domenica 17 luglio 2016

Misteri d'Oriente

Si chiama ucronia, ed è un arte proibita, proibitissima dalla storiografia ufficiale, a pena di scomunica. E’ l’arte di fare la storia con i se e con i ma. Quella cosa che – ci dicevano da piccoli – non si fa mai, mai, mai, perché è una gravissima infrazione del galateo storiografico. Un po’ come mettersi le dita nel naso o stare scomposti a tavola.
Eppure, a tirare in ballo quei benedetti se e ma spesso si compie un’operazione altrettanto utile, se non meritoria, di quella suggerita a suo tempo dalla buonanima del senatore Giulio Andreotti, con il suo pensar male.
Sarà tra l’altro che si parla di Oriente, o quantomeno della Porta dell’Oriente. E allora dai tempi delle Mille e una Notte sappiamo che tutto laggiù si sfuma nei contorni, avvolto da una nebbiolina magica che fa assumere a tutto la prospettiva e le sembianze di un miraggio.
Recep Tayyip Erdogan sopravvive ad un colpo di stato della durata di circa sei ore. Da operetta, verrebbe da definirlo, se non lasciasse comunque sul terreno il suo bravo cospicuo numero di morti. E se non si portasse dietro inevitabili conseguenze la cui portata è al momento difficile da stabilire, ma che sembra di poter prefigurare di non poco momento.
In attesa di informazioni e analisi più accurate, alcuni dati sono certi. Per quattr’ore il dittatore democratico della Turchia sparisce di circolazione, ripresentandosi all’aeroporto di Istanbul quando già le cose iniziano a volgere in suo favore, dopo alcune ore in cui il putsch militare sembra aver successo. Ora, in occasione dei colpi di stato, i leader da deporre non sono mai pronti e messi sull’avviso. O si fanno beccare e ci rimettono le penne subito, o se sono fortunati si asserragliano da qualche parte e reagiscono, insieme al popolo. Erdogan pare sia volato da qualche parte in attesa di tornare al momento opportuno. Che sembra tanto accuratamente preparato. Inverosimile.
Erdogan ha una lista pronta di personalità da epurare. Lasciando perdere i vertici dell’esercito a lui ostili, ovvi bersagli della rappresaglia, ci vanno di mezzo oltre 2.700 magistrati, con tanto di nome e cognome. Non sembra automatica e conseguenziale come reazione, a meno che lui non l’abbia premeditata, o addirittura fosse il suo obbiettivo primario. I magistrati applicano la legge, e fino a ieri la legge della Turchia era abbastanza laica. Più o meno quanto la nostra. Adesso, chi prenderà il posto dei 2.700 sicuramente non sarà inviso al capo del governo. E probabilmente applicherà una legge meno laica e più islamica di quella vigente finora. Se è vero che quel capo del governo ha già annunciato una riforma costituzionale, da attuarsi sotto il regime della legge marziale e della pena capitale appena instaurato. Verosimile.
Chi conosce la Turchia un minimo, sa che si tratta di un paese profondamente spaccato in due. Istanbul, Ankara e i centri abitati più grandi della costa egea da una parte, con il bisogno sempre crescente di occidentalizzazione e modernità avviato quasi cento anni fa da Mustafà Kemal Ataturk alla dissoluzione dell’Impero Ottomano. Dall’altra, il grande hinterland dell’Asia Minore, abitato da una popolazione ancora in gran parte contadina e osservante dell’Islam ortodosso, sempre più radicalizzato dalle vicende del Medio Oriente a due passi da lì.
Finora, la bilancia pendeva dalla parte delle città europeizzanti. La Turchia Europea è un fazzoletto disteso sul Bosforo, rispetto al grande entroterra asiatico che va dall’altra sponda dei Dardanelli all’Anatolia, alla Cappadocia, al confine con il lebensraum dello Stato Islamico. Eppure Istanbul con i 16 milioni di abitanti che ormai assomigliano alla popolazione di Zurigo e di Londra piuttosto che a qualsiasi altra dell’Oriente di cui sono la porta, ha tenuto in scacco non solo il fondamentalismo light di Erdogan ma anche e soprattutto quello hard del mare magno arabico musulmano che una volta costituiva il suo impero.
L'esercito blocca il ponte sul Bosforo a Istanbul
Questo sta cambiando proprio per effetto della continua e progressiva urbanizzazione di quelle masse contadine che vengono nelle città a cercare condizioni di vita migliore (una specie di miracolo all’italiana su scala assai più grande e dai tempi più lunghi di quello nostro degli anni sessanta), ma che si portano dietro però il Corano nella sua versione più intransigente, con le donne velate (finora non si distingueva una turca di Istanbul da una svizzera o da una tedesca, altrettanto belle e disinibite), con gli uomini che assomigliano sempre più a quel modello arabo che pur disprezzano, con la shari’a strisciante.
E’ un paese in bilico sulla lama di una scimitarra. Erdogan lo sa, e vuole forzare la bilancia a pendere dalla sua parte. Sa anche che se ha qualche nemico lo ha tra i ranghi dell’esercito non proprio ai massimi vertici (i nuovi Giovani Turchi) e nelle magistrature cittadine. In Turchia, l’esercito storicamente negli ultimi cento anni è laico, e interviene puntualmente quando si comincia a vedere troppo fondamentalismo, troppo Islam a giro per le strade di Ankara e Istanbul. Nessuno ha dimenticato qui il vecchio adagio di Ataturk: Se potessi, abolirei le religioni. Tutte.
Erdogan ha dimostrato di essere un politico abile, quanto spietato. Da undici anni, le elezioni in Turchia le vince lui. E questo vuole pur dire qualcosa. Incassa sconfitte come quella di due anni fa a Piazza Taksim, e puntualmente poco dopo si ripresenta al banco di gioco rilanciando. Mostrando di aver imparato da quelle sconfitte, né più né meno come quei vecchi sultani Ottomani che ebbero ragione della vecchia Costantinopoli prima, dopo un assedio plurisecolare, e poi di mezza Europa dopo, quando sembravano inarrestabili. Del resto, non si tiene testa a Putin e all’Unione Europea insieme se si è una mezza calzetta.
Fethullah Gulen
E allora, giochiamo a Ucronia. Un vecchio oppositore in esilio negli Stati Uniti, l’imam Fethullah Gulen, organizza o ispira un golpe contro l’attuale sultano. Verosimile. Il quale viene a saperlo, e non fa niente per fermarlo, anzi capisce al volo che è la sua tanto attesa occasione per quel giro di vite che sogna di dare, in Turchia e nel mondo islamico circostante. Verosimile. Lascia che le cose vadano avanti fino al punto da precipitare. Si eclissa per qualche ora Allah solo sa dove e intanto prepara le sue liste di proscrizione. Verosimile e probabile.
Al momento giusto, quando l’America si schiera de facto dalla sua parte, scatena la folla che risponde con una prontezza incredibile, manco fossimo a Boko Haram o nel cuore dello Stato Islamico. In un paio d’ore, still in charge come annuncia all’alba la B.B.C. (lasciamo perdere la R.A.I., sono a fare gli stessi discorsi da ciclostile, si tratti di Ankara, Nizza, Andria, Fermo o delle previsioni del tempo).
Esiste una corrente di pensiero complottista, secondo cui – da Pearl Harbor alle Torri Gemelle – è verosimile che un governo prepari un attentato contro se stesso. Questa non è ucronia. E’ sciocchezza, che neanche merita di essere rubricata come follia, perché sarebbe come darle un riconoscimento di livello superiore. Nessuno spara contro se stesso, sperando che la cartuccia sia a salve come gli hanno detto i suoi collaboratori. Verosimiglianza vorrebbe che i governi interessati vengano semmai a sapere di qualcosa che si prepara, e anziché stopparla la assecondano preparandosi a sfruttarla a proprio vantaggio. Se tutto va bene.
Così funzionano i Governi e i Servizi Segreti. Da Pearl Harbor alla Guerra Fredda alle Torri Gemelle a tutto quanto succede in Medio Oriente. Dove l’atmosfera da Mille e una Notte, tra l’altro, rende da sempre tutto più sfumato nei contorni, come un miraggio nel deserto.
Questo colpo di stato, se Erdogan non l’avesse subito, avrebbe sognato di subirlo e sconfiggerlo. Adesso la Turchia è alla sua mercé. Con la legge marziale può fare quello che vuole, e chi si oppone è un traditore della patria. Bingo.
Non solo. Obama commette l’ultima sciocchezza della sua sciagurata presidenza appoggiandolo. Pare di vederli gli analisti della C.I.A. a Langley. Appoggiamo Erdy, non possiamo permetterci una destabilizzazione del Medio e Vicino Oriente proprio adesso, nel fianco sud-est della NATO. Appoggiamolo, non è il primo boia che teniamo in sella, e poi è stato eletto dal popolo, basta invocare il rispetto della democrazia e Thomas Jefferson è soddisfatto anche stavolta.
Soldati lealisti a Piazza Taksim, Istanbul
Erdy ripaga Obama mettendolo in un angolo, chiedendogli una estradizione di Gulen che Obama non può concedere, perché lo manderebbe a morte atroce. Chiedendogli addirittura di ridiscutere la politica americana in Turchia, et eziandio anche la situazione delle basi NATO in Asia Minore. Dove, detto per inciso, pare che qualche ceffone tra militari lealisti turchi e militari USA sia già volato. E adesso, le relazioni tra Stati Uniti e Turchia sono a rischio (Reuters). Thanks, mister Obama, let’s hope never to see you again, by the will of God.
Sullo sfondo, Putin tace, ridendo sotto i suoi baffetti da tigre siberiana nel vedere i suoi competitors che si sbranano tra sé. Tace anche l’Europa, e se la sua voce è quella della Mogherini fa bene.

Abbiamo sempre considerato in epoca moderna il Bosforo come la Porta dell’Oriente. Esiste la possibilità, e non è un gioco di ucronia, che sia appena diventata la Porta dell’Occidente. Per un Islam radicale che forse sta di nuovo per spostare i suoi confini (e le sue macchine d’assedio) sotto le mura di Vienna.

venerdì 15 luglio 2016

Nice, quatorze juillet



La modalità dell’attacco terroristico di Nizza è una novità soltanto per gli sprovveduti. E’ una forma di stragismo comunemente usata nei paesi del Terzo Mondo, in Africa e Asia. In guerra non si inventa nulla, si riciclano sempre e comunque vecchie tattiche e si perfezionano armi già esistenti, in questo caso dai tempi dei carri falciati degli Ittiti.
Che siamo in guerra, penso non ci siano più dubbi, nemmeno per le anime belle del dialogo con le altre culture più o meno in buonafede. Per questo non intitolo questo pezzo CONTROCORRENTE. Spero che ormai la corrente sia una sola, o si avvii ad esserlo.
Non è più tempo di parole, ormai servono i fatti, e servono alla svelta. Queste poche le scrivo per sottolineare soltanto un paio di concetti basilari.
La guerra non piace a nessuno. Ma quando si ha di fronte un mostro come l’integralismo islamico (lasciamo perdere il termine Isis, che al pari dei termini Al Qaeda e Bin Laden non si sa e non si saprà mai che cosa hanno esattamente indicato, o semmai nascosto), prima o poi tocca farla. Dipende solo se si vuole farla quando siamo ancora in vantaggio noi, o aspettare che il vantaggio passi a loro.
Al momento sto scrivendo la storia delle Olimpiadi. Sono arrivato giusto al capitolo del 1936, i Giochi di Berlino, di Hitler, del Nazismo. In quei giorni, un mondo che voleva la pace ad ogni costo concesse a quel mostro di tutto e di più, facendosi alla fine rimontare ampiamente il vantaggio conseguito al termine della Prima Guerra Mondiale. Quando la Germania attaccò la Polonia e l’appeasement finì, la Wehrmacht era in condizioni di supremazia tali da poter fare dell’Europa un sol boccone in pochi mesi.
Stavolta è la stessa cosa. Abbiamo lasciato crescere un esercito di belve sanguinarie al nostro interno, nelle nostre città, andandoli addirittura a prendere a casa loro e consegnando loro le chiavi di queste nostre città. Wake up, Occidente, scriveva Oriana Fallaci all’inizio di questo processo. Svegliati. E non mi contrapporre a sproposito gli scritti di Tiziano Terzani (che parlava di altre – sacrosante – cose), ma datti una mossa a reagire. Si vis pacem para bellum, diceva Giulio Cesare. Finché sei in tempo, può aggiungere ognuno di noi purché in buonafede.
Dice, ma l’Islam non è tutto così. Neanche i tedeschi erano tutti nazisti. Ma la parte buona dell’Islam, come quella della Germania degli anni 30, non ci aiuta e quindi non ci serve. E non possiamo farci ammazzare perdendo tempo a distinguere tra islamico buono e islamico cattivo. Come a Minneapolis, il poliziotto che ti ferma deve essere certo se tu tiri fuori dalla giacca i documenti o una pistola. Le regole di ingaggio devono essere chiarissime.
Chi viene qui ad accettare la nostra cultura, il nostro stile di vita, i nostri valori in cambio di lavoro e vita dignitosa e sicura (per quanto possibile) è ben accetto. Gli altri no. Ed è ora di ributtarli in mare, o dove loro stessi preferiscono.
A Nizza in terra ci sono rimasti in più di 80. Parecchi erano bambini. Foto inguardabili, come quella famosa del piccolo Aylan, pace all’anima di queste creature. Questi infami ammazzano i nostri bambini e mandano i loro nei campi di addestramento alla guerriglia. Questi infami vanno fermati, con ogni mezzo.
Basta foto di bambini morti. Stamattina a Dio dobbiamo fargli parecchio schifo, dopo quest’ultimo carico appena mandatogli. Attenzione, che non ci darà molte altre occasioni. Il Diluvio è prossimo.

giovedì 14 luglio 2016

L'ultimo Padrino



Nell’iconografia ufficiale di Cosa Nostra, Totò u’ curtu e Binnu u’ tratturi erano complementari come le loro controparti avversarie statali, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il primo crudelmente estroverso, l’anima sanguinaria a caldo della mafia corleonese, il secondo calcolatore e introverso, egualmente sanguinario ma sempre a freddo, l’anima tutto sommato più pericolosa della cosca, perché capace di nascondere le sue attività nelle maglie di quelle dello Stato e della società civile, laddove il suo amico fraterno e sodale nel crimine le aveva rese clamorosamente e sfrontatamente visibili.
Bernardo Provenzano nel 1963 subito prima di cominciare la latitanza
I corleonesi. Salvatore Riina e Bernardo Provenzano erano venuti alla ribalta come luogotenenti di Luciano Liggio, il boss che per primo aveva cominciato a scalzare il potere ed a cambiare drasticamente il codice di regole della vecchia Mafia, facendone fuori in successione i capi storici, da Michele Navarra a Gaetano Badalamenti, a Tommaso Buscetta a Stefano Bontate, tutti eliminati o comunque messi fuori gioco con smisurata violenza ed efferata crudeltà nelle cosiddette guerre di mafia.
Luciano Liggio
Totò e Binnu erano diventati i numeri uno a partire da quel 1974 in cui Luciano Liggio fu catturato e affidato alle patrie galere. In un primo tempo come luogotenenti del boss che anche dalla prigione riusciva a commissionare loro omicidi e vendette e a mettere a punto strategie. Poi in prima persona, calcando ulteriormente il piede sull’acceleratore ed il dito sul grilletto.
Toccò dapprima all’estroverso. Totò u’ curtu divenne il Capo dei Capi quando fece crivellare di colpi Stefano Bontate e costrinse all’esilio Tommaso Buscetta. La vecchia mafia palermitana era sconfitta, la nuova corleonese si trovò faccia a faccia con lo Stato, e intese fargli guerra a viso aperto, com’era nel temperamento di Riina.
Dall’omicidio Dalla Chiesa a quelli di Falcone e Borsellino, fu un escalation accompagnata da un immane bagno di sangue che raggiunse il culmine nel momento in cui, con il crollo della Prima Repubblica, i corleonesi credettero di poter vincere la partita costringendo il debole Stato alla resa. Il 23 maggio 1992, mentre Giovanni Brusca premeva il pulsante dell’innesco del primo dei due attentatuni, Totò Riina sembrò avere effettivamente vinto.
Totò Riina
Ma uno Stato, anche uno Stato disastrato e corrotto come quello italiano, non può arrendersi. E una cosca di mafiosi come quella dei corleonesi può prosperare, ma non può mai vincere. Non come immaginava Riina. Comunque sia andata, quanta parte di trattativa e quanta di scontro effettivo abbia avuto luogo tra gli uomini dello Stato e quelli della Mafia che sentivano il bisogno di prendere le distanze dallo stragismo sanguinario del Capo dei Capi, gli uomini del ROS del Colonnello Mori e del Capitano Ultimo gli strinsero il cappio attorno ed il 15 gennaio 1993 lo mandarono a raggiungere il suo vecchio boss sotto il regime di 41bis. Per poco tempo, perché Liggio se lo portò via un infarto a Bad’e Carros.
Strage di Capaci
Uscito di scena il Capo dei Capi, da quel momento cominciò il regno dell’ultimo Padrino. Bernardo Provenzano deteneva il record di latitanza, quando fu arrestato finalmente l’11 aprile 2006. 43 anni. L’ultima volta era stato avvistato a Corleone nel 1963, in occasione di un arresto come sospettato di omicidio ed associazione a delinquere. Fuggito, era riuscito a far perdere le sue tracce pur non muovendosi mai dalla nativa Corleone. Soltanto una volta, pochi anni prima dell’arresto si era recato in Francia sotto falso nome per una operazione alla prostata. Poi, aveva governato sempre l’impero mafioso dai suoi nascondigli corleonesi e con i celebri pizzini, foglietti di carta di cui non rimaneva traccia, dopo che le sue disposizioni erano state eseguite.
Fedele alla sua anima all’opposto di quella di Riina, calcolatore dove l’altro era stato irruento, Provenzano riportò la Mafia dove in fondo era sempre stata prima dei corleonesi. Al di fuori dei riflettori e  delle cronache. Basta sangue, basta attentati, basta pentiti, basta scontro frontale con uno Stato che almeno a livelli di decenza si stava riorganizzando. Cosa Nostra, secondo lo schema mirabilmente descritto dal Padrino di Mario Puzo e Francis Ford Coppola, era interessata a riciclarsi e ripulirsi passando ad attività alla luce del sole. A giocare in borsa, a fare affari, a muovere grandi capitali e non più commandos e gruppi di fuoco.
Strage di Via D'Amelio
Sotto la guida del viddranu, del vecchio contadino Provenzano, ce la fece. Fino al punto di non aver più bisogno di lui. Dicono che i nuovi boss, come quel Matteo Messina Denaro che figura attualmente in testa alla lista dei ricercati, assomigliano più a broker e operatori di borsa che ai due ex contadini che misero a ferro e fuoco prima il corleonese e poi l’Italia a partire dall’immediato dopoguerra. Per questa gente, per questa Cupola in versione moderna, Provenzano forse era diventato ingombrante quanto e più di Riina.
U’ tratturi, chiamato così perché eliminava implacabilmente i nemici con freddezza ma con efficienza non inferiore a quella dello stragista Riina, fu preso il giorno delle elezioni politiche, l’11 aprile 2006. La data sembrò troppo una coincidenza per essere una vera coincidenza. L’Ulivo di Romano Prodi forse beneficiò di quella buona notizia nel riportare una vittoria elettorale quasi di misura. Ciò che è certo è che l’uomo che aveva tenuto in scacco lo Stato italiano per 43 anni si lasciò catturare senza opporre resistenza, seguendo docilmente gli agenti.
Provenzano il giorno dell'arresto, 11 aprile 2006
Abbiamo tutti in mente il suo sguardo sornione ed il suo sorriso beffardo, a mezza bocca, mentre esce dal covo dove è stato catturato. Come di chi lascia che i nemici si godano il successo e le luci della ribalta, perché tanto sa in sostanza di aver vinto lui, sempre e comunque. Di aver lasciato la Mafia forse più forte di quando l’ha presa. Di aver fatto tutto quello che voleva e doveva fare, lui, l’ultimo Padrino.
Forse ha ragione chi dice – con sintesi indubbiamente poco lusinghiera per la nozione di Giustizia e di Stato che conserviamo tutti nella nostra coscienza – che in Sicilia un Capo dei Capi viene catturato solo quando Cosa Nostra non ha più bisogno di lui. E ce n’è un altro pronto a prendere il suo posto. Forse, trattandosi di Mafia, siamo destinati come diceva Falcone a vederla un giorno sconfitta o dissolta come tutte le organizzazioni umane, ma mai a conoscere veramente le verità che la riguardano.
Bernardo Provenzano è stato l’ultimo Padrino. Almeno rispetto ai parametri di ciò che siamo stati abituati a considerare un Padrino. E’ stato Cosa Nostra e Corleone quanto e più dei vecchi boss, di Liggio, di Riina. Ha incarnato la Mafia come ce l’hanno sempre descritta e come ce la aspettiamo.
Gli ultimi tempi la malattia l’aveva ridotto a un povero vecchio in fin di vita come tanti. Come tanti, che non hanno la sua storia alle spalle, per lui famiglia e avvocati avevano chiesto l’attenuazione del 41bis, lamentando poi dopo la sua scomparsa di non avergli nemmeno potuto tributare un ultimo saluto, un’ultima carezza.
Alle sue vittime e alle loro famiglie, né lui né nessun altro dei suoi vecchi compagni corleonesi l’hanno mai concesso. E’ oggettivamente difficile combattere la Mafia essendo lo Stato. Usando legalità e umanità contro le lupare.
L’ultimo Padrino si è finalmente presentato al processo più maxi che ci possa essere. Lassù, il 41bis, se applicato, dura per l’eternità.

lunedì 11 luglio 2016

Cahiers de Paris: Sugli Champs Elyseés con le note del Fado



Estadio da Luz di Lisbona, 4 luglio 2004. L’ultima foto, quella che rimane più impressa non è quella dei greci che fanno festa, ma quella di un ragazzo vestito di rosso e verde, seduto – o per meglio dire – accasciato sull’erba del campo di gioco, che piange disperato con la testa tra le mani.
Si chiama Cristiano Ronaldo, è una giovane promessa del calcio europeo e mondiale. L’ultimo arrivato in una squadra piena zeppa di talenti, che ha appena visto sfumare il sogno di alzare quella coppa per vincere la quale sembrava in quel momento la più forte.
L'intervento killer di Dimitri Payet su Cristiano Ronaldo
Estade de France, Saint Denis, Parigi, 10 luglio 2016. Piange ancora quel ragazzo nel frattempo diventato uomo e acclamato miglior giocatore del mondo. Ma stavolta di rabbia e di dolore. Il killer Dimitri Payet è entrato sul suo ginocchio a far male. A stroncare. Lui ha provato a restare in campo stringendo i denti, con una gamba sola, in quella partita che attende da tutta una vita e che vale più di tutto ciò che ha vinto finora. Ma non ce la fa, e deve lasciare il posto a Quaresma.
Luglio sembra il mese maledetto per l’uomo che ormai tutto il mondo conosce come CR7, e per il suo Portogallo che ha scritto spesso la storia del calcio ma mai fino in fondo. I Lusitani non hanno mai avuto la gioia di alzare un trofeo, né con il grande Eusebio, né con Figo e Rui Costa, né con lui. Tre generazioni di fenomeni intristite come nemmeno le sublimi melodie del Fado riescono a fare.
Ci sono storie sportive a lieto fine. A volte gli dei si commuovono, dopo tanta sofferenza. L’Italia non batteva la Spagna da 22 anni. La Germania non batteva l’Italia dal 9 d.C. (autogol di Varo), la Francia non batteva la Germania dal 1958, dai tempi di Just Fontaine e Raymond Kopa, la Repubblica Francese era ancora la Quarta. Entrando a Saint Denis, la numerosissima colonia portoghese coltivava speranze di colmare l’ultima lacuna, i rossoverdi non battono i bleus da ventidue incontri, nel 2000 e nel 2006 furono eliminati in semifinale da altrettanti rigori trasformati da Zinedine Zidane, e la squadra migliore in entrambi i casi era la loro.
Stavolta non c’è un migliore. Non di sicuro la Francia, che ha riscosso simpatie contro la Germania (bella forza) e che può spendere sempre l’immenso capitale emotivo rappresentato da quella Marsigliese che prima dell’inizio di un match ci fa sempre sentire tutti un po’ francesi. Ma la pessima organizzazione di questo Euro 2016 e la chiarissima intenzione manifestata fin da subito di voler sfruttare il fattore campo al di là dei propri (pochissimi) meriti, hanno alienato tutte queste simpatie.
L’Europa si scopre a tifare Portogallo. Questa nazione ai suoi confini, abitata da uno dei popoli più passionali del pianeta, pare fatta apposta per riscuotere simili consensi, sempre e comunque. C’è un credito storico poi da risarcire. Stavolta la Grecia è il Portogallo. E quando alla fine segna Eder, tutta l’Europa, dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno, salta sul divano e baila la portuguesa.
Sono tanti i portoghesi qui a Parigi. E’ la seconda città per numero di abitanti lusitani dopo Lisbona. Cominciarono ad arrivare nella capitale francese ai tempi della dittatura di Salazar, e vi si riversarono in massa quando questa finì, il 25 aprile 1974, la rivoluzione dei garofani. Chiunque vinca questa finale, sugli Champs Elysées stanotte sarà gran festa.
Il quoziente simpatia dei francesi scende a zero subito dopo il fischio d’inizio, allorché appare evidente che le direttive di Didier Deschamps sono state quelle del vecchio o palla o gamba, con la variante – rispetto ai nostri maestri catenacciari che tutto sommato erano persone dotate di maggior bonomia – del meglio se gamba.
Cristiano Ronaldo esce in barella
Le gambe di Cristiano Ronaldo resistono una prima volta ad un intervento da brividi. L’arbitro inglese Mark Clattenburg – quello di Italia – Belgio e della recente finale di Champion’s League vinta dal Real sull’Atletico Madrid – arbitra appunto all’inglese, ma un po’ troppo. Quando comincia ad estrarre i cartellini gialli, e comunque per ammonire i portoghesi, CR7 è già fuori da un po’. Esce in barella tra la costernazione non soltanto lusitana, dopo che Payet gli entra a freddo su una rotula. Cristiano non fa in tempo a cadere che dall’altra parte Evra completa l’opera assestandogli un mezzo colpo di grazia.
Sembra di assistere ad una replica del film Quella sporca ultima meta. L’impassibile Clattenburg si limita a prendere nota del tempo occorso a soccorrere il fuoriclasse portoghese, segnalando che quel tempo sarà recuperato. A metà della prima frazione, Ronaldo si toglie la fascia di capitano sbattendola a terra con rabbia, e acconsente ad uscire dalla sua finale.
Senza più colui che è sembrato francamente l’unico giocatore di calcio all’altezza del tempo che fu, se non addirittura degno di questo nome in assoluto, ci si dispone a seguire una partitaccia di rollerball che più che una finale sembra un certificato di decesso per il gioco più bello del mondo.
Al di là del clima casalingo che pare aleggiare attorno a questa Francia, va fatto un discorso sulla qualità degli atleti in campo. I muscolari giocatori di colore che i transalpini schierano ormai in stragrande maggioranza (potendoli annoverare tra i propri cittadini) sembrano francamente più adatti ad una esibizione di football americano che ad un gioco che faceva dell’eleganza una delle sue caratteristiche principali ed essenziali. E per di più sono anche pericolosi negli atteggiamenti e nella gestualità, parimenti irruenti. Se per qualcuno questo è un discorso razzista, la pace sia con lui. Il calcio con interpreti come questi Umtiti, Matuidi, Sagna e compagnia bella, se non è morto ha poco a morire.
Oddio, anche il bianco Griezmann non è che si danni l’anima per nobilitare la propria partecipazione a questo campionato. Si aggira per il campo con lo sguardo di uno di quei ragazzotti troppo cresciuti che nelle parrocchie di una volta venivano aggregati ai più piccoli per una questione di quoziente d’intelligenza, e che risultavano anche tra loro sgraziatamente fuori posto. Di Pogba meglio non parlare. Se c’è qualcuno disposto a pagare 120 milioni di euro, la Juventus fa bene a portarglielo subito.
Insomma, il piccolo Portogallo cresce nella simpatia degli spettatori insieme al proprio coraggio. L’infortunio del suo uomo migliore lo ricompatta. Stasera la Linea Maginot la tirano su i portoghesi, ed è una linea che non si passa. Quando qualcuno dei bleus sporadicamente trova il varco per tirare, ci pensa un superlativo Rui Patricio a mantenere intatta la propria porta.
Eder lascia partire il tiro decisivo al 109° minuto
Nella ripresa, quella convinzione di sé che cresce nei rossoverdi viene a mancare progressivamente nei francesi. Le cui giocate a testa bassa focalizzate soprattutto su un Sissoko ad Alta Velocità vanno ad infrangersi sistematicamente sulla Maginot lusitana. Deschamps toglie Payet, che a parte tentare di assassinare CR7 non ha fatto nient’altro. Coman che entra al suo posto peraltro fa poco di più. Dall’altra parte, il cambio giusto lo indovina Fernando Santos, che toglie un evanescente Sanches per Eder. Che peraltro non è parente del nostro.
Ai supplementari, succedono diverse cose. Il Portogallo è diventato un commando che entra nella metà campo francese con piglio sempre più minaccioso e dà la sensazione di poter diventare letale. La Francia non sa più che pesci pigliare e dà la sensazione di avere in campo ormai soltanto scarti buoni per il cacciucco. Sulla panchina portoghese intanto, ha luogo un curioso avvicendamento. CR7 ha smesso di piangere per il dolore, si è alzato in piedi e si è messo a camminare su e giù per l’area tecnica con la sua vistosa fasciatura. Man mano che i minuti passano, i suoi compagni di squadra è a lui che prendono a fare riferimento piuttosto che al tecnico Santos. Anche fuori gara e menomato, Cristiano conferma il suo carisma di leader.
La gioia di Eder e di Cristiano Ronaldo
Quando al ‘108 Guerrero va a calciare una punizione dal limite per fallo di mano di Koscielny (che pare più un fallo di Eder, ma la sorte confonde giustamente le idee al pessimo Clattenburg), è Ronaldo a dirgli come e dove calciarla, e per poco il piccolo Guerrero non sorprende Lloris.
Quando un minuto dopo Eder lascia partire il tiro della sua vita e fulmina la Francia, è lui più che Santos a richiamare subito i compagni a porre termine ai festeggiamenti e a disporsi alle barricate degli ultimi dieci drammatici minuti.
Quando al ‘116 Guerrero resta a terra dopo un salvataggio alla disperata, è ancora lui a rimetterlo in piedi e a rispedirlo in campo a stringere quei denti che lui non può più stringere per gli ultimi tre minuti più due di recupero. Quando finalmente Clattenburg fischia la sospirata fine, è lui a partire a corsa alla testa dei compagni per andare ad abbracciare quelli sul campo.
la gioia portoghese al fischio finale
E’ lui, giustamente, ad alzare nella notte di Parigi quella Coppa Delaunay che sognava da quell’altra notte di Lisbona, quando l’aveva vista andare via in mani greche e si era accasciato disperato sull’erba. E’ lui che probabilmente vince definitivamente il confronto a distanza con Leo Messi per il titolo di miglior giocatore del mondo. Di sicuro si guadagna il rispetto del mondo per quel gesto compiuto alla vigilia di invitare la moglie di Stefano Borgonovo, Chantal, ad assistere alla finale promettendole inoltre il sostegno alla sua Fondazione contro la Sla. Un gran giocatore ed un grand’uomo, a cui questa notte arriva meritatamente quella che lui stesso definisce la più grande soddisfazione della sua vita.
Chissà come sorride Eusebio da Silva Ferreira lassù su quella nuvola da cui ha assistito al trionfo dei suoi nipotini. Sorridono in tribuna Manuel Rui Costa e Luis Figo, che c’erano a Rotterdam ed a Lisbona nei precedenti assalti a questa coppa che finora era stata per loro maledetta.
Sorridiamo tutti, perché nella notte di Parigi che lentamente si stende su tutto il continente europeo ci scopriamo tutti portoghesi.
Diceva Amalia Rodrigues: "Non sono io che canto il fado, è il fado che canta in me".

CR7 alza la Coppa Henri Delaunay

venerdì 8 luglio 2016

Prove tecniche di guerra civile



Tentare di far ragionare un popolo che ormai ha perso – volontariamente o involontariamente, consapevolmente o in consapevolmente – tutti gli strumenti per una critica della ragione pura, gli assi cartesiani della propria coscienza nazionale e sociale, è una impresa disperata. La si fa a proprio rischio e pericolo, tra l’altro. Ma va fatta.
Emmanuel Chidi Namdi e la sua compagna Chinyery
Premessa. Morire a Fermo dopo essere sfuggiti a Boko Haram è una beffa del destino, prima ancora che una tragedia assurda. Un’altra tragedia, comunque, consegue sempre al parlare e schierarsi prima di avere appreso e compreso i fatti. Come si sono svolti, non come ci piace pensare che si siano svolti. Nei giorni della sentenza sul caso Bossetti, la sindrome di Girolimoni è sempre in agguato, sia che la pancia italiana si riempia di brandelli di Corriere della Sera o di Novella Tremila.
Altra premessa. E’ certo, è ovvio che l’omicidio di Emmanuel Chidi Namdi da parte di Amedeo Mancini ha connotazioni razziste. Direi che possiamo escludere senz’altro motivazioni calcistiche, di corna o di estorsione. Se uno ti dà della scimmia nera, supporre intenti razzisti è lapalissiano. Non c’è bisogno della grancassa mediatica del partito democratico né di una perizia condotta da quotati criminologi per acclarare questo connotato. Passare una intera giornata come hanno fatto ieri quasi tutti i mezzi – chiamiamoli così – di informazione a porsi, e porci, l’atroce dilemma non è, appunto, fare informazione. E’ rendere un servizio alla disinformazione. Che poi è proprio ciò di cui ha bisogno quel partito democratico che al momento governa. O sgoverna, che dir si voglia.
Sui fatti di Fermo farà luce, a Dio piacendo e magari per una volta nella vita, l’autorità inquirente. Su quello che ne segue o vi ruota intorno può tentare di fare luce chiunque di noi. Applicando magari le ultime briciole di tecnica di ragionamento che ci sopravvivono dai tempi di Kant, Cartesio e altri i cui nomi e le cui referenze sui media non si trovano citati.
L'arresto di Amedeo Mancini
A pensar male, diceva Andreotti…… uno che di pensieri maligni a suo tempo ne ha alimentati parecchi, a torto o a ragione. Sarà un caso, ma in questo paese quando un governo va in crisi, va sotto, rischia quello che sta rischiando il governo delle larghe intese messoci in testa dagli ultimi due presidenti della repubblica (che poi è diventato un governo PD a collo torto, più Alfano, più Verdini, una splendida intesa), puntualmente succede qualcosa di tragico che ricompatta il paese attorno ai buoni sentimenti.
Il prototipo di questo modus operandi fu brevettato ai tempi del delitto Moro. Mutatis mutandis e fatte le debite proporzioni, nella seconda repubblica e seguenti il giochino – se di giochino si può parlare – viene ripetuto ad ogni pié sospinto al manifestarsi di grandi e piccole difficoltà governative.
Nel 2011 ci voleva una delle crisi economiche più assurde e fittizie della storia d’Europa perché l’Europa stessa ci chiedesse di privarci di un governo democraticamente e liberamente eletto sostituendolo con un altro presieduto e composto da personaggi usciti dal più fosco episodio della Saga di Harry Potter e con nessun’altro fondamento legale che il volere di un anziano signore che al pari del vecchio re d’Italia non avevamo e non abbiamo strumenti per detronizzare, in casi come questo.
Nel 2013, il traballante governo Letta uscito da elezioni che nessuno aveva vinto ma che PD e PDL si misero d’accordo per far perdere ai Cinque Stelle,  fu accompagnato al voto a Montecitorio dagli spari che il folle Preiti indirizzò verso due poveracci di agenti delle forze dell’ordine (si badi bene, non due parlamentari, di cui la piazza era piena appressandosi il voto alla Camera, ma due semplici agenti). Qualcuno ne ha saputo più niente? Né di lui né delle sue vittime?
Anno domini 2016. Matteo Renzi si è mangiato tutto il consenso che a torto o a ragione  gli era stato destinato due anni fa, addirittura creando all’interno del suo partito qualcosa che non era mai esistito: una minoranza ufficiale e apertamente in dissenso. Perde le elezioni amministrative con un margine storico negativo per ritrovare il quale bisogna forse risalire al 1919, e le perde addirittura in più comuni – a suo dire – di quelli che risultano presenti sul territorio italiano, se non abbiamo studiato male geografia.
O con me o contro di me, dice l’ex ragazzo di Rignano, e trasforma il referendum costituzionale del prossimo ottobre in un plebiscito contro se stesso ed il proprio regime. Sembra Honecker negli ultimi giorni della D.D.R., nel 1989. Lo stesso PD sembra il PCUS sovietico negli ultimi tempi di Gorbaciov, vorrebbe tanto liberarsi del leader ma non sa a che santo votarsi, perché le vecchie alternative sono inguardabili. Nel frattempo, è chiaro che se si vota, il PD sparisce.
Serve qualcosa. Serve – di qui a ottobre – o l’attentatuni o comunque la disgrazia che ricompatti il paese. La Brexit è stata un fuoco di paglia, l’Inghilterra si è già ripresa e ha mostrato a tutti che fuori dall’Europa la vita continua, c’è ossigeno e vita animale e vegetale. Tocca fare la direzione PD, e prendersi gli annunciati schiaffoni. Il NO alla riforma costituzionale passa in vantaggio, perfino per i sondaggisti di regime, come quelli dei telegiornali delle 20,00.
Bossetti è andato in galera a vita, il rotocalco giudiziario è finito. Il colpevole di cui non è stata provata la colpevolezza va incontro al suo destino, e comunque la gente si è già stufata. L’Italia nel frattempo è fuori dagli Europei di calcio. Serve qualcos’altro. La strage di Dacca potrebbe fare al caso, ma se da un lato tocca le corde emotive giuste, dall’altro va a toccare equilibri di politica internazionale che il PD delle cooperative ONLUS e della ricerca spasmodica di una futura base elettorale alternativa non si può permettere di toccare. E poi, diciamoci la verità, Sergio Mattarella è improbabile come testimonial della lotta al terrorismo, non ha il phisique du role, non ha il carisma, e chissà se ha il background, malgrado le sviolinate che gli pervengono dai soliti mezzi di stampa pronti a creare eroi dove non ve ne sono.
E allora? A Fermo un bianco e un nero se le danno. C’è di mezzo il disagio sociale consapevolmente alimentato in questi anni da una sinistra di sgoverno tra le più irresponsabili della storia. C’è di mezzo la storia personale dei due rissaioli, che questo e nient’altro erano prima che la loro vicenda finisse nelle mani dei media. C’è di mezzo anche il razzismo, sì, cari signori. Non viviamo in un mondo perfetto, e abbiamo preteso di andare a toccare con faciloneria equilibri psico-sociali delicatissimi.
Ricordo un amico americano in visita, che quarant’anni fa circa mi diceva, a proposito della questione nera e del razzismo (erano i tempi di ClayAlì che lottava per riavere la corona dei massimi toltagli per il Vietnam, di Rubin Carter Hurricane in galera per un delitto che non aveva commesso e che avrebbe potuto diventare il campione del mondo, come cantava Bob Dylan): «voi non avete idea, non la potete avere e non l’avrete mai finché non toccherà anche a voi confrontarvi con i rapporti tra le razze».
Proteste della popolazione di colore a Minneapolis contro la polizia
Adesso ci siamo. E francamente gli indignados del partito democratico che da ieri battono sulla grancassa del razzismo, dando dell’assassino non solo a Mancini (che lo è) ma anche a tutta quella parte civile e politica che non la pesa come loro, gettano più benzina sul fuoco dell’odio razziale di coloro che intenderebbero stigmatizzare. Ad esempio quella Lega Nord, che a loro dire è un partito che incita normalmente a sparare o malmenare le persone di colore,  e che invece cerca soltanto di richiamare l’attenzione di una opinione pubblica emotivamente infantile e sempre più disattenta su un problema, quello dell’immigrazione, che sta travolgendo il nostro paese. Tra poco senza più possibilità di ritorno.
Nelle stesse ore, a proposito di America, giunge la notizia che nel Minnesota la polizia durante un controllo stradale ha fatto due vittime, due persone di colore. Gli indignados di sinistra, il cui antiamericanismo affonda da sempre le radici nel post-fascismo ed è sempre pronto a rianimarsi, per una volta tacciono, troppo presi come sono dall’indignarsi per Fermo, e per tutti i boia che a loro dire hanno armato la mano di Mancini.
Il Minnesota è uno degli stati più a nord dei cinquanta dell’Unione. E’ quasi Canada. Minneapolis non è la Louisiana, non si può invocare il famigerato razzismo sudista. La realtà è che di tutti i mestieri quello che non vorremmo fare è il poliziotto in una qualunque città americana, tutte allo stesso modo ormai socialmente degenerate. Chi si infila la mano in tasca, non sai mai se é per tirarti fuori il portafoglio o la pistola. Se va in crisi la polizia, va in crisi l’ordine pubblico, va in crisi la società, lo stato di diritto, la convivenza, tutto quanto.
Ci stiamo arrivando anche noi. Fermo ormai è Minneapolis, e poco importa – con tutto il dovuto cordoglio per la vita stroncata di Emmanuel Chidi Namdi – come sia andata, da questo punto di vista. Ci siamo arrivati. Il partito democratico ha avuto il suo morto da gettare sul tavolo dell’indignazione, e ne farà l’uso che l’establishment italiano fa sempre in questi casi di queste vittime. L’immigrazione continuerà selvaggia, e a costi economici e sociali altissimi. Guai a chi ne discute ragioni e metodi. Al parti della Lega Nord, sarà rubricato come fascista, razzista ed assassino.
Il governo Renzi continuerà. Basta guardare la faccia di Bersani riempire lo schermo televisivo per capire che non ha alternative, anche se non ha più base di consenso. Ma siccome se si vota a ottobre rischia di sparire, e con lui tutto il PD, per ottobre bisogna inventarsi qualcosa. Un povero morto a Fermo forse non basta a riempire l’estate.
L’attentatuni?

giovedì 7 luglio 2016

La mattina andavamo in Via Laura



Cerco di ripensare il meno possibile agli anni del Liceo e dell’Università. La nostalgia e la malinconia sono brutte bestie, possono sbranarti. Gli anni della nostra vita che ormai sono dietro le spalle, se i migliori o i peggiori non lo so. So solo che quella vita non c’è più. Quella città non c’è più. Vorrei essere invecchiato assieme a lei. Io sono invecchiato. Firenze invece è morta.
Avevo fatto il Liceo in Via Martelli, al Galileo. L’Università la feci alla Cesare Alfieri, Scienze Politiche, che allora era in Via Laura. Al piano di sopra c’era Legge, pardon, Giurisprudenza. Metà dei miei vecchi amici di scuola era disseminata in quel palazzo. La Monica era una di questi. Soltanto una di questi, purtroppo, perché ero giovane e timido.
La mattina andavo in Via Laura, che ci fosse lezione o no. Ero privilegiato, nato e cresciuto a Firenze, studiavo nella mia città. La maggior parte dei miei amici e compagni prediletti negli anni universitari finì per essere gente che veniva da fuori.
Io prendevo l’autobus, montavo sul 6, e lì cominciava l’avventura. Che ci fosse lezione o no, la méta era il Centro, Via Laura, Piazza SS. Annunziata, Via Gino Capponi al baretto all’angolo. Oppure, nei primi tempi, al mitico Bar Lux di Via Martelli, che aveva fatto da base a tutta la nostra adolescenza, formalmente trascorsa nei locali dell’antistante Liceo Classico Galileo. Di fatto trascorsa ospiti di Mario e Franco del Lux.
Se non c’era lezione, c’era da studiare, o almeno da far finta. In Via Zannetti, da Federico (che poi trovò di meglio da fare, e non sapremo mai chi ha fatto bene e chi ha fatto male, se io a continuare o lui a darci un taglio, ma è giusto così) e da sua Nonna Roma (si chiamava così, come uno dei grandi personaggi della commedia all’italiana), che m’aspettava sempre con lo sguardo interrogativo e l’accento romanesco: “ ‘a fijo, che lo damo st’esame o nun lo damo?”. Sotto c’era Nannucci Radio, che vendeva dischi. Intorno, il mondo. Tante sollecitazioni per dei ragazzi che si affacciavano ad una vita che volevano viversi tutta, appieno. Colazione da Scudieri in Piazza del Duomo, per cominciare. Vai a studiare, dopo, se ti riesce.
Oppure in Via Nuova de’ Caccini. Il prim’anno ci stava la Silvia, quella che poi ha fatto carriera come manager nella Fiorentina. E che allora per dare l’esame di Economia Politica dovette raccomandarsi alla Beata Vergine del Sacro Cuore, nonché al sottoscritto (a cui era andata bene, passato al primo tentativo, mancava il titolare, il mitico, squilibratissimo Nardozzi, con l’assistente me la giocai alla grande). L’altro futuro manager viola, Sandro, era ad Economia e Commercio. Fratelli separati, almeno di mattina. La sera era un’altra storia. La movida fiorentina.
Al second’anno conobbi Gino, e di lì si proseguì insieme. Non ho mai capito se da quel momento non si fece più una mazza, oppure al contrario si proseguì in tromba verso una laurea in pieno corso su cui non avrebbe scommesso nessuno, in primis noi medesimi. Ricordo le prime lezioni, Storia delle Dottrine Politiche, prof. Antonio Zanfarino. Il primo giorno sul significato di Storia, il secondo su Dottrine, il terzo su Politiche. Ci risparmiò il delle. All’uscita dall’Aula Magna, il leggendario Alfio, custode di tutti noi nei secoli dei secoli, ci rincuorava: “ragazzi, venite qua, ci sono le dispense…..tutto scritto qui, per l’esame”.
Statistica lo levai dal piano di studi dopo mezz’ora di lezione. Politica Economica me lo fece togliere la Silvia, per motivi altrettanto “di pelle”. Non era cosa per noi. Aveva ragione lei. Saremmo stati ancora lì a cercare di darlo.
Al second’anno, il Johnny Depp de noantri, Leonardo Morlino, tenne il più bel corso di Scienza della Politica a memoria d’uomo. Le femmine erano estasiate per motivi carnali, noi maschietti pendevamo dalle labbra del professore che ci spiegò come si passa Dalla Democrazia all’Autoritarismo, la Guerra Civile Spagnola in slow motion. Momenti di grande fosforo. Il titolare, Alberto Spreafico, sospetto tutt’ora che fosse uomo addentro ai Servizi (non quelli igienici, facciamo a capirsi). Si faceva vedere poco, era spesso a Washington, dice.
Al terz’anno, folgorati sulla Via di Damasco, da Giorgio Spini ed Ennio Di Nolfo. Come a dire il meglio che può toccare ad una giovane mente per ricevere una istruzione superiore. Erasmo da Rotterdam e Tommaso Moro. Un anno passato velocemente, anche se detti nove esami e non uscii di casa quasi mai. Ma come aveva detto Churchill, quella fu per me l’ora più grande. O almeno, la vissi così.
Spini non c’è più, Di Nolfo lo trovate su Twitter. Allora mi incuteva un certo timore reverenziale. Adesso è un gentilissimo signore che vi risponde con cortesia, ricordando insieme a voi anni per i quali evidentemente conserva una certa nostalgia anch’egli.
Formidabili quegli anni.

To be continued

mercoledì 6 luglio 2016

Cahiers de Paris: Il sogno dei Celti



Possiamo essere come la Grecia e la Danimarca”. Gareth Bale, attaccante fuoriclasse del Galles e del Real Madrid, ha visto l’opportunità storica per sé e per il suo paese e come tutti i fuoriclasse veri vuole coglierla. I precedenti ci sono.
Gareth Bale
Nel 1992 il campionato d’Europa fu oggetto di una scorreria vichinga in piena regola. La Danimarca non doveva nemmeno partecipare, fu ripescata per il venir meno della Jugoslavia. Arrivò in finale con un ritmo travolgente e vinse strapazzando la Germania campione del mondo in carica. Corsi e ricorsi?
Dodici anni dopo, nel 2004 il miglior Portogallo di sempre giocava in casa la propria chance storica. Ma sulla sua strada trovò un pugno di Argonauti greci, che lo batterono sia nel match di apertura che in quello di chiusura del torneo.
Stasera il Galles vorrebbe ripetere l’impresa dei Vichinghi e degli Argonauti. Sulla sua strada ha proprio quel Portogallo che con la storia si sente in credito da dodici anni a questa parte, o forse addirittura dai tempi di Eusebio. Poi, se le cose andassero bene, in finale troverebbe la Francia padrona di casa o la Germania campione del mondo.
Corsi, ricorsi, coincidenze e cabale sono dati che hanno senso soltanto dopo. Prima, servono per ingannare il tempo e divertirsi al gioco dei pronostici, forse addirittura più affascinante delle partite stesse, che in questo come in altri tornei spesso riservano – tecnicamente parlando – delle cocenti delusioni.
E però…. È singolare che stasera la prima semifinale di Euro 2016 si giochi tra due squadre che aspirano a far saltare di nuovo il banco delle scommesse, a distanza di dodici anni, e dotate tra l’altro di prim’attori che parimenti aspirano a lasciare un segno di sé nell’albo d’oro del calcio. I palloni d’oro vanno e vengono, le coppe restano.
Cristiano Ronaldo
Di Gareth Bale abbiamo detto. Dall’altra parte della tenzone c’è Cristiano Ronaldo, uno dei migliori giocatori del mondo da quando si affacciò alla ribalta. Qualcuno dice - soprattutto alla luce della congiuntura difficile del suo rivale Leo Messi -, il migliore in assoluto.
Dopo il sogno dei Vichinghi e quello degli Argonauti, vedremo avverarsi dunque quello dei Celti? Perché una cosa è sicura. Stasera i Celti vanno comunque in finale e toccherà a loro rinnovare l’antica sfida alle preponderanti tribù germaniche di Frankia e Alemagna.
Galles e Portogallo condividono una singolare connotazione etnica e un analogo destino storico. Le popolazioni romano – celtiche che li abitavano, rispettivamente i Britanni e i Lusitani (o Celtiberi), si videro costrette al momento del crollo dell’Impero a ritirarsi sulle impervie montagne che fino a quel momento avevano lasciato disabitate per sfuggire all’invasione rispettivamente dei Sassoni e dei Visigoti, contro cui le dissolte legioni imperiali non offrivano più protezione.
Nei secoli bui, i monti circostanti Yr Widdfa (l’odierna Snowdon) e della Sierra da Estrela costituirono un riparo provvidenziale per i celti di Britannia e Lusitania, salvando la loro identità e la loro stessa esistenza dalle maree anglosassoni e danesi in un caso, e da quelle gotiche e moresche nell’altro. I Sassoni e i Vichinghi non amavano le montagne, preferendo stabilire i loro insediamenti nei pressi di quel mare da cui avevano sempre dipeso per la sopravvivenza.
Allo stesso modo, i Mori che si riversarono in Europa sotto le insegne di Tariq el Tuerto (attraverso quel Monte di Tariq o Geb El Tariq che sarebbe diventato Gibilterra) trovarono un inatteso stop a Roncisvalle, dove i Franchi di Carlo Martello misero fine per sempre alla spinta propulsiva della cavalcata islamica successiva alla morte del Profeta, che li aveva portati in poco tempo dalla penisola araba a quella iberica. Per questo, anche gli Arabi trovarono di difficile digestione quelle montagne della Lusitania, e il Portogallo (dal nome latino Portus Cale, l’odierna Oporto) fu il primo paese a riconquistare pienamente l’indipendenza tra quanti l’avevano persa sotto la scimitarra islamica.
In questo torneo Euro 2016, lo scherzo del destino mette di fronte gli ultimi Celti a delle tribù germaniche a cui si mescolano residui di tutte le etnie, dai Mori agli Africani ai Sassoni ai Vichinghi. La Francia è un frullato di sangue misto da decenni, la Germania lo è diventata dopo il 2006, con l’apertura della Mannschaft agli immigrati.
Keira Knightley, la regina dei Celti nel film King Arthur
In questo torneo Euro 2016, lo scherzo di un comitato organizzatore in vena di pazziate ha messo in scena da un lato un derby celtico, dall’altro uno scontro tra orde barbariche di ceppo germanico che con il tempo sono state ingrossate nelle fila e irrobustite dal sangue di tante altre etnie sottomesse o assorbite.
L’unica razza ariana rimasta è probabilmente proprio quella celtica, per uno scherzo del destino che la risarcisce del tremendo pericolo corso a partire dal V° secolo, quando rischiò di essere travolta ed estinta da altre razze che, nella loro espressione più pura, non esistono più.
Estintosi il sogno del popolo di Iceland, la Terra dei Ghiacci, che al rientro della propria squadra a Reykjavik le ha comunque tributato la più suggestiva e commovente cerimonia di bentornato vista da tanto tempo a questa parte, siamo tutti appesi a questo sogno dei Celti che Gareth Bale e Cristiano Ronaldo stanno coltivando. Sono passati altri dodici anni. Chissà.


lunedì 4 luglio 2016

DIARIO AZZURRO: Italia non aver paura di tirare il calcio di rigore

Come cambiano i tempi. Nel 1970 un secondo posto mondiale dietro al Brasile di Pelé e dopo un 4-3 alla Germania Ovest che ancora fa tendenza fu festeggiato da un bel lancio di pomodori dai tifosi che aspettavano la Nazionale all’aeroporto. Oggi, anno domini 2016, un quarto di finale non superato per un soffio sempre con la Germania (non più Ovest e che fa molta meno tendenza di allora) e pregiudicato in ultima analisi dalle sciocchezze di un paio di ragazzotti che forse invece che in Nazionale agli Europei si sentivano sulla spiaggia di Milano Marittima a giocarsi il favore di qualche tedeschina, è stato accolto con applausi. Sentiti applausi. Tanto sentiti che il commissario tecnico – anzi, ormai ex commissario tecnico – Antonio Conte si è detto pentito della scelta fatta un paio di mesi fa in favore del Chelsea.
Facce da rigore: Leonardo Bonucci 2016
Tornerà, prima o poi, Antonio su questa panchina azzurra. Lui che ha rimesso in sella – e nel cuore dei tifosi – una Nazionale che dopo i mondiali brasiliani sembrava ridotta a un qualcosa di vintage. Come quei grammofoni e quei mangiadischi che teniamo in soffitta perché sono un caro ricordo del passato e buttarli via del tutto ci pare un peccato.
Nel frattempo, a Giampiero Ventura lascia in eredità temporanea un’Italia che ha ritrovato il suo legame con il proprio passato. Quello che le ha fatto cucire sulla maglia azzurra quelle quattro stelle. Quello che ti pesa sulle spalle quando scendi in campo e gli avversari ti pressano da tutte le parti, le gambe non ti reggono più, la milza ti esplode, eppure al ‘120 se ti capita la palla ti fai ancora 80 metri di campo per rifare quel giochino che riuscì a Domenghini e Rivera, a Bruno Conti e Altobelli, a CannavaroGilardino e Del Piero, a Montolivo e Balotelli. E che prima o poi riuscirà a qualche altro ragazzo azzurro. Perché il calcio italiano non poteva essere diventato quello degli ultimi quattro anni.
Quel passato che ti manda sul dischetto del calcio di rigore a denti stretti a fare il tuo dovere anche se dentro ti senti morire, con sessanta milioni di occhi addosso. E la televisione inquadra impietosa i tuoi, di occhi, cercandovi un segno di forza o di debolezza. Gli occhi di Francesco Totti al ’90 di Italia-Australia. Gli occhi di Fabio Grosso al quinto rigore per il titolo mondiale. Gli occhi di Leonardo Bonucci per pareggiare Ozil e negare una volta di più alla Germania la soddisfazione di una vittoria chiara e netta. Gli occhi di Roberto Baggio, che sa di avere una gamba sola, a Pasadena, eppure va lo stesso. A compiere il suo e il nostro destino.
Se su qualcosa dovrà migliorare, il CT Ventura, sono proprio questi benedetti rigori. Avessero imparato a calciarli, i nostri azzurri, avremmo molte più stelle su quella benedetta maglietta, sopra lo scudetto tricolore. Tutto evidentemente non si può avere. I nostri buttano l’anima in campo, se il condottiero sa motivarli, come Bearzot, come Lippi, come Conte. Poi, sul dischetto, spesso vedono le streghe. O i propri limiti.
Roberto Baggio 1994
Questi stramaledetti calci di rigore, che invece i tedeschi tirano sempre benissimo (o quasi) cominciarono a risolvere le partite internazionali nel 1976. Proprio ai tedeschi toccò l’onore e l’onere di inaugurare la prassi, nella finale dell’Europeo jugoslavo contro la Cecoslovacchia. Sbagliò Uli Hoeness, uno dei migliori (quello che due anni fa è finito in galera per frode fiscale al Bayern Monaco). La Germania Ovest lasciò il titolo alla Cecoslovacchia. Da allora, ha sbagliato ancora bilanci e gestioni, con o senza Hoeness, ma rigori decisivi non ne ha sbagliati più.
Per l’Italia, il discorso cominciò subito dopo, e fu ben diverso. Nel 1980, all’Europeo casalingo, la Nazionale azzurra post-calcioscommesse mancò la finale di Roma e finì a giocare quella per il terzo posto contro la Cecoslovacchia campione in carica. Dopo l’1-1 stentato dei tempi regolamentari, finì 9-8 per i Cechi ai rigori, dopo l’errore decisivo di Fulvio Collovati, uno dei pilastri di quella squadra destinata due anni dopo a laurearsi campione del mondo.
Italia 80 fu un’anticipazione di Italia 90, in tutti i sensi. Nella delusione finale, con tanto di Germania Ovest in festa sul prato dell’Olimpico di Roma in entrambi i casi, e nelle modalità, maturate ai calci di rigore. La Nemesi azzurra nel 1990 si materializzò al San Paolo di Napoli contro una pessima Argentina che Diego Maradona trascinò fino alla resistenza al gol di Schillaci e poi fino ai penalties fatali per la Banda Vicini. Sbagliarono Donadoni e Serena, due che in campionato non sbagliavano mai. Vicini fu accusato di aver tenuto fuori Roberto Baggio.
Quattro anni dopo, negli USA, Baggio c’era, e portò la Banda Sacchi in finale di peso, malgrado il mister di Fusignano avesse commesso ben più errori di quello di Cesena. In finale, contro un Brasile più o meno ai livelli dell’Argentina di Napoli, gli azzurri avevano testa e gambe stanche. Baggio aveva una gamba sola, e purtroppo non era quella che serviva per calciare il rigore. Prima di lui avevano sbagliato due colonne, Franco Baresi e Daniele Massaro. Il suo quinto rigore serviva per non morire anzitempo. Invece fu la fine.
Altri quattro anni passati, dopo il rigore sbagliato da Gianfranco Zola che ci costò l’Europeo inglese del 1996, a Parigi ancora Baggio tenne in vita l’Italia malgrado il mister Cesare Maldini in lui ci credesse poco, preferendogli Zola e Del Piero. Ma la fortuna non gli arrise, come non gli aveva arriso in passato. Il suo quasi golden gol (un’altra diavoleria della FIFA che al pari dei rigori ci sarebbe costata lacrime e sangue) uscì d’un soffio, gelando il sangue ai francesi. Il suo rigore, il primo della serie come se quattro anni non fossero passati, quella volta entrò. Toccò a Gigi Di Biagio sbagliare l’ultimo, quando l’Italia era ancora in parità nel conto totale e la Francia cominciava a vedere qualche strega.
Francesco Totti 2000
Rotterdam, anno di grazia 2000. I cucchiai si fanno e basta, se si è in grado. Non si promettono, caro Pellé. Due volte ci è andata a finire bene alla lotteria dei penalties. In semifinale a Euro Belgiolanda contro i tulipani che ci avevano fatto vedere i sorci verdi ma che di rigori quel giorno ne sbagliarono ben cinque, due nel tempo regolamentare e tre in conclusione. Francesco Totti segnò quel giorno uno dei due per cui la patria gli sarà per sempre eternamente grata. Quello del cucchiaio. In finale, ci si mise il golden gol di Trezeguet a fare quello che solitamente ci facevano i tiri dal dischetto: il danno oltre alla beffa.
Due anni dopo ancora golden gol, quello di Ahn coadiuvato dall’arbitro Moreno, in Corea del Sud. Due anni ancora, quella volta in Portogallo fu biscotto, quello di Ibrahimovic e Poulsen. Totti fece centro anche quella volta, ma sul viso del danese.
Per ritrovare l’Italia ai calci di rigore, bisognò arrivare alla finale di Berlino nel 2006. Quel giorno, PirloMaterazziDe Rossi, Del Piero e Grosso non tremarono. Era l’anno nostro. Trezeguet ci restituì il golden gol di Rotterdam sotto forma di rigore sbagliato, l’unico francese, che ci bastò. Zidane aveva già fatto il suo incornando Materazzi e finendo sotto la famosa doccia anzitempo.
Francesco Totti 2006
Nel 2008, chiusa parentesi positiva. Italia che tenne testa alla Spagna che studiava da campionessa, ma che ai rigori soccombette e proprio con un eroe di Berlino, De Rossi, nonché con uno che in campionato non sbagliava mai, Totò Di Natale.
Poi, un paio di eliminazioni al primo turno ai mondiali, in Sudafrica e Brasile, ed un Europeo egregio ma logorante in Ucraina – Polonia. La Spagna ce ne fece quattro, ma nei tempi regolamentari. In finale gli azzurri non ne avevano più.
Ieri l’altro, ancora la Nemesi. Tedeschi in bambola, che di rigori ne sbagliano tre, con Mueller, Ozil e Schweinsteiger. I migliori dei loro. Quando ricapiterà? Ma la buona sorte ci volta le spalle non appena vede la pantomima di Zaza, indegna perfino di un cortile di galline ed anitre, e soprattutto il gestaccio di Pellé a Neuer. Quando fai una cosa brutta e gratuita come quella, se c’è un po’ di giustizia perdi. E infatti.

Graziano Pellé 2016
Palla al centro. Avanti la prossima. Con una raccomandazione a mister Ventura. Sui rigori, lavoriamoci un po’, fermiamoci qualche minuto in più la sera, alla fine degli allenamenti. Se avessimo imparato a tirarli per tempo, chissà quante stelle avremmo sulla maglia. Altro che le quattro che ci tengono appaiati alla Germania. Una raccomandazione anche all’ex mister Conte. La Nazionale dà un senso ad una carriera. Più del Chelsea. Ma siamo certi che lui questo lo sa. E prima o poi quel senso vorrà tornare a darlo.