lunedì 24 giugno 2013

APPUNTI DI VIAGGIO: Roselle, la nostra Grande Storia

Quando  si  arriva  all’uscita di Roselle-Nomadelfia della Supestrada Siena-Grosseto,  ormai  si  è in prossimità   del  capoluogo  maremmano,  se  ne  intravede  già  la  periferia  e  spesso  si   pregusta l’imminente arrivo  in  qualcuna  delle  sue  località  balneari  che  l’hanno  reso famoso in Italia ed Europa. 
A Roselle bisogna andarci apposta, tornandoci nei giorni successivi magari approfittando di una giornata di tempo incerto per non sottrarre istanti preziosi ai bagni di mare ed alla tintarella. Basta allontanarsi comunque di soli 8 km dal centro di Grosseto (Marina, Castiglione o Principina sono a distanze di poco superiori), per rituffarsi all’indietro nel tempo nella storia raccontata da pietre che testimoniano di un’epoca in cui queste terre erano il centro del mondo conosciuto, e questa civiltà non aveva nulla da invidiare a molte di quelle che sono venute dopo di lei, anche in epoche recenti.
Siamo abituati dalla letteratura e dai racconti dei nostri vecchi a considerare la Maremma una terra di straordinaria e selvaggia bellezza, ma anche una terra dove la civiltà ha combattuto molto più che altrove per affermarsi, riuscendovi solo in epoca recente grazie alle due bonifiche effettuate prima dal Granduca di Toscana Pietro Leopoldo di Lorena-Asburgo e poi dal Cavalier Benito Mussolini, che debellarono insieme alla Malaria anche condizioni di vita proibitive per chi viveva da queste parti o era costretto a venirci per lavoro o commercio. Ecco, arrivando a Roselle ci si rende conto invece che una volta questa parte del mondo era stata baciata dalla sorte, essendo teatro della nascita e dello sviluppo di quella civiltà del Mondo Antico che affascina tutt’ora per i livelli di conoscenza e di progresso raggiunti, e che solo negli ultimi due secoli possiamo dire di aver eguagliato e superato.
Più o meno nel periodo in cui Roma era un villaggio le cui fondamenta erano state appena tracciate al suolo dai capi delle tribù latine ed etrusche che concorsero a darle vita, più a nord – in un’area che va oggi dall’Emilia Romagna all’Alto Lazio – il popolo degli Etruschi aveva dato vita ad un insediamento e ad una civiltà che non avevano nulla da invidiare a quello degli Achei in Grecia. Era un popolo dalle origini misteriose, dai tratti somatici e culturali che non avevano punti di contatto con nessun altro tra quelli che abitavano a quei tempi la Penisola, tanto che si pensa fosse venuto dal Medio Oriente, probabilmente dalla Fenicia, l’odierno Libano.
Al pari degli antichi Greci, come forma di governo e organizzazione sociale avevano sviluppato delle Città-Stato, dette Lucumonie. I Lucumoni erano appunto i Re etruschi, che non permisero o furono mai capaci di costituire una vera unità politica della loro nazione. Se questa fu da un lato la loro forza, perché al pari di quanto avvenne in Grecia impedì di fatto lo sviluppo di regimi centralizzati ed autoritari favorendo anzi quello di comunità che per i tempi si potevano definire sostanzialmente democratiche, dall’altro fu la loro debolezza fatale allorché si trovarono alla resa dei conti con un vicino molto più strutturato politicamente e militarmente, i Romani.
Una delle leggende più ricorrenti nel nostro background culturale vuole che i Romani vincitori distruggessero ogni traccia della civiltà etrusca dopo la sua conquista, in ragione proprio della fatica che avevano fatto per affermarsi contro il primo e più pericoloso degli avversari incontrati nella loro marcia verso il dominio del mondo allora conosciuto. Di sicuro, la storia la scrivono sempre i vinti, e Tito Livio & C. erano romani purosangue che avevano tutto l’interesse a magnificare la Repubblica prima e l’Impero poi, a discapito di ogni civiltà che avesse loro opposto resistenza. Ma è più facile pensare che successe in Etruria quello che sarebbe successo più tardi in Grecia.
Graecia capta ferum victorem coepit, come avrebbe scritto il poeta romano Orazio: la Grecia conquistata finì per conquistare il barbaro conquistatore. E così accadde in Etruria, con la forza delle armi Roma si impose alla fine ad un vicino che non aveva la sua stessa organizzazione politica e militare, anche se nei primi secoli della sua storia le era stato per forza di cose superiore, Pare addirittura che gli ultimi tre re di Roma fossero etruschi, il che testimonia della predominanza sostanziale di quella etnia nel nascente capoluogo del Lazio. Pare addirittura che la rivolta che dette origine alla Repubblica romana altro non fosse che la rivolta contro la fazione etrusca, e che l’ultimo re Tarquinio il Superbo fu messo in fuga insieme a tutti i suoi connazionali dai Latini stanchi di vedere la loro vita pubblica ed economica in mano ai più avanzati vicini venuti dal nord. Sotto l’attacco di Porsenna e della Federazione delle Lucumonie, gli Etruschi andarono vicini a riconquistare Roma, e allora la storia del mondo antico sarebbe stata del tutto differente. Ma alla fine il tentativo fallì, Roma rimase una Repubblica e rimase latina, e non appena fu in grado, trascorsi un paio di secoli, regolò i conti con il popolo venuto da Oriente. Politicamente e militarmente, si intende, perché in realtà, come dimostra proprio l’insediamento di Roselle, tra le due etnie e le due culture ci fu più che altro che una fusione, una compenetrazione, una osmosi che dette vita a una civiltà unica e più avanzata.
Al tempo di queste vicende, Roselle era una delle Città-Stato etrusche più potenti e progredite, e dominava tutta l'attuale Maremma. Come era successo nella Valle dell’Arno e dovunque alte montagne sovrastavano ampie vallate, gli Etruschi generalmente avevano preferito costruire in alto, probabilmente sui resti di una precedente insediamento villanoviano. Per una civiltà che non faceva della potenza militare il suo tratto distintivo principale, era essenziale porre i propri insediamenti in condizioni di sicurezza che il fondovalle non offriva. Diverso generalmente il discorso per i Romani, che essendo dotati di ben altre risorse militari avrebbero privilegiato per costruire le loro città i corsi d’acqua e le vie naturali di comunicazione. Così, se gli Etruschi per esempio avevano costruito a Fiesole, i Romani avevano posto l’incrocio tra Il Cardo ed il Decumano, le vie principali attorno alle quali avrebbero sviluppato la loro civitas poi chiamata Florentia, in riva all’Arno. A Roselle, capitale etrusca della Bassa Toscana, ci fu invece il primo esempio di integrazione tra due popoli che più diversi non avevano potuto essere fino a quel momento.
Quando i Romani conquistarono Rusellae nel 294 a.C., dopo l’inevitabile massacro successivo ad ogni conquista militare si guardarono tuttavia bene dal distruggerla. Troppo favorevole la sua posizione da cui si dominava la valle del fiume che adesso si chiama Ombrone e troppo sviluppata la città per invogliarli a costruirne un’altra. Così, con una scelta che dimostrava tutta la loro sagacia, si limitarono a inglobare l’Acropoli e la Necropoli etrusca nella loro civitas, ampliando le mura a secco già costruite dai Lucumoni con le proprie e sviluppando un caratteristico Foro Romano a completamento e corredo di quello etrusco già fiorente, nonché dotando l’abitato di strutture pubbliche per i quali i loro architetti andavano già famosi nell’antichità, e che sarebbero rimasti a memoria imperitura della loro abilità: un modernissimo acquedotto e impianto di raccolta delle acque, un anfiteatro che colpisce (ancor oggi che è ridotto a un rudere) per la sua acustica e per la pregevole estetica. Ciò che rimane inoltre delle pavimentazioni a mosaico testimonia che anche in epoca romana continuarono i contatti con la civiltà ellenica prima ed ellenistica poi che erano stati avviati dalla città etrusca nel periodo del suo massimo splendore.
I Romani erano dei conquistatori che sapevano riconoscere una civiltà superiore, farne propri e metterne a frutto i vantaggi. Così, finché durò l’Impero durò anche l’importanza di Roselle come centro amministrativo-commerciale dell’Italia centrale. Le sue dimensioni, i resti di numerosi edifici pubblici e di notevoli attività commerciali e culturali lo testimoniano ancor oggi. Con la caduta dell’Impero e le Invasioni Barbariche, la vecchia intuizione etrusca ritornò quanto mai d’attualità, consentendo alla comunità di Roselle di rimanere abbastanza al sicuro dagli sconvolgimenti che misero fine al Mondo Antico e gettarono l’Italia nei secoli bui dell’Alto Medioevo. I cronisti del VI° e VII° secolo raccontano della trasformazione urbana (con la trasformazione delle Terme, ormai viste come instrumentum diaboli, in basilica paleocristiana) operata dalla nuova religone monoteista trionfante, il Cristianesimo, e dell’arrivo del terribile morbo che avrebbe accompagnato queste terre fin quasi ai giorni nostri: la Malaria.
Nel 1138 una bolla di Papa Innocenzo II segnò un punto di non ritorno nella bimillenaria storia di Roselle, trasferendo la sede vescovile a valle in un borgo appartenente al feudo degli Aldobrandeschi, conosciuto come Grosseto. Quella data è l’atto di nascita ufficiale dell’attuale capoluogo maremmano, e quello di morte di Roselle, che si spopolò a poco a poco a vantaggio dell’insediamento posto sul fiume Ombrone, una collocazione sicuramente più vantaggiosa in un’epoca che vedeva la ripresa dei commerci e la fine delle scorrerie degli eserciti barbarici prima e imperiali poi.
Pare che nonostante lo spostamento del baricentro politico ed economico a Grosseto, la collina di Roselle rimanesse popolata fino al XVI° secolo, a giudicare da alcuni manufatti di maiolica rinvenuti nell’area. Alla fine del XVIII° secolo, mentre i Granduchi di Lorena-Asburgo concedevano a Grosseto lo status sostanziale di provincia affrancandola da Siena, a Roselle ormai disabitata e dimenticata da quasi tutti si affacciavano i primi precursori dell’Archeologia. Per una vera e propria riscoperta archeologica del sito bisognò attendere comunque gli anni 50 del XX° secolo.

Attualmente, l’area di Roselle è visitabile per buona parte, nonostante alcune limitazioni (che destano francamente perplessità) dovute a mura pericolanti, a proprietà private o a non meglio specificati progetti di salvaguardia delle coltivazioni agricole (in un’area archeologica?) attraverso una rete elettrificata a livello dei sentieri percorribili dai turisti. Ma a parte questi aspetti, che fanno dubitare di quanto si diceva inizialmente, e cioè che possiamo veramente dire di aver raggiunto e superato i nostri predecessori Etruschi e Romani, Roselle resta un luogo dello spazio e del tempo da visitare per ritrovare non soltanto la nostra storia, ma anche noi stessi.

sabato 15 giugno 2013

RENZIADE: Malgrado Renzie, non saranno Happy Days

«Nel Parlamento italiano, quando non si vuole affrontare un problema si nomina una commissione». Matteo Renzi non lo sa, ma nel dire questo ha fatto una citazione nientemeno che di Bettino Craxi. Ci sono cose, in Italia, che non cambiano, dalla Prima alla Seconda Repubblica. Ci sono riforme che la nostra classe politica non vuole e non vorrà mai che vengano fatte. Perché significherebbe andare a casa e abdicare al proprio potere. Una di queste, la più importante, è quella della Costituzione e del sistema elettorale.

Scriveva tempo fa Giovanni Sartori, il più illustre, saggio e longevo dei nostri politologi, che se si vuole fare davvero una modifica della forma di governo c’è poco da studiare, o per meglio dire da tergiversare. Si prende quella di uno dei maggiori paesi occidentali, U.S.A., Francia, Germania, che può essere più congeniale alla nostra storia ed alle nostre necessità e la si adotta pari pari.
E funzionerà, come funziona nel paese da cui l’abbiamo presa a prestito. Se invece non si vuole – ed è il caso dei nostri politici – si nomina una Bicamerale e le si dà un tempo indeterminato per studiare, per andare alla ricerca della Pietra Filosofale, del sistema perfetto sulla carta e che a Dio piacendo sulla carta rimarrà.
Dopo la storica Bicamerale di Prodi e D’Alema, che quindici anni fa si accampò in Parlamento come Annibale agli Ozi di Capua e finì per partorire quel disastro epocale che è stata la riforma del Titolo V della Costituzione e (per fortuna) poco altro, le nostre forze politiche ci riprovano. Come se non fossero bastati i predecessori di ulivista memoria e nemmeno i Dieci Saggi del Presidente Napolitano, adesso arrivano i Quaranta, che dovranno discutere di un cambiamento della Carta costituzionale che nessuno di loro in realtà vuole. L’analogia numerica con gli avversari di Alì Babà è puramente casuale, ovviamente.
Battute a parte, più tempo ci mettono (anche se non lo ammetterà mai nessuno) meglio è per il Governo Letta, che agganciandosi a questo escamotage ha cominciato a sperare di potersi riciclare da governo d’emergenza a governo di legislatura. E meglio è per loro, perché se non bastasse il lauto stipendio da parlamentare già percepito verrà loro corrisposto anche un gettone di presenza per ogni giorno speso a discutere di angeli che non sanno nemmeno loro se vogliono cambiare sesso. Doppio stipendio per fare ciò che sarebbe già loro dovere fare, si chiama, per chi non se lo ricordasse, spending review.
Era il 15 giugno del 1215 quando i Baroni del Regno d’Inghilterra imposero a Re Giovanni Senzaterra la prima carta costituzionale della storia, la Magna Charta. Ciò avvenne al termine di un lungo periodo oscuro e sanguinoso di lotte interne. Più o meno come quello che il popolo italiano ha davanti se vuole e spera di convincere i propri politici a comportarsi in modo più conforme al proprio mandato politico, nonché a fare qualcosa di utile a tirare fuori il paese dalla crisi che attraversa.
Il crollo di partecipazione elettorale registrato ai ballottaggi delle ultime amministrative è un segnale inequivocabile e assai infausto. Il popolo italiano non crede più alla rappresentanza democratica espressa attraverso il voto, soprattutto non crede più ad una politica che non c’è verso di piegare al proprio volere, almeno con mezzi legali. Da qui il 48,5% di votanti domenica scorsa, il minimo storico. Si eleggeva il sindaco in 16 comuni capoluogo e in 76 comuni cosiddetti maggiori. Il centrosinistra ha fatto l’en plein e ovviamente ha cantato subito vittoria. Inutile chiedere ai suoi leaders se qualcuno di loro ha qualche ricordo scolastico su chi fosse Pirro, quel Re dell’Epiro che pagò a così caro prezzo una sua vittoria sui Romani da dare il proprio nome da allora in poi alle vittorie inutili, se non addirittura a sconfitte mascherate da trionfi.
Ma torniamo al Sindaco di Firenze Matteo Renzi, uno dei competitor alla leadership di quello che sarà il Partito Democratico superstite, come lo era quell’Ignazio Marino nel frattempo diventato da outsider Sindaco di Roma o come avrebbe voluto essere anni fa anche Beppe Grillo. "L’uomo che sussurrava prima a Bersani e poi a Epifani" ha improvvisamente deciso di rompere gli indugi e riscendere in campo, a ottobre sarà di nuovo il lizza per le Primarie bis. Qualcuno deve avergli finalmente fatto capire che la "politica dei due forni" andava bene al tempo dei suoi archetipi democristiani, ora invece è il sistema migliore per perdere un treno che potrebbe non ripassare più. Qualcuno deve avergli fatto capire che vestirsi da Fonzie sarà anche divertente, almeno per una parte dell’audience, ma che i cittadini vorrebbero vederlo vestirsi più che altro da leader, e soprattutto comportarsi come tale.
Da circa un anno a questa parte Matteo Renzi "non campa e non crepa", come si dice con termine assai colorito nella sua città. Non governa più il suo Comune, infatti è stato rilevato come sia in lizza per il titolo di Sindaco più assenteista d’Italia, 8 sedute del Consiglio Comunale su 45 in tutto il 2012, se la gioca con Alemanno (che abbiamo visto che fine ha fatto). A parte farsi vedere allo stadio quando la Fiorentina gioca e vince, chi si aspettava che Renzi facesse "qualcosa di fiorentino", per parafrasare Nanni Moretti, è rimasto assai deluso. E’ notizia dell’ultim’ora l’addio sostanziale dato dall’Amministrazione Comunale alle linee 2 e 3 della Tramvia. Le motivazioni addotte sono quelle che vogliono l’azienda appaltatrice Impresa S.p.A. (già subentrata alla precedente aggiudicataria, il Consorzio Etruria andato in fallimento) in grave crisi di liquidità.

In realtà, nessuno in città si nasconde quale sia la realtà dei fatti: il Sindaco, ad un anno dalle elezioni che dovrebbero confermarlo, non vuole cantieri aperti in mezza città. Anziché porre il mantenimento di vecchie promesse non solo elettorali come vanto e punto cardine del nuovo programma di governo cittadino, Renzi in questo appare più vecchio del vecchio che vuole o diceva di volere rottamare, trattando l’opera pubblica più importante degli ultimi 30 anni a Firenze come una fonte di mugugno popolare e basta. E disinteressandosi completamente della ricaduta negativa disastrosa in termini economici ed occupazionali, per tutte quelle piccole e medie imprese che facevano affidamento su lavori che a questo punto non partiranno fino a dopo il 2014. O anche mai, perché nel frattempo andranno a scadenza i tempi concessi dall’Unione Europea per l’utilizzo del finanziamento di 36 milioni accordato a Firenze: o si finisce nel 2015 o addio fondi comunitari. Una dèbacle, insomma.
Con un futuro poco luminoso come amministratore comunale, il buon Renzi deve aver riconsiderato più attentamente quella parte del suo futuro che lo spinge verso Roma. Facile dire “con grosso sollievo dei fiorentini”, più difficile dire con quale appeal all’interno di un Partito Democratico devastato dagli ultimi mesi di scelte scellerate e assai poco rivitalizzato dalla cura Gerovital di Enrico Letta, soprannominato nel frattempo "l’uomo del governo senza fretta".
Tempi duri insomma e scelte difficili si impongono al giovane Renzi, che non conosce forse le citazioni di Craxi e nemmeno quelle di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che faceva dire al suo Gattopardo: “perché nulla cambi, tutto deve cambiare”. Il problema è che ormai è tardi anche per il trasformismo tradizionale della politica italiana, o questo sistema cambia davvero o non esplode soltanto lui, ma tutto il paese.

mercoledì 12 giugno 2013

Quando l'Italia morì con Alfredino



La foto in bianco e nero di quel bambino sorridente con la canottierina a righe apparve all’improvviso in televisione verso l’ora di pranzo dell’11 giugno 1981. A partire dai telegiornali delle 13:00 di quel giorno, sarebbe rimasta sullo sfondo di tutte le trasmissioni in tutte le reti televisive per tre giorni. Sarebbe rimasta soprattutto sullo sfondo della nostra vita e della nostra coscienza per lungo tempo a venire, come l’emblema di una tragedia con cui non si può venire a patti, né in questa vita né in nessun’altra.
Alfredino Rampi
Era ancora la televisione in bianco e nero che da poco era stata sottratta al monopolio di stato. La RAI aveva tre canali, che a mezzanotte interrompevano le trasmissioni, Canale 5 (la nuova emittente del tycoon Berlusconi) muoveva non troppo timidamente i primi passi. In quei giorni drammatici in cui un intero paese si strinse intorno
all’imboccatura del pozzo di Vermicino tentando, con la generosità e la disorganizzazione che gli sono propri da sempre, di salvare la vita del piccolo Alfredo Rampi, nacque la televisione moderna. Ed anche la vita moderna, con i suoi drammi vissuti in diretta TV e rapidamente consumati come in un rotocalco.
La notte tra l’11 ed il 12 giugno 1981 nessuno andò a dormire, sperando nel miracolo di veder recuperare Alfredino dal pozzo artesiano nella frazione di Vermicino, tra Frascati e Roma, in cui era precipitato la sera prima, mentre tornava a casa da solo. Raramente la televisione di stato aveva prolungato i suoi programmi oltre la mezzanotte: quando l’uomo era andato sulla Luna, quando si disputavano Mondiali di Calcio, Olimpiadi o qualche incontro di boxe. Quella volta si trattò di assistere ad un salvataggio come fino a quel momento si era visto solo nei film americani (quelli a lieto fine, che nella vita reale invece non c’è mai), alla morte di un bambino malgrado gli sforzi più o meno estemporanei di tanta gente tra professionisti e volontari, alla nascita di una coscienza civile in cittadini-spettatori che col tempo l’avrebbero smarrita di nuovo (dispersa nei mille futili rivoli dei talk show), alla nascita di una Protezione Civile che dopo questa tragedia e dopo quell’altra immane del terremoto in Irpinia del novembre precedente avrebbe portato un po’ di organizzazione tra chi coraggiosamente e generosamente prestava soccorso dove c’era bisogno e dove spesso si arrivava male e tardi.
Alfredino Rampi cadde nel pozzo di Vermicino verso le 19:00 del 10 giugno. Il pozzo era stato addirittura richiuso dal proprietario che non si era accorto della sua caduta, e solo verso mezzanotte i poliziotti allertati dai coniugi Rampi udirono i suoi richiami dalle profondità della terra. Da quel momento partì la cosiddetta macchina dei soccorsi, coordinata dall’allora Comandante dei Vigili del Fuoco della Capitale Ing. Elveno Pastorelli, che si trovò a combattere principalmente con un destino che sembrò accanirsi diabolicamente contro Alfredino e chi cercava di salvarlo, ma anche con una disorganizzazione ed un pressappochismo di cui ci si rese esattamente conto soltanto in seguito, dopo che il pathos del salvataggio si era fatalmente spento.
Il presidente Sandro Pertini con l'ing. Elveno Pastorelli
I primi tentativi furono approssimativi. Una tavoletta legata a corde calata affinché il bambino vi si aggrappasse si incastrò nel pozzo e finì per ostruirlo quasi completamente. Alfredino a quel punto era a 36 metri di profondità. Provarono gli speleologi del Soccorso Alpino a calarsi giù per toglierla, ma non riuscirono neanche a raggiungerla perché il pozzo si restringeva troppo. A quel punto Pastorelli congedò gli speleologi e decise di puntare sulla trivellazione di un pozzo parallelo che avrebbe permesso ai soccorritori di ricongiungersi a quello in cui era imprigionato Alfredino, attraverso un collegamento che sarebbe sbucato al di sotto del suo livello. A nulla valsero le obiezioni dei geologi presenti, i quali fecero notare che la durezza dei substrati del terreno avrebbe protratto i lavori troppo a lungo, e nello stesso tempo a causa delle vibrazioni rischiato di far sprofondare il bambino ancora più in profondità.
Gli scavi iniziarono alle 8 di mattina dell’11 e si protrassero fino ai TG di mezza giornata, che alla fine non restituirono la linea, ma organizzarono una diretta ad oltranza facendo affidamento sulle previsioni ottimistiche dell’Ingegner Pastorelli e confidando quindi di poter trasmettere in diretta il salvataggio del bambino. Sarebbe stata una delle dirette più lunghe e drammatiche della storia della televisione italiana. Per tutto il pomeriggio, si assisté al succedersi di tentativi che smentirono previsioni e aspettative del Comandante dei Vigili del Fuoco di Roma e dettero drammaticamente ragione a chi gli aveva obiettato la pericolosità della trivellazione. Poiché la trivella non procedeva sufficientemente veloce, fu sostituita con una più potente, che comunque fu stimato non avrebbe potuto raggiungere Alfredino prima di 12 ore circa. Mentre il bambino veniva rifocillato con acqua e zucchero attraverso una sonda, la zona della disgrazia intanto era diventata un punto di attrazione turistica, come purtroppo avremmo visto succedere molte volte negli anni a venire. Si calcolava che fossero presenti sull’orlo del pozzo (assolutamente privo di transenne) oltre agli addetti ai lavori circa 10.000 persone senz’altro da fare che assistere allo spettacolo. Insieme a loro, apparvero gli immancabili venditori di generi alimentari ambulanti, con tanto di furgone.
Angelo Licheri, lo speleologo che si calò nel pozzo
In mezzo a questa kermesse, e sempre in diretta TV, lo scavo proseguì per tutta la notte tra l’11 ed il 12. Dopo 24 ore di trivellazione, alle 8 della mattina seguente si calcolava che il tunnel parallelo scendesse fino ad una profondità di 25 metri, almeno 10 sopra il livello a cui era stato rilevato Alfredino nell’altro pozzo. Si decise di accelerare i lavori approfittando di uno strato di terreno più morbido, mentre i medici cominciavano a far presente che essendo il bimbo cardiopatico congenito, a 40 ore dalla caduta le sue condizioni presunte non permettevano di ipotizzare una sua resistenza molto prolungata. All’ora di pranzo, Pastorelli decise di far scavare il tunnel orizzontale, che si calcolava sarebbe sbucato un metro sopra la testa di Alfredino. Un vigile del fuoco si calò nel pozzo artificiale per scavarlo, e gli ci volle tutto il pomeriggio fino all’ora di cena.
Nel frattempo, era arrivato al pozzo il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che da lì in poi avrebbe seguito personalmente tutti gli eventi informandosi di ogni aspetto tecnico e stringendosi alla gente, che percepì quella sua presenza come uno dei momenti topici della sua presidenza.
Alle 19,00, il tunnel orizzontale sbucò nel pozzo artesiano a quota -35, solo per scoprire che i geologi avevano avuto ragione e che le vibrazioni avevano fatto scivolare Alfredino 30 metri più giù. Mentre la disperazione si impadroniva di tutti, addetti ai lavori, giornalisti e spettatori, Pastorelli tentò di nuovo la carta degli speleologi, che tornarono a calarsi a turno nel pozzo artesiano attraverso il nuovo tunnel per raggiungere Alfredino e tentare in qualche modo di imbracarlo per farlo tirare su. Un paio di loro, Angelo Licheri e Donato Caruso, riuscirono a raggiungerlo e a infilargli una specie di imbracatura, che scivolò via beffardamente al primo strattone. Date le condizioni precarie, non poterono ripetere il tentativo per non mettere a repentaglio la propria stessa incolumità. Il loro tentativo consumatosi tra le 4:00 e le 7:00 della notte tra il 12 ed il 13, mise fine di fatto alla tragedia. Angelo Licheri, sceso per primo, fu l’ultimo probabilmente a vedere vivo Alfredino, ormai allo stremo delle forze. Donato Caruso, quando risalì, aveva sul volto la disperazione non solo per il fallimento ma anche per dover comunicare ai genitori e a tutto il mondo che, per quanto aveva potuto constatare durante la sua permanenza nel pozzo, Alfredino ormai era apparentemente morto.
Franca Rampi, la madre di Alfredino
Alle ore 7:00 del 13 giugno 1981, l’Ingegner Pastorelli dichiarò ufficialmente chiusa l’operazione di soccorso e aprì quella di recupero della salma del piccolo Alfredo Rampi. Mentre il Presidente Pertini tentava di consolare i genitori Franca e Ferdinando, fu fatta venire sul posto una squadra di minatori da Gavorrano in provincia di Grosseto, che dovette lavorare per ben 28 giorni per estrarre il corpo dello sfortunato bambino dal pozzo maledetto. Il commiato dei minatori da Alfredino fu probabilmente uno degli ultimi contributi di umanità dato da una televisione che stava tutto d'un colpo diventando fin troppo moderna. Rimesse a posto le macchine, con gli occhi lucidi per una emozione difficilmente controllabile i minatori ripartirono rifiutando, allora e in seguito, qualsiasi intervista o partecipazione televisiva.
Toccò a Giancarlo Santalmassi, allora conduttore del TG2, sintetizzare con domande che dopo 30 anni non hanno avuto risposta esauriente ma che andrebbero riproposte adesso con eguale forza di fronte a certe “Vite in diretta” che la TV ci propina quotidianamente, lo stato d’animo di cittadini e operatori TV straziati dalla diretta appena conclusasi: “Volevamo vedere un fatto di vita, e abbiamo visto un fatto di morte. Ci siamo arresi, abbiamo continuato fino all'ultimo. Ci domanderemo a lungo prossimamente a cosa è servito tutto questo, che cosa abbiamo voluto dimenticare, che cosa ci dovremmo ricordare, che cosa dovremo amare, che cosa dobbiamo odiare. È stata la registrazione di una sconfitta, purtroppo: 60 ore di lotta invano per Alfredo Rampi.