sabato 31 gennaio 2015

Genova agrodolce per la Fiorentina

I soldi non fanno la felicità. E soprattutto non vanno in campo a giocare a pallone. Almeno non direttamente. La prima Fiorentina del dopo – Cuadrado arriva a Marassi con la testa frastornata da tutto ciò che è successo in settimana, sgombra di quello che servirebbe ad affrontare il Genoa nel migliore dei modi. Di fronte ad un avversario avvelenato dai torti arbitrali veri o presunti subiti, teoricamente anche un avversario diretto per la corsa alla qualificazione alle coppe europee, la squadra di Montella dimostra di avere lasciato a Firenze concentrazione mentale e disposizione tattica necessarie ad evitare che i rossoblu la mettano sotto per almeno un tempo.
A Firenze sono rimasti anche i 31 o 33 milioni incassati dalla cessione del campione colombiano al Chelsea, nelle capaci mani del ragionier Cognigni che non li lascerà andare tanto presto e tanto facilmente. Il risultato è che l’importanza del numero 11 appare più chiara che mai proprio ora che quella maglia in campo non c’è più. Nessuno si porta via due difensori per volta creando spazi in attacco, nessuno aiuta il povero Diamanti a spartirsi le pedate avversarie nelle caviglie, nessuno dà una mano a Joaquin e Vargas a saltare l’uomo in una difesa come quella dei grifoni che pure non appare irresistibile.
Tra infortuni e squalifiche, Vincenzo Montella mette in campo i residui di un centrocampo che eccelleva per il possesso palla (confermato non più tardi di una settimana fa al cospetto nientemeno che di un’avversaria di rango come la Roma) e che oggi invece viene saltato dalle sciabolate rossoblu come una fila di birilli del bowling. Mati Fernandez e Borja Valero cominciano in formato funambolico anche oggi, ma ben presto rivelano la loro consistenza fisica ridotta al cospetto dei rocciosi e indiavolati dirimpettai genovesi. Badelj non è mai stato un fulmine di guerra, e la difesa se presa d’infilata si è fatta sovente trovare fuori posizione. Oggi tutti questi difetti saltano agli occhi in maniera eclatante, non appena il Genoa, superato un breve momento iniziale di presa di coscienza di sé e dell’avversario, comincia ad azzannare erba, pallone ed avversario.
Nei primissimi minuti Joaquin e Diamanti illudono di poter disporre della retroguardia rossoblu come credono, presentandosi davanti a quel Mattia Perin che i tifosi viola hanno imparato a maledire da alcune stagioni, e che non si smentisce neanche oggi. Ma è un fuoco di paglia, il gioco si rovescia ben presto, con gli avanti rossoblu Falque, Perotti e Nyang che sembrano altrettante ire di Dio incontenibili. Mettere insieme due passaggi di fila per gli orfani di Cuadrado appare un’impresa. Che diventa insormontabile dopo un quarto d’ora del primo tempo quando Nyang se ne va sulla fascia sinistra a Vargas e mette in mezzo.
Il francese colored del genoa fa impressione, anche perché assomiglia in certe sue discese a qualcuno che i supporters viola d’ora in avanti possono solo rimpiangere. Non ha le treccine l’ex milanista ma il suo scatto micidiale in certi momenti sembra proprio quello di Juan Guillermo Cuadrado, solo che gioca dall’altra parte. E al 14’ il pallone che offre a Sturaro, lasciato solo dalla parte opposta da Tomovic, è un rigore a porta vuota. Il laterale genoano ci grazierebbe anche, ciabattando clamorosamente sul palo opposto. Peccato che sul rimpallo Tatarusanu si trovi in traiettoria facendo carambolare il pallone in rete.
Per i viola il resto del tempo è un Fort Apache, e il portiere rumeno si riscatta abbondantemente salvando la porta in almeno un paio di clamorose occasioni, che fanno il paio con altre due nei minuti finali della ripresa. Norberto Neto è lontano ormai, così come Cuadrado (che ha già diffuso sul web nel frattempo le sue foto con la maglia del Chelsea), e per la Fiorentina comunque è notte fonda.
Sembra profilarsi un’altra Parma per la squadra che pochi giorni fa aveva messo alle corde la Roma. E’ una giornata assurda del resto non solo per i viola, alla mezz’ora accade un fatto inconsueto che sembra aumentare i segni infausti del destino. L’arbitro Nicola Rizzoli, che fino a quel momento aveva diretto abbastanza bene la spinosa gara tra un Genoa che ha passato l’ultima settimana a lamentarsi con il mondo intero ed una Fiorentina che il suo presidente Preziosi vorrebbe sempre sua vittima sacrificale (per i noti motivi risalenti all’estate del 2002), si procura una contrattura ad un polpaccio ed è costretto a lasciare il fischietto al quarto uomo Marco Di Bello, che per il resto del match durerà molta fatica a mostrarsi all’altezza del più famoso collega.
Diamanti, per esempio, viene massacrato dai marcatori genoani senza che Di Bello il più delle volte fischi neanche il fallo, mentre è pronto ad ammonire Borja Valero per un semplice fallo di ostruzione. Non pare giornata neanche per lui.
La Fiorentina dei primi cinquanta minuti è talmente brutta da non poter essere vera. Se ne rende conto anche la sorte, che alla fine le concede un’occasione forse fino a quel momento immeritata. Mati Fernandez arriva sulla tre quarti finalmente smarcato e con la palla sul piede giusto per un cross dei suoi, Babacar sul filo del fuori gioco prolunga per Gonzalo Rodriguez che da due passi fulmina di testa la Nemesi Perin.
Il Genoa accusa il contraccolpo e comincia a perdere metri e contrasti. Peccato che i viola sul campo o non hanno la cattiveria giusta o non hanno più il fiato. Diamanti deve uscire a corto di fiato (e di caviglie sane) e Montella non trova di meglio in panchina che un inguardabile Kurtic.  Risultato, il Genoa si riprende qualche metro e qualche contrasto e torna a rendersi pericoloso quanto e forse più della Fiorentina.
Montella rischia Gilardino per un Babacar che ha sprecato malamente la sua occasione da titolare fin dall’inizio. Il senegalese appare quasi svogliato, nervoso e comunque sempre in ritardo, sempre dietro il marcatore che lo anticipa su ogni assist dei compagni. Il corrucciato Gomez rimane in panchina, il figliol prodigo ex campione del mondo 2006 invece schizza in campo a far vedere fin da subito la differenza tra un bomber di razza e uno che forse lo potrà diventare, ma certo non applicandosi così poco e male. Nel quarto d’ora che sta in campo Gilardino fa vedere le streghe all’intera difesa genoana. Perin deve fare gli straordinari su di lui oltre che su un Joaquin ringiovanito e rinfrancato.
Il terzo cambio è obbligato da un risentimento muscolare del goleador Gonzalo, che lascia il posto ad un Richards capace nei minuti finali di non farlo rimpiangere, né in difesa e né in attacco. Negli ultimi minuti, che i padroni di casa giocano in dieci per l’espulsione di Burdisso a causa di un fallo plateale su contropiede di Mati Fernandez, entrambe le squadre potrebbero far proprio il match e i due portieri si superano. Anche se è proprio la Fiorentina a quel punto ad avere il predominio territoriale e a dare l’impressione di buttare via una partita che per come si è messa non potrebbe e non dovrebbe sfuggire dalle mani di una squadra che ha le sue ambizioni.
Finisce con due squadre stremate e scontente, mentre Preziosi se n’è andato da tempo per protesta contro il pareggio viola, a suo dire l’ennesima ingiustizia subita dalla sua squadra. Dove sia Della Valle invece stasera non è dato saperlo. Chissà se ha assistito di persona, almeno alla televisione, allo spettacolo della sua squadra, la Fiorentina salvata dagli estri di giocatori ultratrentenni a cui presto verosimilmente occorrerà trovare ricambi che consentano loro di rifiatare.

Parafrasando una vecchia pubblicità, un Diamanti non è per sempre. Oggi a Marassi è andata bene. Poteva andare anche meglio. Il gioco sarà sempre più duro e senza la Vespa il rischio di ritrovarsi a piedi è fortissimo. Il calciomercato chiude lunedi. E i soldi, da soli, perfino il ragionier Cognigni sa – o dovrebbe sapere – che non fanno la felicità. Uno che la butti dentro più spesso magari invece sì.

martedì 27 gennaio 2015

La giornata della memoria



Arrivarono da est, senza avere la più pallida idea di quello che avrebbero trovato. Gli uomini dell'Armata Rossa che la mattina del 27 gennaio 1945 entrarono nel campo di concentramento di Oswiecim, in tedesco Auschwitz, erano temprati dagli orrori di tre anni e mezzo di guerra contro la Wehrmacht di Hitler e contro le SS, ma quello che si trovarono davanti superava ogni immaginazione. Di oltre un milione di prigionieri internati nel campo dai tedeschi a partire dal 14 giugno 1940, ne sopravvivevano soltanto 7.000, e in condizioni che solo pochi geni come Primo Levi o Steven Spielberg hanno saputo descriverci. E che solo il ricordo dei pochi rimasti in vita e giunti fino al nostro tempo può testimoniare.
Era nato come tanti altri, il campo di Auschwitz, sulla spinta del desiderio di Heinrich Himmler e di altri gerarchi nazisti di compiacere il Fuhrer e di avviare a soluzione finale quello che egli stesso aveva individuato come il problema principale della Nuova Germania del Terzo Reich: il problema ebraico. Già prima che nel 1942 a Wansee presso Berlino una conferenza di esponenti del Nazismo desse forma sistematica allo sterminio del popolo ebraico e degli altri dissidenti antinazisti affidando a tecnici come Adolf Eichmann l'organizzazione della soluzione finale attraverso l'impiego del famigerato gas Zyklon B (già sperimentato con successo nelle trincee della Prima Guerra mondiale) e dei forni crematori, il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau era diventato il più importante della fabbrica della morte, il più emblematico di quella banalità del male che l'essere umano concepì contro se stesso in quegli anni.
Simboleggiata con agghiacciante efficacia da quella scritta di metallo sul cancello d'ingresso del campo alla fine del binario ferroviario su cui arrivavano i vagoni piombati da tutta Europa, che tutti hanno impressa nella memoria per esserci stati e averla vista in pellegrinaggi angoscianti o in foto e film capaci di rinnovare l'orrore: Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi.
Le larve umane che i soldati russi si trovarono di fronte, al pari di altri soldati di vari eserciti che stavano occupando in quei giorni territori già sotto il controllo dei tedeschi e campi di lavoro simili a quello di Auschwitz, testimoniano da allora fino a che punto può arrivare quella che i Nomadi avrebbero chiamato giustamente la belva umana, nella loro canzone. Quel male la cui quotidianità e banalità Primo Levi avrebbe efficacemente raccontato nel suo diario-capolavoro, Se questo è un uomo. O che Shlomo Venezia avrebbe ritratto fin nei particolari dell'abominio in Sonderkommando Auschwitz.
Non è un caso che la data del 27 gennaio sia stata scelta dalla Germania prima e dalle Nazioni Unite poi come Giornata della Memoria, e il campo di concentramento stesso sia stato dichiarato dall'Unesco nel 1979 patrimonio dell'umanità. Di tutti gli orrori perpetrati dall'uomo contro i suoi simili nel corso della sua storia, Auschwitz in qualche modo è riuscito ad essere la manifestazione più eclatante.
Dal 1945 ad oggi, il Male si è incarnato ancora tante volte. La tragedia della fine del Colonialismo in Africa e Asia, il Vietnam, la Cambogia, l'Afghanistan, l'Iran, i paesi sottratti al giogo nazista solo perché si ritrovassero sotto quello sovietico, il Medio Oriente stretto tra intolleranza araba per la "riparazione" decisa dal mondo verso il popolo ebreo (lo Stato di Israele) e intolleranza israeliana verso chi si riteneva popolo altrettanto eletto, il Ruanda degli Utu e Tutsi, l'America Latina e le dittature feroci quanto quella di Hitler, Pol Pot, Saddam Hussein, Ceausescu, Kim Il Sung, Videla, Pinochet....quanto ha avuto da piangere la nostra coscienza?
Sono passati 70 anni. Il Male ha ancora una banalità che la nostra mente stenta a comprendere, e ancor più a controllare. I Treni della memoria partono annualmente da tutta Europa verso Auschwitz-Birkenau.
Qualcuno ancora va a farsi stringere il cuore sul luogo dello sterminio elevato a industria e sistema. Qualcuno pensa che adesso questi treni dovrebbero partire per le più svariate località, perché ormai sono pochi i luoghi della terra rimasti scevri da orrori paragonabili all'Olocausto. Ma ci sono delle parole che a distanza di tanti anni restano ineguagliate per esprimere i sentimenti che suscita la Giornata della Memoria, anche aggiornata ai tempi recenti. Le prime sono quelle di Primo Levi, nell'incipit del suo libro, Se questo è un uomo:
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare Vuoti gli occhi e freddo il grembo Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato: Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via, Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
Le altre sono scritte nel Talmud, ma passano bene in qualunque altra religione, o coscienza civile, soprattutto in un'epoca che a volte sembra dirigersi di gran carriera verso nuove tragedie, perché dalla storia nessuno impara mai:
Chi salva una vita, salva il mondo intero.



dal film Band of Brothers, la scoperta del campo di concentramento di Landsberg

lunedì 26 gennaio 2015

Fiorentina-Roma, il calcio abita ancora qui



Volendo parafrasare il celebre aforisma di Gary Lineker, il calcio è uno sport che si gioca in undici giocatori contro undici, e alla fine vince la Juventus. A ben vedere, al termine della gara del Franchi l’unico risultato che conta è questo. La Roma si allontana a -7 dalla capolista, la Fiorentina, che ne era già lontana a sufficienza, resta al sesto posto a -3 dalla zona Champion’s, a meno che stasera il Napoli faccia il suo dovere. In tal caso i punti di distacco saliranno a 5.
Ma siccome il calcio non è solo risultato, ma ogni tanto, vivaddio, anche spettacolo, non si può limitare Fiorentina-Roma di ieri sera al puro dato statistico, per quanto importante e significativo. Abbiamo più volte scritto in sede di presentazione di queste sfide tra viola e giallorossi (la Roma è la squadra che la Fiorentina ha affrontato più volte nella sua storia, e non è finita per quest’anno perché incombe un quarto di finale di Coppa Italia all’Olimpico a inizio febbraio) che da tempo immemorabile ormai rappresentano un vero e proprio spot per il calcio giocato.
E’ stato così anche questa volta. Garcia e Montella hanno messo in campo due squadre che – al netto delle rispettive assenze – hanno saputo confermare la loro propensione al bel gioco. E hanno sostanzialmente meritato il risultato maturato al termine dei novanta minuti, dividendosi equamente le fasi di predominio e le occasioni da rete. Più forte la Fiorentina nel primo tempo, incapace di chiudere però il match sfruttando le ghiotte occasioni costruite (almeno tre grosse come una casa). Più all’altezza della sua caratura la Roma nella ripresa, capace di venire fuori alla distanza come già nel derby e in altre circostanze con i suoi uomini più tecnici (l’intramontabile capitano ed un Llajic ormai diventato quel giocatore maturo che a Firenze si era potuto soltanto intravedere).
Risultato giusto, dunque, che lascia solo l’amaro in bocca ai viola per le occasioni non sfruttate nel momento migliore ed ai giallorossi per il fatto di dover assistere a questa fuga della Juventus già in avvio di girone di ritorno. Ma chi ha assistito alla sfida del Franchi, quanto e forse più di altre volte, non può dire di non essersi divertito, da qualunque parte degli schieramenti del tifo fosse seduto.
Fiorentina e Roma sono due squadre che quando la condizione le assiste rendono il gioco del calcio un piacere per gli occhi, e questa con i tempi che corrono nel campionato italiano è merce rara. La Fiorentina in particolare sta vivendo il momento che insegue da inizio stagione, quello in cui gli uomini migliori sono entrati finalmente in forma e il cerchio della squadra comincia finalmente a quadrare.
Da Tatarusanu, sulla strada di non far rimpiangere il figliol prodigo Neto, a Mario Gomez, sulla strada di ritrovare la via della rete con continuità, sono molti i giocatori viola che ieri sera hanno messo in campo qualcosa di più della semplice volontà di interrompere la serie negativa contro i giallorossi capitolini. Finora i precedenti parlavano chiaro: nella gestione Montella sei partite e sei sconfitte, e la maggior parte delle volte senza nemmeno discussioni. La legge dei grandi numeri doveva prima o poi trovare applicazione, è successo ieri sera. Il bottino non è pieno, ma la prestazione dei gigliati è di quelle di cui si può esser soddisfatti.
El segna semper lù, dicevano a Milano ai tempi in cui il mitico Maurizio Ganz tirava fuori le castagne dal fuoco prima all’Inter e poi al Milan. Chissà che da oggetto misterioso in preda al male oscuro, Marione Gomez non finisca per diventare qui a Firenze “qualcosa di veramente Ganz”, anche nel senso fiorentino del termine. Dopo i gol che mercoledi hanno consentito il disbrigo della pratica Atalanta, ecco questo segnato con gran riflesso ad un Morgan De Sanctis che probabilmente sarebbe già stato in difficoltà sul tiro di Pizarro da fuori area. La deviazione del tedesco è fulminea e precisa. Un gran gol, di quelli che Firenze aspettava da tempo, temendo che fossero rimasti per sempre a Monaco di Baviera.
Potrebbe raddoppiare e addirittura chiudere nel primo tempo la Fiorentina, ma purtroppo le occasioni migliori capitano regolarmente sulla testa e sui piedi dei suoi difensori. Prima Gonzalo Rodriguez la piazza di testa, ma la toglie dalla porta De Rossi, sempre di testa. Poi i piedi poco addomesticati di Tomovic e Basanta strozzano in gola al pubblico del Franchi l’urlo di gioia per dei gol che sembravano praticamente fatti. Ci sono altre occasioni ed anche un reclamo per una spallata in area romanista di Manolas a Pasqual, che Banti lascia correre. Anche gli ospiti alla fine danno segni di risveglio con Naingollan (paratona di Tatarusanu) e Llajic.
Il tempo finisce con l’1-0 viola che va stretto, anche se il pubblico si stropiccia gli occhi avendo assistito alla partita che i suoi beniamini avevano promesso. Raramente la Roma quest’anno si era trovata così in difficoltà. Unico rammarico, i troppi gol sbagliati, che per quella ben nota legge del calcio possono preludere ad un gol subito, soprattutto quando non si ha una difesa a prova di bomba.
E infatti al rientro in campo la musica cambia. La Roma ha gli uomini per aggredire e ribaltare partita e risultato, la Fiorentina ha una difesa che se presa in velocità qualcosa concede. Basanta è in difficoltà su Iturbe, il primo a capirlo è Totti. Non si è capitani per caso, e Francesco i gradi se li è conquistati da tempo, confermandoli nel primo tempo quando ha cercato di tenere insieme una squadra in difficoltà. Non si è fuoriclasse per caso, l’istinto di un campione come ce ne sono stati e ce ne saranno pochi lo porta a cercare subito la giocata giusta. Un lancio al volo di quaranta metri che taglia tutta la tre quarti viola pesca Iturbe lanciato in velocità. L’argentino salta Basanta e mette in mezzo, dove c’è Llajic che ormai è un lontano parente di quello che levò gli schiaffi dalle mani di Delio Rossi. Con freddezza il serbo controlla e deposita di precisione alle spalle di Tatarusanu.
Non c’è tempo di maledire il giorno in cui la Fiorentina (intesa come società) decise di disfarsi delle prestazioni di Adem Llajic, oltretutto senza contropartita tecnica. La Roma adesso esce fuori da par suo, e mette paura con i suoi palleggiatori, tra i quali Pianic ha rilevato l’infortunato Strootman. La partita adesso si è rovesciata, è la retroguardia viola a dover stringere i denti, con Tatarusanu chiamato ad almeno un altro paio di parate decisive. E’ la Fiorentina adesso a cercare il contropiede, quando può, ed in un paio di occasioni gliene capitano di talmente clamorosi da far gridare al gol già prima che i giocatori entrino in area di rigore.
Purtroppo, tra centrocampo e attacco viola sono in pochi ad avere il killer instinct. Cuadrado e Borja Valero non affondano, preferendo servire compagni che perdono tempo e alla fine sprecano. Kurtic, entrato al posto di un Mati Fernandez ieri tornato il giocatore leggerino e poco incisivo del passato, ciabatta in area una palla d’oro, a conclusione di una ripartenza tre contro uno. La partita in pratica finisce lì.
Alla fine, non ridono né Montella né Garcia, che però devono fare i complimenti ai rispettivi giocatori per aver conquistato questo bel punto che non serve a nulla ma che riporta il calcio italiano ad uno standard che si credeva in via d’estinzione. Il calcio è uno sport che si gioca in undici contro undici e alla fine vince la Juventus. Dice che oggi a Torino Pogba ha fatto cose mirabolanti, e che la Juve è tornata un rullo compressore come ai tempi di Conte.
Sarà, ma qui a Firenze abbiamo rivisto il “vecchio” Totti giocare una volta di più come non gli riusciva forse nemmeno a vent’anni. Abbiamo rivisto soprattutto una Fiorentina giocare a viso aperto e a testa alta contro una grande vera. Alimentando il sogno di arrivare prima o poi a poter essere considerata una grande anche lei. I progetti, quelli seri, servono a questo.

domenica 25 gennaio 2015

ITALIA ANNO ZERO: Berlusconi e il PDL di nuovo in piazza: Giustizia sempre più da riformare

14 maggio 2013

«La nostra giustizia non garantisce l'imparzialità dei giudici, calpesta troppo spesso il diritto alla libertà dei cittadini, interviene nella vita politica e vuole eliminarmi perché mi considera l'unico ostacolo che si frappone tra la sinistra e la presa del potere. Tutto ciò fa dell'Italia, un tempo la culla del diritto, un paese e una democrazia malate».
Con queste parole Silvio Berlusconi ha sintetizzato il senso della manifestazione indetta dal PDL a Brescia sabato scorso 11 maggio, inizialmente prevista a sostegno del locale candidato Sindaco Adriano Paroli e inevitabilmente trasformata ancor prima di cominciare in una pubblica dimostrazione contro il sistema giudiziario italiano da parte del leader del Popolo delle Libertà e di chi si riconosce nelle sue posizioni politiche e civili in quella che qualcuno ormai definisce la Guerra dei Vent’Anni.
A far precipitare gli eventi la sentenza di Corte d’Appello che la settimana scorsa ha condannato Silvio Berlusconi a 4 anni e 5 mesi nel processo intentatogli per frode fiscale sui diritti TV Mediaset. Prima ancora della requisitoria del P.M. Boccassini al Processo Ruby (chiesti altri 6 anni di galera per Berlusconi e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici), il Processo Mediaset con i suoi esiti e le sue implicazioni (e i suoi strascichi, perché ancora pende davanti alla Consulta il suo annullamento per conflitto tra i poteri dello Stato) è stato sufficiente a spaccare il paese in due.
E la frattura appare non solo di quelle difficilmente sanabili, ma anche equamente e fedelmente rappresentata nella compagine governativa, che forse non aveva, date le circostanze, la riforma della giustizia nella sua agenda ma che sicuramente adesso dovrà confrontarsi con un clima politico che proprio a causa della giustizia ha finito di avvelenarsi e che grazie alle pulsioni latenti di guerra civile mostrate dalle varie articolazioni della piazza potrebbe arrivare al punto di rottura tra le sue due anime difficilmente conviventi.
Mentre i Ministri del Governo Letta si ritirano a meditare in convento in perfetto stile Doroteo (non volevamo morire DC, ma ci stiamo finalmente riuscendo), compreso il viepremier Alfano che sabato era a Brescia a manifestare contro i giudici, la tempesta politica si abbatte su un Paese sconvolto da tante cose, e per nulla rassicurato dalle immagini che sono giunte proprio da Brescia. Una piazza che inneggia a Berlusconi e le strade circostanti che invece lo contestano, il tutto – va detto – rappresentato da una informazione giornalistica tra le peggiori di sempre, servono a tante cose: a stendere un velo, anzi, una velina su altre ben più importanti questioni sulle quali il Governo forse non ha la più pallida idea di come intervenire, ma che decideranno, anche a breve, della nostra stessa esistenza in vita; nonché a travolgere lo stesso dibattito sulla giustizia e sulla sua necessità di essere riformata, perché tra le urla non si distingue più niente, né le ragioni di chi come Berlusconi si professa innocente e fa appello ad altri «tantissimi italiani che entrano ogni giorno nel tritacarne infernale della giustizia», né quelle di chi invece lo vede da anni e ancor di più adesso come il Colpevole dei Colpevoli, il nemico da abbattere, il Grande Corruttore che ha avvelenato e per qualcuno distrutto la vita democratica di questo paese.
In sostanza, quella parte della riforma del nostro ordinamento giuridico che più di altre meriterebbe riflessione e toni pacati, perché da essa dipende l’equilibrio dei poteri dello Stato, la nostra libertà sostanziale, la nostra stessa vita, si avvicina ad essere affrontata (perché non può più essere rinviata, su questo sono d’accordo tutti, pur dandosele di santa ragione) in una temperie al calor bianco. Dal palco, Berlusconi ha dapprima richiamato alla memoria le parole rivolte da Enzo Tortora a coloro che lo giudicarono («Io sono innocente, e spero nel profondo del mio cuore che lo siate anche voi»), e poi, tra le urla contrastanti, ha declamato la sintesi della proposta di riforma del sistema giudiziario che intende finalmente presentare dopo diverse legislature sprecate, «separazione della carriere tra i magistrati che fanno le inchieste e quelli che giudicano [...] una vera parità tra accusa e difesa. I pm devono avere per i giudici lo stesso rapporto che hanno gli avvocati della difesa: devono prendere appuntamento, bussare col cappello in mano, dare del lei e non del tu [...] ci batteremo per una responsabilità civile dei magistrati».
Mentre nella concitazione generale si perdono non soltanto le sue affermazioni ma anche quelle di chi ha inteso stigmatizzare la sua presa di posizione (a cominciare dal Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura che ha parlato di «giudici baluardo della legalità, chi parla di pacificazione non appicchi incendi» per finire al Presidente della Repubblica che ha dichiarato di sottoscrivere le sue parole una per una), è indubbio che in attesa di una riforma che tutto il popolo italiano, non soltanto quello di centrodestra, avverte ormai come indispensabile si continuerà nel frattempo a «fare giustizia» in un clima di bande contrapposte e di sfiducia popolare pressoché totale. Non c’è che dire, la strada del Ministro Cancellieri è in salita che più di così non si può.

L’ultimo affondo di Berlusconi alle cosiddette Toghe Rosse a Brescia è stato un guanto di sfida: «potete farmi di tutto, ma non potete impedire a milioni di italiani di volermi alla testa del PDL». E questo appare indiscutibile. Cosa ne sarà della giustizia e del popolo in nome del quale viene amministrata, questa è ben altra questione.

ITALIA ANNO ZERO: Francesco che parla con i lupi

18 marzo 2013

Non aveva fatto ancora in tempo ad esaurirsi la fumata bianca uscita dal comignolo sulla Basilica di San Pietro, né si era spenta l’eco delle prime parole con cui Jorge Mario Bergoglio ha dato la sua buonasera al mondo come Papa Francesco, che già la macchina del fango si era messa in moto dando all’uomo venuto dal paese più lontano di sempre l’esatta dimensione del compito che lo attende.
Sono molti i nemici che aspettano al varco il successore di Pietro il Pescatore, e per la prima volta dichiaratamente anche di Francesco d’Assisi. Alcuni, lo sappiamo grazie al gran rifiuto del suo predecessore Benedetto XVI, risiedono dentro la Curia, o per meglio dire in senso più allargato dentro la stessa Chiesa Cattolica Apostolica Romana, e sono e saranno (c’è da crederlo) i più potenti e pericolosi. Gli altri sono disseminati ormai un po’ in tutta la società civile nell’orbe terracqueo. Alla crisi di religiosità diffusa che fa perdere ogni giorno fedeli al Vicario di Cristo in terra, si aggiunge un’immagine della Chiesa che non è mai stata così povera. E non nel senso auspicato a suo tempo dal Poverello di Assisi, ma nel senso purtroppo di una moralità che non potrebbe essere più distante dalle intenzioni dei fondatori di questa religione, per non parlare di quelle di colui che la testimoniò per primo. Una immagine che a vecchi e nuovi nemici e avversari di questa Chiesa non pare il vero di poter sfruttare per discreditarla ulteriormente.
Neanche 24 ore dopo l’apparizione di Francesco I al balcone di Piazza San Pietro hanno preso a girare per il web e su alcune testate le foto di un più giovane vescovo Bergoglio a fianco del famigerato dittatore argentino Jorge Rafael Videla, il generale che rovesciò nel 1976 il governo democraticamente eletto di Isabelita Peron e instaurò nel suo paese uno dei regimi più infami e sanguinari della storia, forse secondo soltanto a quello cileno di Pinochet nello stesso periodo e nella stessa parte di mondo.
Bergoglio e Videla
I militari argentini, Videla, Massera, Galtieri & C., con la scusa di combattere i Montoneros (formazioni paramilitari ispirate ai gruppi eversivi in voga all’epoca, quali ad esempio le nostre Brigate Rosse), affogarono la loro patria in un bagno di sangue durato 8 anni, finché l’onda lunga della sconfitta nella guerra con la Gran Bretagna per il possesso delle Isole Falkland ed il mutato clima internazionale non portarono al suo dissolversi. Anche se poi i restaurati governi democratici argentini non sono riusciti più di tanto ad accertare la verità su Plaza de Mayo e gli altri orrori degli anni di Videla, che tra l’altro se l’è cavata con una condanna all’ergastolo che sta scontando indisturbato, è il caso di dire, nella sua Buenos Aires. Per avere un’idea di cosa combinarono Videla e gli altri galantuomini durante la loro dittatura, basta leggere il libro di Horacio Verbitsky, l’Isola del Silenzio.
Insieme alle foto sono circolate sempre sul web affermazioni circa una attività di collaborazionismo con la Giunta Militare degli alti ranghi della Chiesa argentina dell’epoca, tra cui appunto l’allora Comandante locale della Compagnia di Gesù Padre Jorge Mario Bergoglio. Sono bastate altre 24 ore per avere le smentite del caso, a Bergoglio non è stato possibile imputare con prove provate alcun atto di fiancheggiamento ai militari golpisti. Quanto alle foto, il problema è quello di sempre da quando fu scoperta l’acqua calda, non è possibile rivestire un incarico pubblico qualsiasi in un paese soggetto ad una dittatura e non essere costretti a presenziare a eventi pubblici con tanto di reportage fotografico a fianco di qualche impresentabile.
Passarella, Videla e la Coppa del Mondo
Qualcuno se la sente di gettare la croce addosso (la metafora è d’obbligo, visto l’argomento) a Daniel Alberto Passarella perché appare in quella famosa foto in cui mostra orgoglioso la Coppa del Mondo appena vinta dalla sua Nazionale ad un sorridente Videla? Qualcuno per la verità ci provò, gli stessi che non avrebbero voluto che due anni prima la nostra squadra di Coppa Davis andasse a giocare (e vincere) il trofeo nel Cile di Pinochet. Dimenticando che i nostri primi due titoli mondiali nel calcio furono vinti alla presenza del Duce, e non per questo li sentiamo meno nostri, e non onoriamo la memoria di quella formidabile squadra che riuscì nell’impresa.
Per tornare all’argomento, se responsabilità ci furono da parte di Bergoglio, sono e non possono essere altro che quelle generiche (universali, vorremmo dire) derivanti dal semplice fatto di far parte di una organizzazione che da sempre con i dittatori (e altre bestie feroci, o comunque poco raccomandabili) ci dialoga. La Chiesa Cattolica, da quando diventò una struttura organizzata a fini di governo come la conosciamo oggi per volere dell’Imperatore romano Costantino (il primo ad intravederne le potenzialità in questo senso), a quando poco dopo con il venir meno dello stesso Impero Romano si ritrovò ad essere l’unica struttura organizzata di governo rimasta in un mondo sconvolto dalle Invasioni Barbariche, si è sempre posta come un soggetto politico e spirituale che non ha avuto remore (nel bene e nel male, va detto) a parlare con i Barbari, fino in qualche modo a riuscire a convertirli al proprio ordine spirituale e temporale.
Attila e Leone I
Ad affrontare Attila non andò un Imperatore romano ma il Vescovo di Roma Leone I, e secondo la leggenda il suo intervento fu più efficace di quello di mille Legioni, perché provocò la ritirata e la fine del condottiero unno. Stessa sorte seguirono condottieri e tribù tra le più feroci mai scatenatesi sul suolo europeo, dagli Eruli di Odoacre che abbatterono le Aquile imperiali ai Vichinghi che devastarono la Normandia e mezza Europa. Pur senza eserciti (ma anche con, da dopo la Donazione di Costantino e l’instaurazione di un dominio temporale della Chiesa), alla Chiesa è sempre riuscito di sottomettere il barbaro antagonista. E c’è da pensare che ciò sia sempre successo a prezzo di compromessi innominabili e inconfessabili.
Questo approccio è rimasto nei secoli dei secoli. Da Pio VII che al generale Miollys mandato da Napoleone Bonaparte ad intimargli la rinuncia al potere temporale rispose: Non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo, a Pio IX che maledì il neonato Stato Italiano reo di avergli sottratto il dominio su Roma con la Breccia di Porta Pia, sono poche le eccezioni alla regola. La Chiesa tratta, e con le trattative sopravvive. Benedetto XV definì pubblicamente la Prima Guerra Mondiale una inutile strage, ma non scomunicò nessuno dei suoi autori, e del resto si era appena affacciato un nemico ben più temibile sotto le sembianze del Comunismo Bolscevico, ed altre diventarono allora le priorità vaticane.
Pio XII Pacelli fu accusato di simpatie filonaziste fin da quando era Legato Pontificio in Germania. Hitler non fu mai scomunicato, ma è un dato di fatto che nelle strutture di proprietà della Chiesa trovarono salvezza durante la Seconda Guerra mondiale circa 600.000 persone, molte delle quali erano ebrei. Il suo Segretario di Stato, Giovanni Montini futuro Papa a sua volta con il nome di Paolo VI, oltre a provvedere personalmente alla salvezza di molti di quei perseguitati si adoperò fattivamente – a giudizio di tutti gli storici – per la salvezza del suo paese natale nel difficile periodo dell’occupazione nazista e dell’avanzata delle truppe angloamericane.
Negli anni settanta la percezione del Barbaro era diversa, il mondo era stretto tra quella che veniva vissuta come una nuova avanzata del Comunismo Sovietico (che veniva anche presa come scusa per delegittimare sacrosante istanze di progresso da parte di vaste zone del cosiddetto terzo Mondo, tra cui appunto il Sudamerica) e il dilagare di una sempre più aggiornata ai tempi moderni criminalità organizzata. La Chiesa si trovò nel mezzo tra dittatori di destra e di sinistra da un lato, e mafiosi e speculatori di denaro più o meno sporco interessati al suo istituto di opere di religione come lavatrice di quel denaro.
Giovanni Paolo I intravide il problema principale e più pressante nello IOR e nelle sue malversazioni. Com’è andata, nel giro di un mese, lo sappiamo tutti. Il suo successore Giovanni paolo II, che veniva da un paese lontano e comunista, preferì rivolgere le sue energie alla lotta al Comunismo a cominciare dal sostegno a Solidarnosc nella sua Polonia.
E lasciò indietro il resto, nessuno nelle alte sfere della Chiesa alzò la voce per difendere i Monsignor Romero e la loro Teologia della Liberazione e tantomeno per protestare contro i loro omicidi. Padre Popieluszko è un martire della libertà polacca e un eroe della Chiesa Cattolica. Monsignor Romero nessuno sa chi sia e non accade mai di sentirlo rammentare nelle parole di nessun esponente cattolico romano. I dittatori sono venuti e se ne sono andati con i tempi della storia, poiché con la fine della Guerra Fredda non erano più necessari. Ma finché ci sono stati, la Chiesa ha inteso sopravvivere e salvare il salvabile (nel bene e nel male) parlando con loro come aveva parlato con Attila millecinquecento anni fa.
Se Jorge Mario Bergoglio, salito al soglio di Pietro con il nome di Francesco, ha una colpa, allo stato attuale è quella di far parte di una organizzazione, di una Ecclesia, che forse non è proprio quella prefigurata dalla predicazione riportata nelle Sacre Scritture. E che ha sempre preferito la ragione della sopravvivenza a quella dei poveri a cui doveva dare conforto.
Ed è proprio qui che entra in gioco il nuovo Vicario di Cristo, da ora in poi, adesso sì. Avere scelto come nome quello del Santo più amato e venerato della Chiesa Cattolica, l’unico che nell’immaginario popolare può stare al pari di Gesù Cristo avendo predicato le stesse cose con le stesse parole ed azioni, carica sulle spalle del nuovo Papa una responsabilità enorme. Adesso sì che dovrà stare attento alle mani che stringe e alle foto in cui apparirà. I giornalisti hanno fatto male il loro lavoro, accusandolo a vuoto di collaborazionismo. Lui non potrà permettersi di fare male il suo, perché la Chiesa di Roma è all’ultima spiaggia, come sa bene lui stesso. Non importa scomodare Nostradamus per sapere cosa succederebbe se anche questa ultima speranza fosse tolta a chi si sente ancora cristiano, e ripone ancora fiducia e cerca conforto nelle parole e nelle opere del Vescovo di Roma, a torto o a ragione Vicario di Cristo in questa terra.

La Terza Profezia di Fatima, qualunque cosa contenga, è anche l'ultima.

ITALIA ANNO ZERO: Benedetto XVI annuncia il suo ”gran rifiuto”. Che succederà alla Chiesa di Roma?

11 febbraio 2013

Alzi la mano chi non è corso col pensiero alle profezie di Nostradamus, stamattina quando Papa Benedetto XVI ha annunciato la sua intenzione di rinunciare al Soglio Pontificio. L’astrologo francese nelle sue Centurie aveva preconizzato che i tempi che stiamo vivendo sarebbero stati estremamente difficili, soprattutto perché la Chiesa cattolica romana, la più antica istituzione in assoluto tutt’ora operante sul suolo di questo pianeta, avrebbe attraversato un momento estremamente critico, culminato con l’elezione dell’ultimo erede di Pietro (Petrus Romanus) e poi con la sua stessa fine dopo oltre duemila anni. Prima di lui il profeta Malachia aveva predetto più o meno le stesse cose, il 112° Papa sarebbe stato l’ultimo. Benedetto XVI, che stamattina ha scelto di porre fine al suo pontificato, era il 111°.
Profezie a parte (anche se dopo l’attentato del 1981 di Ali Agca a Papa Woytila le profezie hanno ripreso vigore e riguadagnato attenzione), è certo che le dimissioni del Papa sono un fatto storico capace non solo di surclassare qualsiasi altra notizia di cronaca anche in un momento che ne offre moltissime e tutte di grande importanza e criticità, ma anche di creare uno sconvolgimento sociale come solo pochi eventi storici epocali sono in grado di fare. Nella storia della Chiesa, la rinuncia di un Papa ha solo cinque precedenti, tutti avvenuti in epoche in cui l’accuratezza della documentazione storica era quantomeno problematica. L’ultimo dei predecessori in questo senso di Papa Ratzinger fu il famigerato Celestino V, che ebbe un testimonial di eccezione nientemeno che in Dante Alighieri.
Pietro da Morrone fu colui che, secondo l’autore della Divina Commedia, fece per viltade il gran rifiuto. L’asceta molisano, poi beatificato dai suoi successori, rinunciò alla tiara papale perché il suo temperamento da monaco eremita mal si conciliava con l’ambiente della Curia romana e con l’immenso potere che essa esercitava. Dante lo mise tra i dannati dell’Inferno con la motivazione che secondo la dottrina cattolica non era ammesso rinunciare alla chiamata di Dio. In realtà, al poeta fiorentino le dimissioni di Celestino V erano particolarmente invise perché avevano aperto la strada all’ascesa al soglio di Benedetto Caetani, passato poi alla storia come l’ancor più famigerato Papa Bonifacio VIII, tra le cui malefatte ci fu appunto quella di aver causato, direttamente o indirettamente, la rovina e l’esilio di Dante Alighieri.
Dopo di allora, nessuno aveva più scelto volontariamente di porre fine al proprio servizio come Vicario di Cristo in terra. Tutti hanno ancora negli occhi l’epica lotta di Giovanni Paolo II con il male che ha reso un supplizio straziante i suoi ultimi anni di vita. Nel gesto con cui in uno dei suoi ultimi discorsi reagiva quasi con rabbia alla menomazione che gli rendeva difficili le parole di fronte ai fedeli c’era tutto il carattere dell’uomo messo a dura prova nella lotta allo spasimo per adempiere al suo ministero fino in fondo. Di quell’uomo, Ratzinger era stato molto più che un fedele collaboratore, era stato il teologo, il teorico di tutta la sua azione concreta. Uomo di chiesa per la maggior parte della sua vita, uomo intelligente che vedeva e vede la necessità di adeguare la sua Chiesa ai tempi moderni (a pena di perdere la battaglia per l’eternità), Joseph Ratzinger Papa Benedetto XVI sorprende il mondo con questa sua fragilità, con questo improvviso (ma forse neanche tanto) desiderio di “mollare tutto”.
Tornano alla mente più che le profezie medioevali quelle emerse un anno fa da fatti di cronaca mai completamente accertati e chiariti, il mordkomplot, il complotto di morte che fu in sostanza l’interpretazione data a quanto scritto negli appunti di un cardinale vicino al Sacro Soglio, Mons. Castrillon, che aveva detto senza mezzi termini che il Pontefice aveva non più di dodici mesi di vita. O la vicenda delle carte del Papa trafugate da uno dei prelati addetti alla sua persona, nelle quali non si mai saputo esattamente cosa fosse contenuto. Difficile penetrare la spessa cortina che da tempo immemorabile ammanta il centro di potere più antico e più influente del mondo, e tutto ciò che gli occorre e lo riguarda. Forse le vere motivazioni del gesto di Ratzinger saranno note al mondo tra una generazione, più o meno il tempo che c’è voluto per sapere cosa successe veramente a Papa Luciani, per fare un esempio.
Il fulmine caduto su San Pietro la sera delle dimissioni del Papa
Per chi crede, è tutto più facile, senza voler mancare di rispetto. Ci penserà la Divina Provvidenza a illuminare coscienze e a indirizzare eventi. Per gli altri, per chi nutre dubbi e cerca risposte già in questa vita, ci penserà la Storia con i suoi tempi. Sia che la Chiesa di Roma continui a farne parte come da duemila anni a questa parte, sia che si avveri qualcosa che un veggente ed un astrologo di diversi secoli fa hanno immaginato di intravedere nelle nebbie del tempo. Nel frattempo, una netta divisione sta già emergendo anche tra chi ritiene che ad un Papa non è permessa la “rinuncia” proprio in ossequio all’ortodossia codificata fin da molto prima dei tempi di Dante, e chi invece ritiene che la dottrina debba non solo adeguarsi alla modernità ma anche recuperare un po’ dello spirito originario, quando il vescovo di Roma altro non era che uno dei rappresentanti di Dio in una delle sue tante Ecclesiae, e nel suo status nulla ostava anche alla rinuncia alla carica, per motivi personali. Tra chi insomma vede nel gesto del Papa un segno di debolezza e chi invece ci legge un segno di coraggio al passo con i tempi.

Per la cronaca, Joseph Ratzinger cesserà di essere il Vicario di Cristo sulla terra alle ore 20:00 del 28 febbraio prossimo. Da quel momento sarà eleggibile il suo successore ad opera di un nuovo Conclave appositamente convocato. Il 112° successore dell’apostolo Pietro. E’ arrivato il tempo di Petrus Romanus, l’Ultimo Papa?

ITALIA ANNO ZERO: Fantozzi, Monti, la Corrazzata Potemkin e la riduzione delle Province

Le sciocchezze in Italia sono come le valanghe. Una volta che hanno preso il via, diventano inarrestabili. Quando poi se ne impadronisce la politica e ne fa altrettante parole d’ordine, diventano addirittura devastanti. Non sono passati molti anni da quando a Sabino Cassese prima e a Franco Bassanini poi fu consentito di rovinare irreparabilmente in questo paese una pubblica amministrazione che, pur non avendo mai raggiunto livelli di eccellenza pari a quelli del Civil Service britannico o americano o dell’Ecole Nationale d’administration francese, aveva funzionato discretamente dai tempi di Napoleone fino ai giorni nostri.
Una sinistra come sempre sprovvista di cultura di governo, in due momenti in cui il governo del paese cadde – è il caso di dire – nelle sue mani, acconsentì di buon grado a trasformare mode e tormentoni del momento in principi riformatori che, nelle mani dei professori dell’epoca, gente che non aveva lavorato nell’amministrazione per cinque minuti della sua vita ma che pretendeva di conoscerla bene, divennero qualcosa paragonabile all’Angelo Sterminatore del Vecchio Testamento.
L’amministrativista (termine già di per sé orrendo) Cassese codificò il nefasto principio dell’introduzione del diritto privato nella pubblica amministrazione. Da allora dirigenti e funzionari delle varie P.A. italiane sono nominati dai politici con contratti (onerosi per l'erario) di diritto privato, e pertanto sono legati mani e piedi alla volontà di questi contraenti. Bassanini completò l’opera pochi anni più tardi, introducendo la separazione (fittizia) tra politica ed amministrazione e la deregulation. Con la prima, si fece finta di tracciare dei confini tra le varie responsabilità: il politico fa le scelte strategiche, il funzionario adotta gli atti necessari ad attuarle, nel rispetto delle leggi. Niente di più falso, se chi deve attuare può essere licenziato dalla sera alla mattina, costui osserverà la volontà del padrone e non la lettera della legge. Con la seconda, una serie di previsioni normative furono declassate da previsioni di legge a previsioni di atti amministrativi, e come tali sanzionabili in caso di infrazione in maniera molto più leggera. Che poi, con buona pace di Bassanini e di chi ne cantò le gesta, era l’unica cosa che interessava ad una classe politica preoccupata di non veder ripetersi mai più Tangentopoli (nella persecuzione, ovviamente, non nella prassi).
Da queste improvvide riforme, a cui venne poi ad aggiungersi un Titolo V riformato in fretta e furia la sera prima della fine della legislatura per non lasciare in mano niente alla destra che avrebbe governato quella successiva e un federalismo ciarlatano e cialtrone che la destra stessa provò ad attuare in ossequio alle promesse fatte a una parte della sua base, quella leghista, la pubblica amministrazione italiana ne è uscita distrutta.
Franco Bassanini
Arrivando ai giorni nostri, in un momento in cui la crisi economica da un lato e di fiducia nelle istituzioni dall’altro morde le caviglie ai cittadini come mai prima forse nella nostra bicentenaria storia di popolo, un governo che questo popolo non ha eletto ma che è stato incaricato dal capo dello stato allo stesso modo di come accadde esattamente novanta anni fa negli stessi giorni (con la differenza che allora la costituzione vigente – lo Statuto Albertino – lo consentiva, mentre adesso no) non ha trovato di meglio che lanciare una nuova parola d’ordine, e come sempre succede nei periodi di crisi individuare un nuovo nemico. Questa volta non etnico o religioso, ma sociale. Lo si può leggere perfino su testate che una volta giustamente avevano la pretesa di essere prestigiose. Il Corriere della Sera, Repubblica, non passano giorno senza lanciare il messaggio al popolo affamato che il suo nemico sono i dipendenti pubblici. Che la pubblica amministrazione è una “erogatrice di stipendi, non di servizi”, come si può sentir dire facendo zapping da un talk show all’altro, a qualsiasi ora.
In altre parole, i tagli alla spesa pubblica da fare non sono quelli che una neghittosa classe politica, come l’orchestra del Titanic, si sta pervicacemente rifiutando e si rifiuterà di operare (in danno di se stessa, evidentemente), nella speranza malcelata che perfino i Fiorito presto o tardi torneranno a piede libero a godersi i proventi dei loro (legali, si badi bene, in quanto consentiti o tollerati da norme in vigore) approvvigionamenti finanziari. I tagli da fare sono gli stipendi dei dipendenti. Quelli che fanno tanto rabbia perché hanno il posto fisso. Quelli che stanno a sportello a prendersi quotidianamente la rabbia e gli insulti della gente, dell’utenza, giustamente inferocita da una burocrazia che definire borbonica è un oltraggio ai Borboni, ma che non riflette mai fino al punto di capire che ciò che la fa inferocire ha sede più su, a piani più alti. Quelli che magari a volte ti prendono in simpatia o compassione e aggirano regolamenti bizantini per venirti incontro e “non farti ritornare”, ma a loro rischio e pericolo, perché con la giustizia italiana se rubi milioni di euro te la cavi, ma se sbagli una marca da bollo la tua vita è finita.
Ma qualcuno bisogna pur trovare, gli ebrei non vanno più di moda, gli extracomunitari non è politicamente corretto, e allora, dagli al pubblico dipendente! E dove lo vado a trovare, avrà pensato il buon Monti, e con lui questo aulico consesso di menti accademiche applicate alla vita reale? Chi addito al popolo come affamatore? Come approfittatore? I Comuni non si toccano, esistono dal Medioevo e si sminestrano da sempre tutte le rogne di cosiddetta amministrazione diretta, di utilità (si spera) per i cittadini. Le Regioni sono, e rischiano di restare, gli unici feudi in cui certa sinistra può sperare di comandare, e di fare il bello e cattivo tempo. Restano le Province, anche se chi ha un minimo di istruzione sa che a toccarle si va contro la storia, oltre che contro il buon senso.
Le Province le aveva inventate Napoleone, che a differenza di tante altre figure pseudo-storiche succedutegli aveva dimostrato di non essere proprio un cretino o un incapace. Dopo di lui generazioni di governanti più o meno illuminati vi si erano appoggiati per mandare avanti questa baracca non semplice di stato che ci ritroviamo. I Prefetti, rappresentanti del Governo in sede locale, hanno avuto finora incontestatamente base provinciale, et pour cause.
Non molti anni fa, un’altra delle parole d’ordine uscite dall’immaginario di chi si è trovato ad amministrare senza avere idea di cosa amministrava fu quella degli ambiti territoriali ottimali. In sostanza, in un territorio in cui a parte le grandi città tutto era amministrato da Comuni dal numero di abitanti irrisorio, si pensava (e forse per una volta non completamente a torto) che tante materie potessero essere gestite a livello più o meno provinciale con efficacia, dai rifiuti, all’acqua, alla protezione civile, alle bonifiche, alle coste. Non appena il principio fu codificato dalle prime leggi, una valanga di competenze fu rovesciata (spesso senza le adeguate risorse economiche e di personale) dalle Regioni sulle Province. Che da allora cercano, in sofferenza, di assolverle (si parla di uffici e di lavoratori addetti, non di politici, sia chiaro).
Per stare alla Toscana, la realtà che conosciamo meglio e che più ci interessa, che senso hanno le Province è chiaro a chiunque conosca anche sommariamente un po’ della nostra storia sia antica che moderna. Cosa vale peraltro la nostra classe politica lo si vede dai commenti, oltre che dall’atteggiamento complessivo. Non c’è stato uno dei politici locali che si sia alzato a criticare il decreto ammazza-Province, se non al limite per aver sfavorito Tizio piuttosto che Caio. La Toscana esce con le ossa rotte dal riassetto istituzionale operato da un governo che nessuno ha eletto e che dio solo sa (ma ci si può immaginare) a chi risponde (a proposito, ma le Province non erano organi a rilevanza costituzionale? E si possono sopprimere così, per decreto?).
E facile immaginare cosa succederà a Prato, che ritornerà a dipendere amministrativamente da Firenze. E’ altrettanto facile immaginare cosa succederà a un abitante di Massa che dovrà andare a fare un foglio in Provincia arrivando fino a Pisa, o a uno di Capalbio che dovrà risalire fino a Siena, o viceversa. Per non parlare di quell’ultimo prodotto del genio umano (di cui una volta la Toscana era fucina) che è l’Area Metropolitana. Non Londra, signori, non Parigi. Qui l’Area Metropolitana comprende Marradi, San Godenzo, l’Abetone. Fanno tutti parte della Greater Florence. Chiaro il concetto?
Qualcuno ha la pretesa di continuare a dire che la Toscana va avanti tutta. Qualcun altro in sede nazionale applaude alla vittoria del Movimento Cinque Stelle, senza riflettere su cosa e soprattutto su chi sta vincendo. Nessuno che si sia alzato come Fantozzi, che nel capolavoro di Paolo Villaggio, costretto ad assistere per motivi aziendali alla proiezione della Corrazzata Potemkim, alla fine sbotta e in un soprassalto di dignità grida: “Per me…..è una c……… pazzesca!”

Le sciocchezze in Italia sono spesso devastanti e inarrestabili. Ma anche la furia della gente presa in giro può esserlo. In questo paese non abbiamo mai fatto una rivoluzione, e questo è il nostro limite storico come popolo. Ma a tutto c’è una prima volta e non è il caso di fare troppi esperimenti.

ITALIA ANNO ZERO: E adesso, signor Presidente?

3 agosto 2013

La riunione dei parlamentari del PDL termina alla stessa ora in cui il giorno prima è stata letta da Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Corte di Cassazione, la sentenza che condanna definitivamente Silvio Berlusconi a un anno di galera e lo rinvia alla Corte d’Appello per l’interdizione dai pubblici uffici. E’ l’ora in cui cominciano i telegiornali su tutte le reti televisive, il momento migliore per annunciare la strategia di risposta del centrodestra. Dimissioni di tutti i parlamentari PDL consegnate nelle mani di Berlusconi, a sua disposizione. Richiesta della grazia da parte del Capo dello Stato, in caso contrario, fine della legislatura e nuove elezioni.
In sintesi, terminata l’epoca delle udienze, delle tattiche processuali e dei rinvii, il centrodestra si trova a dover prendere in fretta una decisione da cui dipende il suo futuro, la sua stessa esistenza in vita. Lo può fare, perché il suo leader anche se condannato ha ancora tutte le carte migliori in mano. A differenza del centrosinistra, la cui sopravvivenza è altrettanto e più in discussione, ma che non ha una strategia unitaria, anzi non ha proprio una strategia ed è caduto subito nella trappola tesagli da un Berlusconi tutt’altro che messo in crisi dalla sconfitta giudiziaria.
Così, Schifani e Brunetta, cioè i capigruppo PDL di Camera e Senato, dichiarano di avere l’intenzione di salire il Colle per chiedere a Napolitano la grazia, e “il ristabilimento di condizioni democratiche” minate dai giudici. Il Presidente della Repubblica, nel frattempo, avrebbe già fatto sapere in via ufficiosa (e improvvida) di non ritenere esistenti i presupposti giuridici per la concessione di tale grazia. Berlusconi nello stesso momento chiarisce di non aver ancora preso una decisione definitiva e irrevocabile, ma la tentazione è quella di resistere, di far sì che il governo delle larghe intese cada e che si bandiscano presto nuove elezioni (per le quali non sarebbe interdetto, non ancora), con prospettiva di vincerle almeno a stare ai sondaggi.
Quello che Berlusconi non dice, è di avere l’intima convinzione che ancora una volta per arrivare ai suoi obbiettivi non dovrà fare nulla di particolare, meno che mai forzare la mano. Sarà il centrosinistra a dargli come sempre una mano, accelerando il processo di martirizzazione della sua persona e togliendo gli ultimi puntelli alla situazione attuale, gettandosi a capofitto verso nuove, rovinose per lui consultazioni elettorali.
Mentre Letta tace più preoccupato di quello che vuol dare a vedere e Napolitano lascia che filtrino segnali poco rassicuranti, tocca al nuovo ed al vecchio segretario dei democratici gettare benzina sul fuoco che già divampa. Epifani chiede a gran voce che il Senato deliberi al più presto l’estromissione del condannato Berlusconi. Bersani chiede addirittura al PDL di separare il proprio destino da quello del suo leader fondatore (non sapendo o fingendo di non sapere che se c’è qualcosa che può ricompattare il centrodestra come una falange è la messa in discussione della figura di Silvio Berlusconi). Nessuno dei due sa dire quali voti andrebbero a sostenere il governo Letta venuta meno la fiducia del centrodestra, ma molti – come la pasionaria Rosy Bindi – rincarano anzi la dose.
Anche Grillo rincara la dose, ma ormai la sua strategia è "tanto peggio, tanto meglio", e poco altro. Sa benissimo che in questo marasma politico-istituzionale la Costituzione non corre rischi, figuriamoci la riforma della giustizia. Sa piuttosto, o spera, di poter essere uno dei beneficiari di nuove elezioni. Che poi stia ereditando sempre di più la strategia omissiva ed esclusivamente antiberlusconiana del Partito Democratico è altra questione, finché nessuno gli presenterà il conto (e può farlo solo l’elettorato) per lui va bene così.
Tace Renzi, un altro dalla strategia omissiva, che però se la sta vedendo assai complicare da questi sviluppi giudiziari. Chi non tace, e magari sarebbe l’ora che lo facesse recuperando un po’ di quell’aplomb anglosassone che viene meno regolarmente quando si occupa di cose italiane, è il Financial Times, che titola senza mezzi termini “E’ calato il sipario sul buffone di Roma”.

Si aspettano dunque le decisioni del Colle. Napolitano sapeva a cosa andava incontro accettando un secondo mandato. Chi ha voluto la bicicletta, è giusto che pedali. E il momento è venuto.

RENZIADE: Draghi “commissaria” l’Italia

La frase è di quelle, lapidarie, che da Giulio Cesare a Napoleone hanno, a dar retta ai libri di storia, deciso inesorabilmente, brutalmente e bruscamente come lo sparo di un fucile i destini di interi popoli: "Per i Paesi dell'Eurozona è arrivato il momento di cedere sovranità all'Europa per quanto riguarda le riforme strutturali". 
Mario Draghi non parla “a schiovere”, né per indole personale né per ruolo istituzionale. Quando parla, annuncia la politica dell’Unione, decisa dall’unica istituzione europea realmente funzionante. “Vuolsi così colà dove si puote”, la Banca Centrale Europea, con un rialzo di tassi, una misura antiinflazione o anche l’invio di una semplice lettera (come sappiamo bene noi italiani) può decidere la sorte di uno o più Stati membri, riottosi o semplicemente neghittosi.
Il principio è generale, è giunto il momento di passare ad una Unione politica che superi i particolarismi e le inefficienze nazionali. Ma và da sé che per motivi squisitamente di attualità i riflettori della B.C.E. siano puntati proprio sul Belpaese. "Uno dei componenti del basso Pil italiano è il basso livello degli investimenti privati". Peggio, tutto è dovuto "all'incertezza sulle riforme, un freno molto potente che scoraggia gli investimenti". E’ arcinoto che l’Italia non attira più gli investimenti privati per l’arretratezza delle sue strutture ed infrastrutture, nonché la farraginosità e assurdità delle sue normative e delle sue procedure e burocrazie. E’ un fatto assodato, dice Draghi, che "i Paesi che hanno fatto programmi convincenti di riforma strutturale stanno andando meglio, molto meglio di quelli che non lo hanno fatto o lo hanno fatto in maniera insufficiente".
L’Italia è una volta di più il “ventre molle” del continente, la cartina di tornasole della sua crisi, il suo caso limite. L’italiano Mario Draghi pensa al suo paese d’origine quando decreta la fine delle sovranità nazionali. E passa una palla pesantissima alle istituzioni politiche comunitarie, che dovranno riflettere sulle sue parole oltre che sulle proprie scelte.
In giornata arrivano infatti due notizie che definiscono un quadro se possibile ancora più drammatico rispetto a quello dipinto da Draghi. Matteo Renzi ridimensiona le affermazioni del presidente della B.C.E., dicendo che riguardano tutta l’Eurozona e non solo il suo paese. Già, ma Germania, Francia o Gran Bretagna non hanno bisogno in questo momento di riforme costituzionali, mentre l’Italia sì, e da quelle dipendono drammaticamente le riforme successive. Se non si sbarazza di una partitocrazia parassitaria di cui il Senato è solo la punta dell’iceberg, l’Italia non rinnova le sue norme, le sue procedure, le sue burocrazie, le sue economie. E muore.
Il presidente Renzi fa orecchi da mercante, ma non può non essere consapevole di essere sotto l’occhio delle telecamere comunitarie, con la sua battaglia per la riforma istituzionale impantanata in quel Senato che dovrebbe autoriformarsi, e che invece contratta una ritirata casa per casa, privilegio per privilegio come i nazifascisti a Firenze nel 1944, in giorni d’agosto molto più caldi di quello attuale. Vecchi arnesi della partitocrazia come Vannino Chiti tengono in scacco il Rottamatore, che non può non ostentare comunque ottimismo e nonchalance rispetto a tutto, comprese le parole di Draghi, perché come sempre succede ai grandi riformatori (o presunti tali), chi si ferma è perduto.
L’altra notizia è che la Russia di Putin reagisce alle sanzioni pedissequamente applicatele dall’Unione Europea con l’embargo sui prodotti agroalimentari comunitari, in attesa di presentare il conto complessivo il 1° novembre, quando da Lisbona a Kiev, dal Manzanarre al Reno i bravi cittadini europei andranno ad accendere come di consueto i riscaldamenti. Per l’Italia è – dal giorno alla notte – un danno di 700 milioni di euro.
Tralasciando ogni considerazione su scelte politiche decise laddove (leggasi Washington) problemi di approvvigionamento energetico non sussistono, le cifre comunque parlano da sole. Saltano non solo i calcoli del governo in carica circa le percentuali di crescita del Pil, ma probabilmente salta anche il quadro politico se il presidente non porta a casa qualche risultato reale. Qualcosa di più per esempio del baratto di 300 senatori con non si sa bene quante migliaia di consulenti e dirigenti a contratto della pubblica amministrazione, che costano al sistema poco meno e fanno altrettanto danno.
Oggi è l’anniversario di Marcinelle, un nome sinistro che gelava il sangue ai nostri nonni e ai nostri genitori, la più grande tragedia dell’emigrazione italiana, il primo e a tutt’oggi più alto tributo richiesto dall’Europa Unita (allora Comunità del Carbone e dell’Acciaio, era il 1956) ai suoi cittadini lavoratori, 136 italiani e 95 belgi.

Quanta gente è morta per fare prima questo paese e poi questa comunità europea! Pare brutto proprio oggi, proprio in questi giorni pensare che si stava meglio quando si stava peggio. Che cento anni fa come adesso una persona a Corte può decidere con un proclama della nostra sorte. E non è neanche detto che sia la sorte peggiore.