugli angoli, noi li battiamo come peggio non si potrebbe e in ogni caso siamo sempre piazzati male. In compenso li subiamo regolarmente: Llorente a questo punto si augura di incontrare la Fiorentina più spesso possibile. Dei rigori non ne parliamo proprio: un solo precedente, il campionato 1978-79. Ma c’era Antognoni convalescente da una fastidiosissima tarsalgia, e la Fiorentina non aveva altri che lui. Qui forse sarebbero in diversi a necessitare di allenarsi un po’ di più, anche in questo caso.
Rigore trasformato
In conferenza stampa, Montella si giustifica parlando di episodi sfavorevoli e di incapacità della Fiorentina di essere diversa da quella che è. Sugli episodi, stendiamo un velo pietoso. Essere qui a commentare un arbitraggio che ti concede due rigori a Torino nella partita decisiva per lo scudetto della Juventus ha francamente del paradossale. Banti probabilmente poi sbaglia a non sanzionare le proteste eccessive sul primo rigore di Pirlo ed Allegri, e sbaglia soprattutto a concedere la punizione che costa il pareggio juventino. Neto non tocca Sturaro, che vola in avanti alla Klaus Di Biasi e inganna direttore di gara e guardalinee. Il portiere viola viene ammonito e la punizione viene battuta da Pirlo come suo solito. Il resto lo fanno i difensori della Fiorentina che probabilmente si soffermano ancora a pensare al torto subito e lasciano Llorente indisturbato.
Ma la Fiorentina non perde certo per colpa di Banti, che arbitra tutto sommato equamente. E poi la Juventus due rigori contro in casa non li ha mai avuti a memoria d’uomo. Che si vuole di più? Magari che Gonzalo giochi sempre all’altezza di se stesso. Invece prima lascia completamente libero Tevez sul colpo di testa che vale il vantaggio bianconero allo scadere del primo tempo, e poi calcia orrendamente in curva il secondo rigore che varrebbe il pareggio viola a venti minuti dalla fine.
Pareggio Llorente
La prestazione consiste anche e soprattutto nello sfruttare le occasioni che la sorte ti offre benevolmente. O quantomeno perché te le sei procurate. Le occasioni avute contro la Juventus dalla Fiorentina negli ultimi due anni difficilmente si ripresenteranno. I match ball sprecati ormai sono tanti. E un giocatore come Joaquin Sanchez Rodriguez, capace di mettere in crisi da solo una difesa come quella juventina e di far fare la figura del pirla a Pirlo (ci si perdoni il gioco di parole) chissà quando lo ritroveremo.
La prestazione consiste anche nel mantenere i nervi saldi e non buttarsi tutti in avanti all’arma bianca. Cosa che la Fiorentina fa regolarmente, si tratti di giocare contro il Cagliari o la Juventus. E prendendole regolarmente di santa ragione. Caro Montella, non può bastare dire “questa è la Fiorentina”. Queste cose lasciamole dire a Diego Della Valle, che la vede giocare una volta ogni tanto e quasi sempre – per sua fortuna – quando le cose girano bene. Questa è, come si diceva, l’unica squadra della serie A italiana che in tre anni non ha imparato nulla dai propri errori. E che giochi a calcio, esteticamente parlando, come nessun altro è una ben misera consolazione, a questo punto.
Rigore sbagliato
La punizione magistrale di Josip Ilicic che piega la mano a Buffon è la ciliegina su una torta condita soprattutto di rimpianti. Un’altra partita buttata via, a prescindere dall’aver giocato bene o male. Un’altra prestazione da paragonare a quel famoso bicchiere di cui parlava giorni fa Eduardo Macia, salutando Firenze e i fiorentini. Un bicchiere peraltro che circa venti giorni fa era davvero pieno e che adesso si sta svuotando rapidamente. C’è rimasta soltanto l’Europa a tenere in piedi questa Fiorentina. Speriamo bene, l’anno prossimo sarebbe dura il mercoledi e il giovedi fare zapping tra i canali perché in TV non c’è niente di interessante da vedere.

mercoledì 29 aprile 2015

Italicum, le Idi di Marzo di Renzi?

Questo governo è nato per fare le riforme. Se non volete farle, mandatemi a casa”. Rischia di essere questa la frase di Matteo Renzi che dagli atti parlamentari, comunque vada a finire, passerà alla storia. Accertata la permanenza di forti sacche di resistenza all’Italicum dentro la propria maggioranza prima ancora che nelle opposizioni, il premier consegna queste lapidarie parole a Twitter e manda il Ministro per le riforme costituzionali Maria Elena Boschi a Montecitorio ad annunciare la questione di fiducia sugli articoli chiave della riforma del sistema elettorale. Non sulla votazione finale, lo vieterebbe la Costituzione che rimanda la materia elettorale alla procedura normale di esame ed approvazione da parte delle Camere.
Ha un bel darsi da fare la Presidentessa della Camera dei Deputati Laura Boldrini per affermare questo principio, sovrastando il tumulto che si scatena non appena il Ministro Boschi, con un filo di voce, ha dato il fatidico annuncio. La bagarre finisce per investire la Presidentessa più ancora del Governo, malgrado essa si limiti ad affermare una verità di fatto, anzi di diritto. Ormai la Boldrini si è guadagnata ampiamente la palma di prima carica dello Stato per antipatia, e non le viene risparmiato niente nell’emiciclo in preda a tumulti con pochi precedenti. L’epiteto più carino che le viene rivolto dai banchi delle opposizioni è “collusa”, mentre gli oratori da Brunetta a Vendola ai Cinque Stelle pur da diversi punti di vista sono concordi nello stigmatizzare con parole di fuoco la scelta del Governo, definendola in sintesi come il “funerale della  democrazia”.
In serata, il premier Renzi difende la sua scelta, barcamenandosi tra i mass media e l’ormai prediletto Twitter: "Non c'è cosa più democratica di mettere la fiducia: se passa, il governo va avanti altrimenti va a casa. Cosa c'è di più democratico di chi rischia per le proprie idee. E' tempo del coraggio, non di rimanere attaccati alla poltrona".
Qualcosa è cambiato, per dirla in termini cinematografici. In un twit risalente a non molto tempo fa, il Grande Affabulatore scriveva ancora: “Legge elettorale. Le regole si scrivono tutti insieme, se possibile. Farle a colpi di maggioranza è uno stile che abbiamo sempre contestato”. E’ tempo di passare il Rubicone, evidentemente, per un premier che sa benissimo di avere nella propria maggioranza i più acerrimi nemici e di dover forse giocarsi tutto – compresa la possibilità di sbarazzarsene definitivamente – in questa riforma elettorale che gli darebbe un premio di maggioranza che i suoi predecessori, dal 1945 ad oggi, hanno solo potuto sognare.
E’ il tempo del coraggio oppure semplicemente è quello della resa dei conti. Troppe Repubbliche stanno convivendo in queste due aule, tra Palazzo madama e Montecitorio. La Prima, che non vuol morire, la Seconda che vorrebbe tornare in auge, la Terza che balbetta e stenta a compiere i primi passi, rischiando di finire strozzata nella culla.
Ma c’è di più. La materia elettorale è un qualcosa che va ben al di là della Costituzione, sia detto senza alcuna irriverenza. E’ un qualcosa che tocca le corde profonde del comune sentire a proposito della convivenza civile e politica di questa nazione. Che ha a che fare con i nodi più delicati della sua storia contemporanea. Qualcosa che non si può pensare di andare a toccare senza risvegliare passioni e pulsioni profonde che giacevano addormentate nel profondo delle coscienze sia di chi fa politica che di chi si limita a subirla.
Benito Mussolini e Giacomo Acerbo
Con la legge elettorale in Italia si è fatta a volte la storia. E ieri alcuni parlamentari tra le urla ed il lancio di insulti e di oggetti non hanno mancato di ricordarlo. Il 21 giugno 1923 l’ultima Camera dei Deputati dell’Italia liberale, presieduta da Enrico De Nicola, approvò con una maggioranza significativa la cosiddetta legge Acerbo, la riforma del sistema elettorale voluta da Benito Mussolini per assicurare ai suoi Fasci di Combattimento una maggioranza parlamentare che altrimenti in quella fase storica difficilmente avrebbero conseguito.
Dopo la Marcia su Roma, il Fascismo aveva rinfoderato di fatto i propositi di conquista del potere eversivi e aveva scelto la via governativa, parlamentare. Il primo governo Mussolini aveva una maggioranza di coalizione risicata, che beneficiava dell’appoggio condizionato delle varie formazioni liberali e non era più di tanto osteggiata dalle formazioni popolari e socialiste, ancora in stato confusionale dopo essere state colte di sorpresa dall’incarico di governo dato da Vittorio Emanuele III al capo del Fascismo.
Questo stato confusionale non sarebbe durato a lungo, la base del potere fascista era precaria e Mussolini volle rafforzarla per via elettorale. Il deputato Giacomo Acerbo gli confezionò una legge secondo la quale alla lista che otteneva almeno il 25% dei consensi sarebbero andati i 2/3 dei seggi. E così fu. Mussolini ebbe la sua forza parlamentare solo momentaneamente messa in crisi poi dal delitto Matteotti e dalla secessione dell’Aventino. Anzi, fu il parlamento a stragrande maggioranza fascista ad avallare le cosiddette “leggi fascistissime”, i provvedimenti che trasformarono lo Stato Liberale in Regime senza necessità di azioni rivoluzionarie o colpi di stato sostanziali che andassero ad aggiungersi a quello in parte già compiuto dal monarca Vittorio Emanuele.
La storia successiva è nota, ne abbiamo commemorato la conclusione pochi giorni fa con la celebrazione di quella resistenza sanguinosa conclusasi il 25 aprile 1945. L’Italia che aveva ritrovato libertà e democrazia intese dunque vaccinarsi contro il possibile (e come si vide in seguito in varie circostanze) non inverosimile ripetersi di derive autoritarie dotandosi di una Costituzione congegnata in tutti i suoi aspetti per sfavorire l’insorgere di un potere esecutivo forte.
Per questo motivo i Padri Costituenti, pur senza dire in proposito nulla di esplicito, espressero una preferenza per il sistema proporzionale: ad ogni partito tanti seggi per quanti voti otteneva. Con ciò fu mantenuta piena possibilità di espressione e rappresentanza a tutte quelle formazioni politiche che erano riemerse dagli anni bui della dittatura e dall’occupazione militare alleata. Senonché, le buone intenzioni cozzarono subito contro la governabilità. La Democrazia Cristiana irrobustita dalla mobilitazione dei moderati contro il fronte Popolare social comunista (il fatidico 1948, nel segreto dell’urna Dio ti vede, Stalin no) non era comunque un partito che raccoglieva la maggioranza assoluta dei consensi ed era costretta per governare ad affidarsi ad una coalizione comprendente liberali, repubblicani e socialdemocratici.
Il leader carismatico dell’epoca, Alcide De Gasperi, con la sua lungimiranza prefigurava tempi difficili per i governi italiani a venire, una volta che si fossero spente da tutte le parti le passioni animate dalla Lotta di Liberazione. Dette perciò incarico al suo Ministro dell’Interno, Mario Scelba, di elaborare dopo soltanto una legislatura repubblicana una riforma del sistema elettorale.
Scelba legò il suo nome a diversi provvedimenti storici, dalla legge sull’ordine pubblico che vietava tra l’altro la ricostituzione del disciolto Partito Fascista in attuazione delle disposizioni transitorie della Costituzione, alla legge che sempre in attuazione della Carta Fondamentale istituiva e regolava il funzionamento delle Regioni. Ma la legge forse più importante tra quelle da lui propugnate era destinata a passare alla storia non con il suo nome ma con un epiteto infamante: Legge Truffa.
Mario Scelba giura per il sesto governo De Gasperi
 nelle mani del Presidente Einaudi
Il 31 marzo 1953 la legge Scelba fu approvata dal Parlamento malgrado l’opposizione social comunista facesse fuoco e fiamme, lamentando la violazione dello spirito costituente ed il tentativo neanche tanto surrettizio di ritorno a principi e metodi della dittatura da poco terminata. La Legge Truffa prevedeva che si desse alla coalizione che superava il 50% un premio consistente in un ulteriore 15%. Gli italiani risposero no, fermando la maggioranza di governo ad un incredibile 49,8%. Il fascismo era ancora assai vivido nel ricordo di tutti, ed a torto o a ragione più della metà degli aventi diritto al voto in questo paese ritenne che fosse meglio non correre rischi. La legge fu in ogni caso abrogata un anno dopo, precedendo di poco nella tomba il suo ispiratore, Alcide De Gasperi.
Il resto è storia nota e recente, ci volle lo shock di mani Pulite per spingere il popolo italiano ad abbandonare il proporzionale in favore di un sistema maggioritario che finalmente riportasse l’Italia nel campo dei sistemi governati da esecutivi forti. Dapprima il Mattarellum, ispirato dall’attuale Presidente della Repubblica, poi il Porcellum, così chiamato secondo la definizione dello stesso ispiratore il leghista Roberto Calderoli, disattesero significativamente sia il mandato popolare espresso nel referendum del 1993 che l’efficacia e l’effettività di una riforma che rivitalizzasse il sistema democratico rendendolo anche funzionale alle esigenze del paese.
Italicum è l’ultima creatura, con il suo premio che elargisce al vincitore che superi almeno il 40% dei consensi un premio di un ulteriore 15%. E di nuovo le correnti profonde della storia contemporanea italiana scatenano i propri umori avventandosi contro l’incauto premier che risveglia bestie feroci dormienti da tempo. O forse, come dice lo stesso premier affidando i suoi commentari a Twitter, si tratta solo di paura di perdere la poltrona da parte di una vecchia casta sopravvissuta a troppe riforme andate a male?

Ai posteri l’ardua sentenza. A Montecitorio le sentenze cominciano oggi.

lunedì 27 aprile 2015

VIOLA NELLA TESTA E NEL CUORE: Quella corsa in Viale dei Mille



Campionato 1974-75. L’ultimo scudetto della Fiorentina comincia ad allontanarsi nel tempo e nella memoria, sbiadito anche e soprattutto dalla retrocessione sventata all’ultima giornata nel 1971 che comunque è costata alla società viola l’addio di Nello Baglini e Bruno Pesaola e la presa d’atto della necessità di avviare un nuovo ciclo. Una nuova linea verde, sulla falsariga della politica societaria avviata da Baglini e passata in mano al nuovo proprietario, Ugolino Ugolini, che cerca di fare del suo meglio per conciliare le esigenze di bilancio con le abitudini di una piazza che ha festeggiato due scudetti e una coppa internazionale in tredici anni, e soprattutto ha visto all’opera tanti campioni con la C maiuscola.
Quell’anno è andato via De Sisti, il numero dieci è sulle spalle di un altro predestinato, Antognoni. Dei ragazzi del 69 sopravvivono in pochi in viola, sostituiti da una nuova generazione ye-ye. Dopo Liedholm e Radice, a guidare questa banda di ragazzini di talento, capaci di repentini alti e di altrettanto improvvisi bassi, a trasformarli in una squadra che possa di nuovo combattere per il tricolore viene chiamato sulla panchina viola il mostro più sacro dell’epoca, Nereo Rocco. L’uomo che aveva inventato il calcio all’italiana, che aveva creato la leggenda del Milan europeo e mondiale prima di Berlusconi, era una scelta senza mezzi termini: era l’uomo giusto per tornare a vincere.
Ma il paron era nella fase crepuscolare della sua carriera. A Firenze sarebbe stata la sua penultima panchina, prima del canto del cigno due anni dopo al Milan, la sua seconda casa. Nella prima, nella natia Trieste, si sarebbe spento nel 1979 carico di trofei e di ricordi. Quello dell’anno trascorso a Firenze, sarebbe stato tutto sommato il peggiore. Quei ragazzini dai capelli lunghi, dai vestiti sgargianti e dai pantaloni a zampa d’elefante in perfetto stile dell’epoca, dalle auto di lusso e dalla tendenza ad una dolce vita che la Firenze di quel periodo tendeva ad assecondare benevolmente, non erano più fatti per comprendere il suo verbo ed attuarlo in campo.
Non erano più i tempi della Triestina e del Padova. Rocco si immusoniva in panchina, riuscendo solo a distribuire occhiatacce a quei figliol prodighi, quando tornavano tardi la sera e quando poi la domenica si vedevano i risultati altalenanti. Una partita bene e poi due male, mentre la tifoseria fiorentina, dal palato fino inversamente proporzionale alla pazienza, cominciava a rumoreggiare sempre più forte.
Si arrivò alla fine del girone di andata con una classifica che non era quella che la gente si attendeva. Oggi lo si definirebbe un “vivacchiare”. Quel 26 gennaio 1975 allo Stadio Comunale, come si chiamava allora essendo Artemio Franchi vivo e vegeto, venne a giocare la Sampdoria. E venne a vincere su una Fiorentina più indolente del solito, 2-0 con reti di Prunecchi e dell’ex Maraschi, uno degli eroi di quello scudetto che sembrava sempre più lontano. La contestazione che covava sotto la cenere finalmente esplose.
I giocatori rimasero chiusi per quasi due ore negli spogliatoi, uscendo alla fine accompagnati da qualche dirigente quando ormai credevano che la rabbia della gente fosse sbollita e che tutti avessero ripreso la via di casa. Non era così, e se ne accorsero a loro spese due ragazzotti che ebbero il torto di farsi vedere troppo distesi e sorridenti da chi invece –ed erano ancora tanti – non aveva voglia di ridere per niente.
Claudio Desolati e Walter Speggiorin videro subito la mala parata. E’ stato proprio Desolati, che all’epoca  aveva vent’anni e contro la Samp aveva giocato solo un quarto d’ora entrando nel finale al posto di Guerini, a raccontare in seguito cosa avvenne dopo.
«Io c’entravo poco, ma mi trovai in mezzo a quella bolgia e corsi come Mennea. Un dirigente stava accompagnando me e Speggiorin nella sede viola, che era nel viale dei Mille. Quando uscii capii subito che non era il caso di parlare con chi ci stava aspettando. C’era Carlo, il cuoco della nostra mensa. Gli dissi: coprimi, che io parto. Lui non capì, mi chiese che fai, ma ero già scappato. Più di cinquecento metri a tutto fuoco, anche se avevo uno strappo muscolare alla coscia destra. Ogni tanto mi voltavo e gli inseguitori perdevano terreno. Avevo la macchina in un garage, la presi e fuggii a casa. Quando arrivai avevo la febbre a 39 per la paura. Il giorno dopo però era finito tutto, arrivai allo stadio e nessuno mi offese ».
Quella stagione si concluse con Rocco che si dimise addirittura prima che la squadra giocasse la finale di Coppa Italia all’Olimpico, probabilmente stanco e disgustato da un’annata finita ben al di sotto delle aspettative (ottavo posto in campionato) e da un ambiente rispetto al quale era rimasto sostanzialmente come un corpo estraneo. Al posto del paron in panchina il 28 giugno 1975 a Roma c’era Mario Mazzoni, l’eterno vice di quegli anni. I viola piegarono il Milan per 3-2, e chissà che in quel successo non ebbe parte decisiva proprio la corsa su per il Viale dei Mille avvenuta qualche mese prima.
Conclude il suo ricordo Desolati, con una nota di attualità: «Quando la squadra perde, la gente ha sempre ragione (…) I tifosi hanno ragione: in campo bisogna correre». 
Ogni riferimento al presente è assolutamente voluto.

domenica 26 aprile 2015

Sconfitti da Cip e Ciop

2 aprile 1972. Per ritrovare l’ultima vittoria del Cagliari a Firenze bisogna andare indietro di tanto. E pare quasi una bestemmia citare quel precedente. Da una parte c’era la Fiorentina che dopo il secondo scudetto cercava di rifondarsi avviando una nuova linea verde, sotto la guida del barone Nils Liedholm. Dall’altra c’era il Cagliari che manteneva accesi gli ultimi fuochi della squadra che aveva vinto il suo primo e unico scudetto. 1969 e 1970, un’altra vita ed un altro calcio. Ed altri campioni. Segnò Gigi Riva al 29’ del primo tempo. Per i più giovani, andare sugli almanacchi a vedere chi era Rombo di tuono. E perché paragonare lui e gli altri 21 di allora a questi di oggi pare una bestemmia.
Nel leggere di questo precedente, il vostro cronista aveva avuto comunque un brivido. Stai a vedere che quest’anno la Fiorentina non nega niente a nessuno, soprattutto in zona retrocessione. Lunedi scorso era toccato al Verona ritirare il bonus salvezza, e si era data la colpa al turnover di Montella ed alle troppe “riserve” da lui messe in campo. Oggi in campo ci sono andati personaggi che se non possono essere definiti titolari loro, al termine di una stagione - e in qualche caso di una carriera – per certi versi esaltante, non sappiamo chi può esserlo.
Il Cagliari era quasi spacciato, e con pieno merito. A sette giornate dalla fine i punti che lo separavano dal quartultimo posto erano nove. Mancava la certificazione di morte, sportivamente parlando. Ma il Cagliari veniva a Firenze, a far visita ad una squadra che probabilmente ormai in campionato ha mollato, e che comunque soprattutto in casa propria ha fatto fin dall’inizio una gran fatica ad imporre il proprio gioco ed a ritirare a fine partita i tre punti. La Fiorentina spagnola che va avanti in Europa in Italia batte in testa, e si espone al contropiede di pedatori spesso a malapena onesti, ancorché volenterosi.
Se tu metti in campo comunque Neto, Tomovic, Savic, Basanta, Pasqual, Badelj, Pizarro, Borja Valero, Salah, Gilardino, Diamanti, puoi essere accusato di essere un inguaribile ottimista, non certo di essere un incapace. Abbiamo criticato Montella tante volte, ci toccherà morire montelliani. Questi sono i giocatori, questo è il meglio che c’è a libro paga dei Della Valle. Questa gente è arrivata alle semifinali di Coppa Italia ed Europa League. Questi dovrebbero essere in grado di regolare una squadra con un piede e mezzo già in serie B, che ha appena esonerato un allenatore – Zdenek Zeman – che predicava un calcio troppo raffinato per i piedi da ortopedico dei suoi giocatori, una squadra che all’andata la Fiorentina ha bastonato severamente a casa propria (e non è successo spesso da quando esiste la serie A a girone unico, a Cagliari abbiamo pianto di frequente piuttosto che ridere).
Se si dà risalto alle piccole cose, ai dettagli, ai segnali, Vincenzo Montella si presenta in panchina con tanto di felpa, in luogo della consueta elegante divisa. Segno di scarsa importanza data a questa trentaduesima giornata di un campionato ormai agli sgoccioli, e che offre poco a questa società ed a questa squadra in termini di obiettivi? Mah, se si dà risalto a queste cose si perde spesso la strada di casa. Meglio concentrarsi su moduli, schemi e tattiche, sul valore (anche di mercato) degli uomini messi in campo. Badando al sodo, oggi non dovrebbe esserci partita. E infatti.
Al fischio di inizio dell’arbitro Guida prende subito male. Il Cagliari è una squadra di tarantolati, quanto e più di quella della scorsa stagione. Corrono come dannati e picchiano come fabbri, con la condiscendenza iniziale di Guida. Sembra di vedere il match di un anno fa, ci fecero a pezzi prima sul piano fisico e poi su quello del risultato, negandoci una vittoria tutto sommato sacrosanta. Ma quest’anno c’è qualcosa in più: giocano anche, e alla prima occasione segnano.
Farias è difficilmente contenibile per il Tomovic di oggi. Va fino in fondo mettendo a sedere il terzino viola (voto 4, che si abbassa ulteriormente se si considerano le sue proiezioni offensive ed i suoi orrendi cross) e mette a centro area per l’accorrente Cop. Il croato è un fulmine che attraversa una difesa una volta di più costituita da statue di sale. Il pallone saetta in rete, e il piano della partita si inclina verso la salita per una Fiorentina che oggi visibilmente sarebbe rimasta volentieri a casa.
Invece c’è da correre, eccome, perché oggi il Franchi non aspetta la fine per mettersi a fischiare. Comincia subito, dimostrando di non gradire le eventuali giustificazioni di tecnico e giocatori. Il tecnico giustappunto è una maschera livida di rabbia repressa, si vede che vorrebbe esplodere tutta la sua insoddisfazione verso giocatori che ripetono senza metterci nemmeno l’anima schemi consueti e ormai obsoleti: tiki taka di qua, tiki taka di là, triangoli e passaggi laterali che perfino la squadra Primavera ormai sarebbe in grado di leggere in anticipo.
In mezzo, Borja, Badelj e Diamanti giocano a calcetto. Il Cagliari tira invece calcioni. Quando eccede, Guida è costretto a sanzionarlo con cartellini gialli, ma tutto sommato quest’oggi basta poco anche a termini di regolamento per ridicolizzare questa Fiorentina. Gilardino è stretto nella morsa della difesa rossoblu, e ciononostante riesce a ripetere la prodezza già fatta contro il Verona, un colpo di testa che meriterebbe miglior sorte. Anche Borja Valero ripete il colpo di testa eseguito contro gli scaligeri. L’esito è lo stesso, inguardabile.
Diamanti si perde nella sua lotta contro se stesso e contro l’arbitro. Poco distante, si consuma la parabola viola di Mohamed Salah, perso sulle orme di Juan Guillermo Cuadrado. L’egiziano, come già il colombiano, deve disperdere le proprie energie alla ricerca di un pallone che non gli arriva mai dai centrocampisti e di spazi che i difensori avversari hanno imparato a non concedergli. Quando si affaccia in area o è già stanco o già raddoppiato.
In difesa, Tomovic e Pasqual soffrono le ripartenze cagliaritane e finiscono per ciabattare anche nelle proiezioni offensive. Tutto ricade sulle spalle di Savic e Basanta, che non paiono oggi nel loro momento migliore. Alla fine del primo tempo, il vantaggio del Cagliari appare meritato, ed è tutto dire.
Si riparte con Vargas al posto di Diamanti, il che pare un atto dovuto, visto l’apporto inconsistente del pratese. Il peruviano ha ben altra spinta, ben altra presenza in campo, ma i suoi traversoni si perdono nella tonnara della difesa cagliaritana, in cui affoga Gilardino. La Fiorentina guadagna centimetri a poco a poco, ma sono centimetri inutili, i suoi schemi d’attacco si perdono regolarmente sulla tre quarti dei sardi, dove emergono le consuete carenze di idee per il salto dell’uomo e di soluzioni offensive.
Il Cagliari passa la metà campo una sola volta nella ripresa, al quarto d’ora, ed è il raddoppio sempre ad opera di Cop. Dagli spalti, prendendo spunto dalla pronuncia croata del nome dell’attaccante e dalla situazione ridicola proposta dal match, scende implacabile il commento: “adesso ci manca il gol di Cip!”.
Arriva anche quello. Per mezz’ora la Fiorentina schiaccia il Cagliari nella sua metà campo, e ne ricava una figura non certo migliore di quella di Paperino alle prese con i celeberrimi scoiattoli. Alla mezz’ora Vargas indovina il cross giusto per Gilardino, che ritrova il vecchio spunto da rapinatore e riapre i giochi. Ma è un fuoco di paglia che neppure i subentrati Joaquin (per l’ineffabile Borja Valero) e Mario Gomez (per l’imbarazzante Pasqual) riescono a ravvivare.
Al terzo minuto supplementare è lo scoiattolo Farias ad involarsi sulla fascia sinistra, a farsi tutto il campo e a bersi un Tomovic ormai in stato confusionale, a presentarsi davanti ad un Neto a cui le gambe di Savic ostruiscono la visuale e ad uccellarlo impietosamente. I quattro gatti che assiepavano gli spalti del Franchi se ne sono a quel punto già andati. In campo resta solo il Cagliari, sempre con un piede e mezzo in B ma con l’aura di chi ha fatto su questo prato una partita che nemmeno il Bayern di Monaco.

E’ un campionato che ricalca quelli di Bruno Giorgi buonanima e di Cesare Prandelli ultimo atto. Annate in cui guarda caso si puntò tutto sulla coppa europea. Certo è che se ci si presenta davanti a Juventus e Siviglia con questo spirito ci vuole il pallottoliere. Tornano in mente le parole di Eduardo Macia nell’ultima intervista con cui ha salutato Firenze: il bicchiere in questi anni è interamente pieno, semmai adesso serve un bicchiere più grande. Chi ha da capire capisca. Altrimenti tra poco siamo punto e a capo.

Cernobyl

Alle 1,23 del mattino la fortissima pressione esercitata dall’idrogeno liberato dal brusco ed incontrollato aumento della temperatura del nocciolo del reattore n. 4 provocò la rottura delle tubazioni del circuito di raffreddamento. L’idrogeno entrò in contatto con la grafite incandescente delle barre di controllo e con l’aria. Pochi istanti dopo, l’esplosione terrificante fu capace di scoperchiare il reattore proiettandone in aria il pesante coperchio di oltre 1.000 tonnellate.
Dal cilindro non più chiuso ermeticamente nelle ore successive si disperse nell’atmosfera una quantità tale di isotopi radioattivi da far classificare l’incidente al massimo grado della speciale scala INES con cui si misurano gli incidenti nucleari: livello 7. E da contaminare significativamente tutta l’Europa Orientale e la Scandinavia e in misura minore ma comunque preoccupante anche quella Occidentale ed i Balcani.
Perfino sulla costa orientale del Nord America furono riscontrate le tracce di radioattività che attestavano la gravità dell’incidente occorso al reattore n. 4 della centrale nucleare Vladimir Ulianov Lenin, situata nell’Ucraina settentrionale a poca distanza dal confine con la Bielorussia, all’epoca entrambe facenti parte della Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
Cernobyl. Un nome che è diventato sinonimo di oscuro terrore nella storia contemporanea, come quello di un protagonista terrificante delle favole che si raccontavano una volta ai bambini per farli star buoni attraverso l’inculcazione della paura. Un nome che significa la madre di tutti i terrori, la fine del mondo, l’Armageddon che già i padri della fissione nucleare avevano prefigurato, mettendo in guardia l’umanità sul lato oscuro della loro scoperta per altri versi epocale.
Dopo Hiroshima e Nagasaki, il mondo si era abituato a vivere sotto la cappa di terrore distesa dal progresso nucleare. Rispetto alla bomba atomica semmai, le centrali nucleari avevano fino a quel momento rappresentato il volto buono di quel progresso. La dotazione all’umanità di una potenza energetica che le generazioni precedenti avevano soltanto potuto sognare attraverso le visioni di pochi geni della scienza primordiale.
La carta geografica delle nazioni più sviluppate si era costellata a mano a mano del simbolo del nucleare ad indicare le località in cui a partire dagli anni sessanta avevano cominciato ad entrare in funzione le centrali, benedette dalla definizione di atomi per la pace attribuita loro dal presidente americano Dwight D. Eisenhower e non più smentita dai successori o da altri leader occidentali almeno fino al 26 aprile 1986.
Three Mile Island, la centrale della contea di Dauphin, Pennsylvania che il 28 marzo 1979 fu teatro del primo grave incidente nucleare (tutt’ora il più grave sul continente americano) ed in cui fu sfiorata – e per fortuna poi scongiurata – la catastrofe, passò quasi sotto silenzio. Erano i tempi in cui il neopresidente Ronald Reagan faceva togliere dal tetto della Casa Bianca i pannelli solari fatti installare dal suo ecologista predecessore, Jimmy Carter, e nessuno batteva ciglio. L’opinione pubblica non era pronta a considerare il terrore nucleare, che non fosse quello ormai consueto prodotto dagli SS-20 sovietici puntati su tutte le città occidentali importanti.
La squadra dei vigili del fuoco del tenente Vladimir Pravik
A Cernobyl, sette anni dopo, non si poté nascondere nulla, quand’anche il regime sovietico agonizzante sotto la guida di Mikhail Gorbacev avesse voluto farlo. L’incidente fu talmente grave fin da subito da monopolizzare i media di tutto il mondo e da provocare uno shock irreversibile. Secondo le ricostruzioni successive, più che a difetti di progettazione della centrale la catastrofe fu ascrivibile ad errore umano. Il 25 aprile di quell’anno il reattore n. 4 doveva essere fatto oggetto di normali operazioni di manutenzione, che furono condotte a quanto pare con faciloneria e negligenza.
Come già era successo a Firenze per l’Alluvione di vent’anni prima, la struttura fu sottoposta ad una sollecitazione eccessiva provocata da operazioni umane sbagliate, nella fattispecie un brusco, incontrollato e presto non più controllabile aumento della potenza e quindi della temperatura. L’acqua di raffreddamento si scisse nelle molecole di ossigeno e idrogeno. Quest’ultimo a pressione elevata provocò il disastro.
La radioattività liberata il 26 aprile 1986 dal reattore della centrale Lenin di Cernobyl provocò nell’immediato 57 vittime, i vigili del fuoco accorsi per far fronte alle conseguenze immediate dell’esplosione. Il resto lo fece il fall out radioattivo, la cui entità fu amplificata dalle condizioni metereologiche del continente europeo. I venti e le zone di alta pressione a cuneo spingevano inesorabilmente gli isotopi verso ovest.
la "zona proibita"
Secondo i dati accertati successivamente da appositi comitati istituiti dalle Nazioni Unite, da Greenpeace, dal gruppo dei Verdi presente fin da prima dell’incidente nel Parlamento Europeo e dalle altre associazioni ambientaliste che sorsero proprio sulla spinta emotiva causata dall’incidente stesso, è stato calcolato che le vittime ufficiali dell’esplosione del reattore 4 ammontino ad una cifra compresa tra i 6.000 morti indicati dalle autorità ufficiali ed i 60.000 piuttosto stimati dalle organizzazioni non governative. L’area di Cernobyl è a tutt’oggi proibita, interdetta alla popolazione, e lo sarà per lungo tempo.
In realtà, non è dato sapere qual è stata la ricaduta effettiva sulla salute degli europei (e non solo) della diffusione degli isotopi radioattivi. Su chi era vivo all’epoca e sui bambini nati negli anni successivi da genitori che avevano respirato e si erano nutriti del precipitato di Cernobyl. Gli studi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nei vent’anni successivi si accentrarono giustamente sulla zona settentrionale dell’Ucraina, l’epicentro del disastro. Leucemia, disfunzioni tiroidee, tumori vari, deformità neonatali e altre malattie del secolo dell’atomo si riscontrarono in quell’area per lungo tempo dopo la sepoltura del reattore sotto l’ormai celeberrimo sarcofago. Nelle regioni europee più o meno limitrofe, probabilmente le conseguenze andarono a confondersi e a sovrascriversi su quelle di altri disastri ambientali più o meno grandi accaduti successivamente, e sono ormai incalcolabili.
L’Unione Sovietica sopravvisse di poco al suo reattore nucleare. D’altra parte, chi cercò di attribuire la colpa dell’incidente esclusivamente all’inefficienza tipica della vecchia URSS per una volta non ebbe buon gioco. L’ondata emotiva anti-nucleare si diffuse sul continente europeo portando al boom dei Verdi un po’ dovunque, ed all’affermazione dei pronunciamenti contro la costruzione di nuove centrali in alcuni paesi come l’Italia, dove un referendum popolare le proibì definitivamente circa un anno dopo.
Da allora, il dibattito sul nucleare tuttavia non ha mai cessato di essere in corso, anche – se si vuole – con tutta l’irrazionalità diffusa tipica di una discussione che spazia dalla fredda scienza all’emotività del subconscio individuale e collettivo. L’Italia è un paese circondato da centrali nucleari, Francia, Svizzera, Austria e Slovenia hanno reagito più freddamente all’onda lunga di Cernobyl, continuando ad affidare il loro approvvigionamento energetico a questi mostri del ventesimo secolo, magari – si spera – riveduti e corretti nella progettazione.
L’Italia invece è rimasta ferma al referendum del 1987 ed al suo niet stampato nel nostro cuore in quei giorni in cui il reattore 4 di Cernobyl bruciava a cielo aperto. Con tutte le conseguenze d’altro canto negative sulla bolletta dell’ENEL, come lamentano i fautori del nucleare. In paesi come la Finlandia, ormai disseminati di centrali, l’energia elettrica ed il riscaldamento sono praticamente gratis. L’Italia si approvvigiona per gran parte del suo fabbisogno all’estero, ed a caro prezzo.
Il dibattito è continuato e continua. Ma siccome la storia segue percorsi suoi a volte imperscrutabili, quando il pendolo sembrava oscillare di nuovo dalla parte del nucleare anche nel nostro paese, ecco di nuovo i mass media accendere le telecamere sul luogo di una nuova sciagura nucleare. Stavolta non nella vecchia patria del comunismo agonizzante, ma bensì nel superefficiente Giappone, che costruisce le sue centrali – essendo fatto di isole lunghe e strette – in riva al mare o a poca distanza da esso.
Fukushima Dai-ichi
A Fukushima Dai-ichi stavolta è stata la natura a rivoltarsi contro il moderno Prometeo. Lo tsunami dell’11 marzo 2011 ha travolto i primi tre reattori provocando la fusione dei rispettivi noccioli e la dispersione nell’Oceano Pacifico degli isotopi radioattivi. Al pari dell’aria, l’acqua è un conduttore di radioattività micidiale. E di nuovo di radioattività è tornato quindi a nutrirsi l’uomo negli ultimi anni, anche se l’uranio impoverito di tante bombe intelligenti disperse nei mari di vari teatri di guerra avevano già costituito un antipasto consistente.
Anche l’incidente di Fukushima è classificato 7 nella scala INES. Un nuovo potente monito alla razza umana che gioca con la selvaggia potenza degli elementi della natura, senza comprenderne fino in fondo la pericolosità. Sempre affascinata dagli apprendisti stregoni che promettono un futuro da fantascienza e minimizzano i costi, soprattutto umani. A costoro, vale la pena di ricordare il monito dello stesso Enrico Fermi, il padre dell’atomo, ai suoi allievi: “non siate mai i primi, cercate di essere secondi”.
Ma più che tutto vale la pena ed è sufficiente forse ripetere quel nome, da favola terrificante della buonanotte da raccontare a quell’eterno bambino che è rimasto l’uomo, sperando che almeno la paura sia capace di ravvederlo.

Cernobyl.

venerdì 24 aprile 2015

25 aprile 1945

Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire!”.
Settant’anni fa, all’ora in cui più o meno oggi facciamo colazione, Sandro Pertini per voce del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia proclamava alla radio l’insurrezione generale delle forze partigiane in tutti i territori che ancora restavano sotto il controllo dei nazifascisti. Alle 8 circa, la Brigata Garibaldi, il Corpo Volontari per la Libertà e le altre formazioni resistenziali che si erano costituite a Milano, Bologna, Venezia e negli altri centri principali dopo l’8 settembre 1943 cominciarono l’occupazione delle fabbriche, delle prefetture e della viabilità per contrastare la resistenza prima e la fuga poi dei gerarchi fascisti e degli ultimi occupanti della Wehrmacht e delle SS.
I partigiani avevano cominciato a scendere dalle montagne già nei giorni precedenti, affluendo verso i luoghi delle ultime battaglie. Genova era stata liberata il 23, Bologna addirittura il 21. La lunga notte calata sul territorio nazionale dopo l’armistizio di Badoglio e la violenta reazione dei nazisti volgeva al termine. Gli ultimi mesi erano stati lunghi ed ancora più tragici. Dopo la liberazione di Firenze l’11 agosto 1944, il fronte si era fermato sulla Linea Gotica, lo schieramento difensivo tedesco piazzato dal Feldmaresciallo Kesselring da Massa-Carrara a Pesaro, dal Tirreno all’Adriatico. E lì era rimasto bloccato fino alla primavera successiva.
Alla metà di aprile, solo Hitler ed i suoi più ristretti collaboratori come Goebbels erano rimasti convinti della possibilità di vittoria finale per il Reich. La loro tragica follia fu rincuorata per un istante dalla morte del presidente americano Franklin Delano Roosevelt avvenuta il 12 aprile. Subito dopo gli angloamericani (che fin dai primi di marzo avevano varcato il Reno a Remagen entrando in Germania) ed i sovietici (che avevano fatto lo stesso attaccando la Prussia Orientale dalla Polonia dove avevano scoperto i campi di concentramento come Auschwitz) dettero l’ultima spallata che li avrebbe portati ad incontrarsi sull’Elba proprio quel 25 aprile 1945, lo stesso giorno in cui l’Italia si liberava delle ultime vestigia della più odiosa e sanguinosa occupazione tra quante ne aveva subite nella sua lunga storia. Lo stesso giorno in cui metteva fine a 23 anni di dittatura fascista.
Sulle scale dell’Arcivescovado di Milano, Sandro Pertini incontrò Mussolini in fuga, e fu l’ultima volta in cui colui che era stato il Duce fu visto vivo da esponenti ufficiali della Resistenza. Dopo, nei giorni seguenti, la sua fuga travestito da soldato germanico verso il fantomatico ridotto della Valtellina e la sua fine a Giulino di Mezzegra per mano del plotone d’esecuzione comandato dal partigiano Valerio sono tutt’ora oggetto di studio da parte degli storici, ammantate più di leggenda che di verità accertata. Il Duce del Fascismo riapparve il 29 a Piazzale Loreto, ormai cadavere esposto al linciaggio della folla inferocita da cinque anni di guerra senza quartiere e senza pietà.
I gerarchi fascisti erano stati tutti condannati a morte dal C.L.N.A.I. “Arrendersi o perire!” fu appunto la parola d’ordine con cui la resa venne intimata dai partigiani a tuti coloro che in vario grado e a vario titolo si erano schierati dalla parte di Salò. Seguì il periodo difficile della resa dei conti tra partigiani ed ex-fascisti, che proseguì grosso modo fino all’amnistia promulgata un anno dopo circa dal Ministro della Giustizia Palmiro Togliatti. Nello stesso periodo si decise di consacrare quel 25 aprile come festa nazionale. Fu il Luogotenente Umberto di Savoia a decretarlo, poco prima che il popolo italiano trasformasse lo Stato da monarchia in repubblica.
Di tutte le feste, più ancora forse del 2 giugno anniversario del referendum per la repubblica o del 4 novembre anniversario della grande vittoria nella prima guerra mondiale, l’ultima guerra di indipendenza, il 25 aprile è rimasto nel cuore degli italiani perlomeno delle generazioni che hanno vissuto quel giorno o ne hanno sentito parlare come si fa con una memoria ancora vivida. Vi è rimasto perché in fondo simboleggia il momento più nobile della storia d’Italia, il giorno in cui la nazione si liberò da una dittatura e da una occupazione straniera che potevano essere fatali, ed in cui ritrovò la dignità perduta l’8 settembre.

Sono sempre meno purtroppo i partigiani dell’A.N.P.I. che sfilano in questa giornata a ricordo di quello che ebbero il coraggio di fare settant’anni fa. La legge di natura non fa sconti nemmeno agli eroi, ai superstiti di quella guerra di liberazione che finì per essere – per la prima volta – una guerra di popolo come nemmeno il Risorgimento aveva saputo diventare. Ma di tutte le feste che il calendario italiano propone, questa del 25 aprile più di ogni altra resta in eredità al cuore di tutti e al di fuori di ogni discussione. Fu quel giorno che l’Italia si meritò il posto che da allora ha occupato tra le nazioni del mondo civile.

Firenze sogna



Questa è la Fiorentina”, dice alla fine raggiante ai microfoni Diego Della Valle. E quelli di lunedi scorso allora chi erano? A parte lo stesso colore di maglia, neanche lontani parenti di questi che hanno appena demolito la Dinamo Kiev, al di là del punteggio bugiardo. Per il ritorno dei quarti di finale di Europa League Vincenzo Montella ha schierato la formazione tipo, stavolta si fa sul serio. Quando la squadra gioca così, significa che il mister ha azzeccato tutto. E dopo tre giorni, dalle stalle di nuovo alle stelle.
Firenze è in festa, perché dopo sette anni torna a giocare una semifinale europea. Lasciamo stare i distinguo tra titolari e riserve, è un discorso che porterebbe lontano. Facciamo piuttosto quello dell’approccio alla partita e dell’atteggiamento in campo. Anche quello è un discorso che porta lontano, soprattutto porta più avanti in questa stagione che riserva ancora qualcosa per il colore viola. La Fiorentina è tra le prime quattro squadre di quella che una volta si chiamava la Coppa UEFA, e non è ancora finita qui. Basta che la testa e le gambe funzionino sempre come hanno fatto stasera.
La Dinamo Kiev non è più quella dei tempi di Lobanovskij, questo è certo. E’ sicuramente meno del Verona che lunedi ha portato via tre punti dallo Stadio Franchi, almeno a giudicare da quello che si vede in questa notte europea dove la Fiorentina tira verso la porta di Shovkovskij qualcosa come venti volte, mentre gli ucraini tirano verso la Curva Fiesole soltanto quattro volte e solo una nello specchio della porta difesa – di nuovo egregiamente – da Norberto Neto.
Difficile stabilire i meriti di questa Fiorentina e i demeriti dei suoi avversari. Molto meglio godersi questo nuovo successo internazionale, che porta sul tre a zero lo score degli incontri tra toscani ed ucraini, con Babacar, Gomez e Vargas che aggiungono i loro nomi all’elenco dei giustizieri della Dinamo dopo quelli di Chiarugi, Maraschi e Roberto Baggio, rinverdendo i successi ormai sbiaditi del 1969 e 1989. Un successo che pone la Fiorentina in condizione di ritentare l’assalto a questa Europa League che andò a male nel 2008 sul rigore calciato malamente da Christian Vieri.
Titolari e riserve, discorso complicato. Più facile dire che tra squadra in campo e panchina Montella si porta dietro quindici persone che sono quanto di buono ha da schierare questa Fiorentina. Fine dei turnover, degli esperimenti, ognuno al suo posto e soprattutto la testa a posto. I ragazzi in viola si avventano su quelli in maglia bianca fin dal primo minuto, e dopo dieci minuti tra gol annullati, gol sbagliati e tiri parati da Shovkovskij potrebbero stare già almeno 3-0 ed aver chiuso il discorso.
E’ una di quelle serate in cui non sai se riscaldarti a vedere come gioca bene la squadra o raffreddarti al pensiero che le occasioni fallite in così gran quantità va a finire che si pagano. Senza andare tanto indietro, è successo tre giorni prima. Ma stasera giocano i migliori, e giocano al meglio. Stasera Mario Gomez sembra agile e funambolico come Giuseppe Rossi, Borja Valero sembra quello che vorremmo sempre vedere, veloce, preciso e determinato nelle sue impostazioni di gioco. Da un suo tiro nasce il gol in ribattuta che viene purtroppo annullato a Supermario per fuorigioco dapprima passivo e poi improvvisamente attivo.
Ci vuole un tempo ed una sagra di errori, traverse e parate, che ha come precedente forse soltanto quell’allucinante Fiorentina – Pescara di tre anni fa, prima che il punteggio possa essere sbloccato e adeguato, seppur in minima parte, a ciò che si è visto sul campo. Nel frattempo, l’arbitro svedese Eriksson ha dovuto giudicare su un episodio non facile in area di rigore dei viola: il folletto Lens, che già all’andata aveva cercato di complicare la vita ai nostri eroi segnando un gol fortunosissimo, vince un rimpallo ed affonda verso l’area piccola, ma sul bordo di quella grande trova ad attenderlo Gonzalo Rodriguez che lo contrasta. Il pallone schizza via e Lens schizza in terra.
Attimi di gelo calano sul Franchi: Eriksson arriva di corsa ed estrae il cartellino giallo in faccia a Lens, accusandolo di simulazione. Siccome è il secondo giallo, subito dopo esce il rosso. La torcida viola tira un sospirone di sollievo e capisce che la serata non si sta mettendo male. L’ 0-0 continua a qualificare la Fiorentina, l’uomo in più a questo punto rende l’impresa proibitiva per gli ucraini. Il gol che un minuto dopo segna Mario Gomez sul rovesciamento di fronte la rende quasi impossibile.
Per inciso, le immagini rallentate mostrano come Gonzalo e Lens si incocciano in un contrasto abbastanza regolare con il pallone come obbiettivo di entrambi. Si può discutere semmai sull’eccessività dell’espulsione, ma il volo d’angelo dell’olandese della Dinamo induce l’arbitro a ravvisare la simulazione. Firenze ringrazia, magari altri direttori di gara non sarebbero stati altrettanto bravi a velocità naturale.
Firenze ringrazia anche Mario Gomez, perché poco dopo – come detto – riesce ad addomesticare una rasoiata di Joaquin (uomo spettacolo anche stasera, finché il fiato gli ha retto) e a deviarla alle spalle dell’estremo difensore ucraino. Probabilmente non il più bello dei suoi gol, ma sicuramente uno dei più difficili, perché si tratta di coordinarsi malgrado l’impeto con cui il bomber tedesco si avventa sul pallone.
Al riposo, il vantaggio minimo consola della mancata goleada. Nella ripresa si procede senza cambi, dal momento che squadra che vince – e in questo modo – non si tocca. Il dominio viola continua indisturbato. La difesa a quattro concede zero a Yarmolenko & soci, che dimostrano peraltro di essere abbastanza grezzi sotto il profilo della manovra. Il centrocampo crea a volontà, sotto la regia quanto mai ispirata di Pizarro e con Mati e Borja che stasera hanno gli spazi giusti per dare spettacolo. In avanti, Salah forse è appena un capellino meno esplosivo rispetto a qualche uscita precedente, ma trova tempo e modo di esaltare la platea con alcuni numeri dei suoi, di quelli che gli hanno fatto guadagnare il soprannome di Messi delle Piramidi.
Se un appunto si può fare a una squadra che gioca ad una porta sola è quello di eccedere come al solito in preziosismi e nella ricerca dell’ultimo passaggio all’infinito, difetto che si accentua mano a mano che il fiato cala e la velocità si attenua. L’altro difetto è quello di arrivare ai minuti finali con la benzina in riserva. Una Dinamo che ha passato a fatica la metà campo per ottanta minuti, in quelli finali trova il modo di preoccupare l’avversaria che fino a quel momento l’ha dominata. Difficile dire se il debito d’ossigeno riguardi più la testa o le gambe dei viola, fatto sta che in almeno una circostanza tocca a Neto salvare la patria, sventando dei supplementari che avrebbero avuto del clamoroso. Pochi istanti dopo Gonzalo invece deve liberare di testa sul filo dell’autogol.
E’ il momento di un cambio che porti un po’ di freschezza. Stasera mister Montella li indovina tutti. Dopo Badelj per Borja Valero e Aquilani per il Pek, che esce sotto una standing ovation, è il momento di Juan Manuel Vargas che rileva un Salah che ha corso tantissimo anche stasera e sfiorato almeno due gol. Ma non era destino che fosse lui l’eroe della serata, bensì il figliol prodigo che prende il suo posto.
La Fiorentina risistemata in campo per effetto dei cambi riprende a fare gioco senza più incertezze, alla ricerca del gol sicurezza. Al quarto minuto di recupero il pallone capita sulla fascia sinistra al peruviano, che improvvisamente si ricorda chi era, in quella prima stagione con Prandelli in cui era diventato un’arma letale incontenibile per gli avversari. La progressione di Vargas è imperiosa e lo porta a tu per tu con Shovkovskij. Il tiro è un bolide spaventoso che non lascia scampo al portiere ucraino. Dopo, è soltanto festa viola.
La Fiorentina è di nuovo in semifinale di Europa League. Un risultato che impreziosisce questa stagione a prescindere da come andrà a finire. Da adesso in poi c’è spazio per il sogno. Se come dice Diego Della valle, questa è davvero la Fiorentina, sogniamo volentieri.