venerdì 31 gennaio 2014

Alinari chiude con Robert Capa

E’ l’ultima mostra del Museo Nazionale Alinari della Fotografia, così come l’abbiamo conosciuto. Il Museo, inaugurato nel 1985 dall’allora presidente della repubblica Sandro Pertini presso l’ospedale di San Paolo in Piazza Santa Maria Novella a Firenze, il prossimo 30 aprile entrerà nella Notte Bianca fiorentina come M.N.A.F. e ne uscirà come parte integrante del nuovissimo Museo del Novecento, il complesso con cui il sindaco Matteo Renzi ha dichiarato di voler rilanciare la corretta fruizione dell’Arte non solo a Firenze ma in tutto quel paese che un domani potrebbe trovarsi a governare.
Il vecchio Alinari dunque chiude in bellezza con la mostra dedicata ad un grande artista di quel Novecento. Un artista che per dar vita alla sua arte usava uno strumento tipico del mondo moderno, la macchina fotografica. Endre Erno Friedmann era nato in Ungheria nel 1913 e aveva dovuto abbandonarla ancora adolescente perché le sue idee filocomuniste e le origini ebraiche l’avevano reso inviso al governo di estrema destra insediatosi in quel paese dopo la Prima Guerra Mondiale. Emigrato in Germania e da qui dopo l’avvento del Nazismo prima in Francia e poi negli Stati Uniti, aveva incontrato dapprima la fotografia e quindi adottato il nome d’arte con cui sarebbe diventato famoso in tutto il mondo in segno di omaggio al suo regista cinematografico preferito, Frank Capra.
Come Robert Capa, divenne ben presto famoso per i suoi reportage fotografici dai luoghi del mondo dove si faceva la storia, negli anni terribili in cui i dittatori la scrivevano con il sangue di milioni di persone. Nel 1936 la storia si faceva nella Spagna sconvolta dalla Guerra Civile scoppiata per la sollevazione di Francisco Franco contro il governo del Fronte Popolare di sinistra. Con le sue foto riuscì a trasmettere al mondo intero l’esatta dimensione e la profonda emozione di quanto stava avvenendo come pochi reportage scritti furono in grado di fare.
La foto del miliziano colpito a morte dai franchisti divenne l’emblema della Guerra di Spagna al pari di Guernica di Pablo Picasso o di Per chi suona la campana di Hernest Hemingway. Alla fine di quella guerra, la Spagna era passata con Franco vittorioso nel campo delle dittature, Capa invece passò negli Stati Uniti in cerca di una sopravvivenza che nemmeno la sua fama mondiale in Europa poteva più assicurargli.
Nel luglio 1943 Robert Capa era in Sicilia a documentare per la rivista Life lo sbarco anglo-americano che mise l’Italia fuori dalla guerra. A Palermo, avrebbe raccontato, “lungo il percorso verso il centro della città la strada era fiancheggiata da decine di migliaia di siciliani in delirio che agitavano fazzoletti bianchi e bandiere americane fatte in casa con poche stelle e troppe strisce. Avevano tutti un cugino a Brook-a-lee". Ero stato all'unanimità riconosciuto come siciliano dalla folla in festa”.
La celebre foto del soldato americano e del contadino siciliano
Quasi un anno dopo, il 6 giugno 1944 era ad Omaha Beach nella prima ondata verso la testa di sbarco più sanguinosa di tutta l’Operazione Overlord, lo Sbarco in Normandia. Furono poche le sue foto sopravvissute a quella giornata terribile e decisiva, ma documentano efficacemente tutta la drammaticità del D-Day. Era un temerario per quanto era grande come fotografo Robert Capa, e al momento di attraversare il Reno per lanciare l’assalto finale alla Germania l’esercito americano lo annoverò fra i paracadutisti che si lanciarono avanti alla fanteria. Invece del Garand M1 d’ordinanza lui aveva la sua fotocamera 35 mm con cui produsse l’ennesimo reportage d’eccezione.
A un uomo così non poteva bastare dopo la guerra di aprire a Parigi l’agenzia fotografica più famosa del mondo, la Cooperativa Magnum, insieme a Henri Cartier-Bresson e altri mostri sacri di quell’arte. Né di essere arruolato nientemeno che da Alfred Hitchcock o John Houston come fotografo di scena in alcuni dei loro più celebri capolavori. Robert Capa andava dove c’era pericolo, perché era lì che si scriveva la storia.
Quando scoppiò la Prima Guerra di Indocina, quella al termine della quale il Vietnam ebbe l’indipendenza dalla Francia, Capa corse laggiù, aggregandosi alle truppe coloniali francesi. La fortuna gli presentò il conto il 25 maggio 1954 a Thai Bihn nei pressi di Hanoi, allorché mise il piede su una mina antiuomo. La Francia aveva già perso ormai la sua colonia dopo la rovinosa sconfitta di Dien Ben Phu. Il mondo perse il suo più grande artista della macchina fotografica.
Gli Alinari si apprestano a confluire nel grande Museo del Novecento celebrando il più grande fotografo del Novecento dal 10 gennaio al 23 febbraio 2014. La mostra presenta 78 foto in bianco e nero scattate durante la Campagna d’Italia tra il 1943 ed il 1944.

Capa sapeva che cosa cercare e che cosa farne dopo averlo trovato. Sapeva, ad esempio, che non si può ritrarre la guerra, perché è soprattutto un'emozione. Ma lui è riuscito a fotografare quell'emozione conoscendola da vicino.(John Steinbeck).


Uno dei desideri più forti del fotografo di guerra è quello di rimanere disoccupato. Non è sempre facile stare da un lato e non essere capace di fare altro che documentare la sofferenza intorno a sé” (Robert Capa).

domenica 26 gennaio 2014

Il mestiere delle armi

Ciò che dà valore alla guerra è la vittoria”, scrive Sun Tzu nella sua Arte della guerra, la bibbia insuperata – dopo 2.500 anni – per tutti coloro che si occupano di cose militari. Ci sono figure consegnate alla storia come eroi positivi solo perché la loro parte è stata quella che ha vinto, ai loro tempi. La storia, si sa, è sempre scritta da chi vince, non foss’altro perché è sopravvissuto. E chi vince esalta i propri eroi, difficilmente quelli del nemico vinto. Ci sono altre figure invece che passano alla posterità come negative, fanatici, assassini, incapaci, magari soltanto perché hanno combattuto dalla parte sbagliata, o almeno da quella che è risultata tale. Difficile dare il giusto spessore ai personaggi storici soprattutto a quelli che lo sono diventati da poco tempo e non hanno potuto ancora beneficiare del tempo galantuomo, ciò che nella maggior parte dei casi aggiusta le prospettive e ristabilisce le verità.
Quando si arrese nella primavera del 1974, circa 30 anni dopo la sconfitta del suo paese nella Seconda Guerra Mondiale, Hiroo Onoda fu sbrigativamente rubricato come uno degli ultimi esemplari di quel fanatismo portato alle estreme conseguenze che aveva condotto il mondo sull’orlo della catastrofe, quando l’ottusità nipponica e prussiana avevano preso il sopravvento impadronendosi delle menti e dei cuori di popoli altrimenti civili e avevano incendiato e devastato quasi ogni angolo del pianeta.
Nel 1944, il Giappone imperiale sentiva avvicinarsi la sconfitta, anche se non lo ammetteva esplicitamente a se stesso. Gli americani si erano ripresi rapidamente da Pearl Harbor e dopo tre anni stavano riconquistando tutto il Pacifico con la tecnica del “salto della rana”, da un’isola all’altra, e avvicinandosi pericolosamente alla madrepatria. Lo stato maggiore nipponico ricorse al tipico espediente della disperazione: infiltrare dei guerriglieri dietro le linee nemiche per compiere azioni di disturbo che ne rallentino l’avanzata.
Hiroo Onoda era stato addestrato per quello a Nakano, la scuola dei soldati fantasma. Fu spedito a Lubang, nelle Filippine, ad unirsi ai guerriglieri che avrebbero dovuto colpire alle spalle gli americani. Ma questi ormai correvano in discesa. Nel febbraio 1945 un attacco massiccio statunitense annientò il commando giapponese. Ne rimasero tre, tra cui Onoda, che decisero di mantenersi fedeli agli ordini e continuare una guerra personale. Il Giappone firmò la resa il 2 settembre di quell'anno nelle mani del generale McArthur, a bordo della corrazzata Missouri alla fonda nella baia di Tokyo. Il figlio del sole, l’Imperatore Hirohito, fu costretto a rinunciare alle sue pretese divine e a ordinare al suo popolo di riconvertirsi alla democrazia ed al mondo moderno, anche sulla spinta non indifferente delle due bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Nessuno si preoccupò sul momento dei fantasmi rimasti su alcune isole del grande oceano a coltivare il loro sogno estremo di fedeltà agli ordini ricevuti.
Poi, quando le popolazioni locali segnalarono diversi incidenti causati da questi guerriglieri che si mantenevano razziando e sparando, le autorità si posero il problema di individuarli e catturarli. I due compagni di Onoda furono abbattuti tra il 1954 ed il 1972. Nel frattempo, Onoda era stato dichiarato legalmente morto in Giappone, salvo poi essere fatto oggetto da una campagna finalizzata a ritrovarlo e a convincerlo ad arrendersi che coinvolse il padre, la sorella e tutta la famiglia. Alla fine, fu il vecchio maggiore Taniguchi, il suo ex comandante, a convincerlo. Onoda tornò in patria dopo 30 anni, accolto come un eroe dal governo del Giappone democratico.
E’ morto pochi giorni fa, a 91, dopo aver vissuto la seconda parte della sua vita come cittadino brasiliano. Il Giappone moderno era troppo per lui, non vi si riambientava. Il suo libro di memorie No surrender, i miei trent’anni di guerra, diventò un bestseller mondiale. Ha finanziato una scuola per bambini in Giappone e ha donato 10.000 a una scuola elementare a Lubang, l’isola che per trent’anni aveva terrorizzato come fantasma. Se n’è andato portandosi via il record di penultimo soldato nipponico ad arrendersi. L’ultimo era stato, a fine 1974, Teruo Nakamura, scoperto e arrestato a Taiwan ma morto pochi anni dopo per un cancro ai polmoni. Era sopravvissuto a una guerra mondiale e a trent’anni vissuti come Tarzan, ma non aveva retto di fronte al vero male del XX° secolo.
Pochi giorni prima di Natale se n’è andata un’altra figura controversa e singolare del secolo delle guerre mondiali. L’ex generale dell’Armata Rossa Mikhail Timofeevic Kalashnikov era un eroe dell’Unione Sovietica. Figlio di contadini siberiani, aveva 22 anni quando Hitler attaccò il suo paese con l’Operazione Barbarossa e per poco non lo mise in ginocchio, a causa della testardaggine con cui Stalin si rifiutò di credere ai rapporti delle spie che lo mettevano sull’avviso e delle purghe che avevano decimato i quadri degli ufficiali superiori della stessa Armata Rossa. Fu ferito in combattimento nell’ottobre 1941 e quindi destinato alle retrovie, a Mosca, dove gli fu affidata la progettazione dei carri armati. Il breve tempo trascorso al fronte gli era stato sufficiente per constatare l’impreparazione dei soldati russi, soprattutto nel campo degli armamenti. Qualche burocrate di partito di cui la Russia comunista sembrava pullulare aveva deciso poco prima della guerra che le armi a ripetizione non si confacevano all’esercito sovietico.
Ci mancò poco che i nazisti facessero un sol boccone dell’Unione Sovietica. La Grande Guerra Patriottica finì bene per l’U.R.S.S., malgrado 22 milioni di morti che avrebbero potuto essere evitati con una migliore preparazione. Fu nell’immediato dopoguerra e nell’insorgere della nuova Guerra Fredda con gli U.S.A. che Kalashnikov dette il suo contributo alla sicurezza del suo popolo e del suo regime, dando i natali al fucile a ripetizione che da allora avrebbe portato il suo nome e sarebbe diventato il più famoso – e utilizzato - del mondo. L’AK 47 (Avtomat Kalašnikova obrazca 1947 goda) fu subito adottato dall’Armata Rossa nei mesi in cui questa si disponeva ad affrontare un nuovo letale nemico, l’esercito americano.
LA carriera di Kalashnikov non ebbe più limiti, anche se non gli fu permesso di brevettare la sua invenzione, né tantomeno di sfruttarne i diritti d’autore. Eugene Stoner ha guadagnato un dollaro per ogni fucile M16 venduto all’esercito americano. Kalashnikov era destinato ad avere altre soddisfazioni, non certo quelle economiche che il sistema sovietico non consentiva. L’AK 47 conquistò un mercato vastissimo. L’arma era fatta apposta per diventare la preferita di eserciti, guerriglieri, terroristi e manovalanza della criminalità organizzata di tutto il mondo: costruita per funzionare alla perfezione alle temperature estreme del territorio russo, era di facile utilizzo ed ancor più facile manutenzione. Non precisissima, ma in fondo doveva sparare a raffica, e peraltro non si inceppava mai.
Il vecchio soldato che ha contribuito all’arte della guerra con un ordigno di pari importanza a quello messo a punto a Los Alamos da Oppenheimer e gli altri scienziati del Progetto Manhattan, se n’è andato a 94 anni a Izevsk, la sua città natale divenuta nel frattempo la capitale della repubblica di Udmurtia, una delle tante nate dal disfacimento dell’Unione Sovietica. Il generale non ha mai avuto dubbi sulla sua creatura: fu creata per difendere la sua patria, e pazienza se è finita e finisce tutt’ora in mano ai peggiori delinquenti e farabutti.
Nel 2002, aveva ricevuto i complimenti più graditi proprio da colui che aveva creato il prodotto che si era rivelato il concorrente più formidabile del suo AK 47. L’israeliano Uzi Gal, inventore dell’omonimo fucile, gli aveva confessato: “Lei è il più ineguagliabile e competente costruttore di armi”. L’U.R.S.S. ha perso la Guerra Fredda, ma il suo fucile a ripetizione ha vinto tutte le sue sanguinose battaglie.

martedì 21 gennaio 2014

RENZIADE: ITALICUM, Renzi e Berlusconi presentano la nuova legge elettorale


Abbiamo trascorso vent’anni a discutere, e in certi momenti a scannarci, su quale fosse il sistema elettorale migliore per un sistema politico ed un paese perennemente alla ricerca della propria identità e di una migliore funzionalità. Meglio il maggioritario secco anglosassone oppure i correttivi alla spagnola o alla tedesca corredati di sbarramenti vari, o meglio ancora il doppio turno alla francese. Sapevamo soprattutto cosa non volevamo più: la vecchia legge elettorale presentata nel 1946 da quel galantuomo di Ferruccio Parri, ultimo Presidente laico del Consiglio prima del quarantennio democristiano, che con il proporzionale aveva inteso permettere che tutte le forze politiche democratiche vissute in clandestinità nella lunga notte fascista e nei pericolosi anni della Resistenza potessero avere la loro esatta rappresentanza in Parlamento.
Quel sistema aveva consentito la nascita della Prima Repubblica, ma ne aveva alla fine provocato anche la morte. Il sistema dei partiti, la cosiddetta Partitocrazia, aveva sguazzato nella palude proporzionalista, dove liste che non raggiungevano neanche l’1% dei seggi a disposizione risultavano a volte essere l’ago della bilancia, con conseguente ingovernabilità e incentivo massimo alla corruzione. Il referendum del 1993, tenutosi sull’onda di Mani Pulite e della fine della maggior parte dei vecchi partiti usciti dalla Resistenza partigiana, disse chiaramente che gli italiani quel sistema non lo volevano più.
Toccò al senatore Sergio Mattarella, uno degli ultimi notabili di quella Democrazia Cristiana che di lì a poco avrebbe esalato l’ultimo respiro e attuale membro di quella Corte Costituzionale che di recente ha di nuovo mandato a monte le regole del gioco elettorale, presentare la legge che Giovanni Sartori gli avrebbe intitolato, come si usava nell’antichità con gli Eponimi, i funzionari pubblici che essendosi particolarmente distinti finivano a dare il nome ad una legge o ad un particolare periodo in cui erano stati in carica. Il Mattarellum si inchinò alla volontà maggioritaria del popolo italiano, fino al 75% dei seggi. Il restante 25% il vecchio democristiano non resistette a dirottarlo su una quota proporzionale superstite, che nelle intenzioni sue e dei suoi colleghi di tutto l’arco costituzionale di allora doveva assicurare la sopravvivenza – o almeno un pronto ritorno in auge – della vecchia nomenklatura della prima Repubblica.
La Seconda Repubblica ne risultò ingovernabile quasi quanto la Prima. Tanto che l’uomo politico più carismatico di quegli anni, Silvio Berlusconi, poté affermare alla fine del suo lungo periodo di leadership di “non aver avuto i numeri” per attuare molte delle riforme da lui e dalla sua parte politica auspicate, anche quando aveva maggioranze apparentemente di tutto rispetto. E’ un fatto che nel Parlamento sia di centrodestra che di centrosinistra erano rappresentate più forze politiche di quante ce ne fossero mai state ai tempi dei governi di Pentapartito a guida D.C., il record massimo fu di quattordici, alla faccia del Maggioritario. Il primo governo Prodi si reggeva su un voto di maggioranza in senato, che rendeva fondamentale la presenza in aula di prestigiosi quanto attempati senatori a vita di dichiarata ispirazione di centrosinistra.
Nel 2005, dopo vari tentativi infruttuosi bicamerali e bipartisan di riforma della carta costituzionale e di leggi fondamentali quale quella appunto elettorale, la maggioranza di centrodestra decise di agire per conto proprio, anche nella prospettiva di una probabile affermazione dell’opposizione alle elezioni successive, intendendo così consegnarle nelle mani uno strumento governativo difficilmente agibile. In sostituzione del Mattarellum venne quindi approvata la legge 270/2005, presentata dal senatore leghista Calderoli, non proprio un costituzionalista. Dovendo nobilitarla con un latinismo come ormai consuetudine, non si trovò di meglio che rifarsi alla stessa definizione con cui Calderoli aveva battezzato la sua creatura appena nata: “E’ una porcata”, disse il novello papà. E da allora la legge fu il Porcellum.
Liste bloccate redatte dalle segreterie di partito, premi di maggioranza assegnati su base regionale senza alcun criterio di insieme e senza logica né politica né tantomeno democratica, insieme ad altre amenità per farla breve hanno prodotto un sistema elettorale dove chi vince alla Camera difficilmente vince anche al Senato (se non per la solita manciata di voti risicata dio solo sa come nello scrutinio delle ultime schede, quelle dei residenti all’estero o quelle dei soliti seggi ritardatari – manco a farlo apposta – di Roma e dintorni).
Il gioco, per quanto difficile, ha retto bene o male un paio di soffertissime (per gli italiani, non certo per i loro rappresentanti) legislature. Per saltare definitivamente nel 2013 allorché è entrata in un Parlamento fino allora bipartisan - anche se a livello di coalizioni - la proverbiale terza forza incomoda, quel Movimento 5 Stelle che ha costretto la classe politica più riottosa e neghittosa della storia europea recente a fare i conti con una nuova marea popolare montante, di quelle che in Italia con alterne fortune si affacciano a scadenza più o meno ventennale.
Ecco dunque il gioco delle parti. Il Presidente della Repubblica incarica un governo di coalizione, di “larghe intese” tra destra e sinistra, di insediarsi a Palazzo Chigi a condizione di fare riforme che nessuno in realtà ha voglia di fare, e non consente di fatto alternative a quel governo minacciando di dimettersi (il che, come si è visto nei giorni delle votazioni per la sua successione, sarebbe esiziale per almeno due dei tre partiti rappresentati in Parlamento). E’ un’impasse che fa rischiare l’osso del collo al Paese, alla sua economia ed in ultima analisi alla sua stessa democrazia.
Finché a fine 2013 succedono due cose. Dapprima viene fatto accomodare fuori dal Parlamento il leader del centrodestra, perché ci si accorge dopo vent’anni che era incompatibile con la rappresentanza politica. Poi viene fatto accomodare alla segreteria del maggior partito di centrosinistra il sindaco di Firenze, dopo averlo osteggiato in ogni modo negli anni precedenti ed essersi poi resi conto che si è trattata – ci si perdoni il termine fantozziano – una boiata pazzesca.
Il vecchio e il nuovo leader, ambedue a vario titolo desiderosi di riprendere o rafforzare una leadership su un sistema in cui peraltro restano ormai come le uniche due figure politiche che hanno un appeal sulla gran massa dell’elettorato (se si esclude quel Beppe Grillo che ha rinunciato in partenza alla rappresentanza e ad altre cose che ne farebbero un capo politico di ben altro spessore), ci hanno messo poco più di un mese a spazzare via rispettivi tabù che duravano dalla notte dei tempi e a trovare un accordo politico fondante, l’unico peraltro possibile.
Secondo le parole di Renzi, che Berlusconi ha pubblicamente sottoscritto, avremo dunque l’Italicum. Maggioritario con premio al partito o alla coalizione che superano il 35%, la cui entità non può superare il 20% fino ad un complessivo 55%. Ballottaggio alla francese se nessuno supera quel 35%.  Soglia di sbarramento dal 5 all’8% (in caso di partito singolo o di coalizione) e liste ancora bloccate, ma a detta di Renzi non più decise dai vertici di partito ma da apposite primarie.
La reazione del Resto del Mondo, come possiamo chiamarlo con termine calcistico, è stata quella prevedibile. Much ado about nothing, come diceva Shakespeare, molto rumore per nulla. Dopo gli strepiti di Alfano e Lupi e le dimissioni di Cuperlo che doppiano quelle di Fassina, sta rapidamente arrivando il tempo dei “più miti consigli”. Quei due, il vecchio e il giovane, andranno a dritto, forti di un consenso popolare che al momento non è contrastabile. Metteranno con le spalle al muro i rispettivi e infidi apparati di partito e quel Movimento 5 Stelle che ha sprecato l’occasione storica di guidare il cambiamento.
Non moriremo Porcellum. Avremo l’Italicum, e forse chissà, non moriremo neanche. Di sicuro questa è l’ultima chance per la nostra Repubblica, qualunque numero essa avrà.

sabato 18 gennaio 2014

Chewbecca su Twitter: Amarcord Guerre Stellari

In attesa di ritrovarsi, vecchi e nuovi fans, al cinema per Episode Seven, a quasi dieci anni dall'ultima fatica di George Lucas, la Rete offre a tutti coloro che si sono persi per sempre nell'universo di Guerre Stellari un tuffo nella nostalgia attraverso la pubblicazione di una collezione fotografica che farà la gioia sia di chi era ragazzino all'epoca in cui quegli scatti furono presi, sia di chi è ragazzino adesso e ha sentito raccontare da padri e altri adulti di "tanto tempo fa, in una Galassia lontana...".


Una quarantina di anni fa circa (come vola il tempo, più di un balzo nell'Iperspazio), Peter Mayhew era un giovane attore in cerca di fama, al pari dei suoi colleghi Mark Hamill, Carrie Fisher, o di quell'Harrison Ford che si era appena fatto conoscere per una comparsata in American Graffiti. Usciti tutti da una selezione durissima condotta personalmente da George Lucas, a questi ragazzi fu offerta rispettivamente la parte di Luke Skywalker l'ultimo dei Cavalieri Jedi, di sua sorella la Principessa Leia Organa e di Han Solo lo spavaldo comandante del Millenium Falcon. 
A Mayhew, opportunamente truccato con una mìse che sarebbe diventata leggendaria, toccò la parte del copilota di quella leggendaria astronave, il simpatico Wookie Chewbecca dal simpatico barrito, la creatura contro cui non bisogna mai vincere a scacchi perché "ha l'abitudine di staccare le braccia agli avversari quando perde".
A distanza di 40 anni e sei film, in quattro dei quali appare come protagonista (il più longevo dei characters assieme a Anakin Skywalker – Darth Vader e a Obi Wan Kenobi), Peter Mayhew ha deciso di pubblicare gratuitamente sul suo account Twitter una serie di scatti privati, presi da lui e da altri compagni di quella avventura sul set dei primi Star Wars. Lo slideshow è emozionante, non solo perché provoca un tuffo al cuore a tutti coloro per i quali – per ragioni anagrafiche – costituisce un balzo all'indietro nella propria adolescenza ed in quello che ne fu il capolavoro cinematografico forse più innovativo e affascinante, ma anche perché offre una retrospettiva di quegli attori allora semisconosciuti che sarebbero diventati divi immortali grazie a quel film del 1977 e ai sequels, tutti colti in momenti di relax o di pausa dalle riprese.
Ci sono delle autentiche perle, come la foto di George Lucas abbracciato a Darth Vader, o quelle della bella Carrie Fisher (tormentata figlia d'arte, sua madre era la diva anni 50 Debbie Reynolds), colta in vari momenti di relax o di scherzo con gli altri protagonisti. Quelle che ritraggono trucchi di scena, come la cinepresa che riprende il rullo che scorre con la didascalia iniziale che introduce il primo episodio (il quarto della serie, in realtà) come ognuno dei successivi. 
O il modellino del Millenium Falcon che viene fatto volare in mezzo al campo di asteroidi, dove avviene il celebre scambio di battute tra C3PO e Han Solo: «Signore, la possibilità di navigare con successo in un campo di asteroidi è circa una su tremilasettecentoventi!!» avverte il robot, «Non ti ho chiesto pronostici», risponde l'umano.

Che la Forza – e la nostalgia – siano con voi.

RENZIADE: Storico incontro Renzi-Berlusconi, ovvero le Speranze d'Italia


Flavio Pietro Sabbazio Giustiniano, imperatore romano d'oriente, è passato alla storia come Giustiniano il Grande per tanti motivi. Per essere stato il promotore di una vera e propria età dell'oro dell'impero romano superstite, quello orientale, ultimo sovrano di lingua e cultura latina e primo monarca di ispirazione greco-bizantina; per aver dato a Bisanzio-Costantinopoli l'impronta architettonica poi conservata per tutto il periodo imperiale fino alla conquista ottomana, e anche oltre, a cominciare da quel capolavoro che è Hagia Sophia, una delle meraviglie del mondo; per aver tentato con qualche successo di riunificare l'Impero Romano dei secoli gloriosi riconquistandone la parte occidentale caduta in mano ai Barbari. Ma soprattutto per aver perso la pazienza di fronte a quella babele che era diventato ai suoi tempi il diritto romano per la proliferazione di norme sempre meno coerenti e più particolaristiche nei secoli della decadenza.
Nel 535 d.C. Giustiniano consegnò al mondo antico il suo Corpus Iuris Civilis, la risistemazione della giurisprudenza greco-romana in un unico Codice, talmente ben costruito da arrivare ai giorni nostri come la base del codice civile e penale moderno. Nelle Facoltà di Legge si venera tutt'oggi Giustiniano come uno dei padri del Diritto, perfino in un paese come l'Italia che da sempre ambisce ad essere considerata di quel Diritto come la Madre. Tuttavia, il codice giustinianeo è rimasto nella storia malgrado fosse la celebrazione formale di una battaglia persa. Non fu un caso che bizantinismo nacque allora – in omaggio all'antico nome della capitale imperiale - come termine per designare un modo contorto di concepire politica, diritto e in ultima analisi viver civile.
Il diritto moderno si è sviluppato sugli effetti di una schizofrenia. Da una parte l'impianto culturale di una grande civiltà, quella romana, famosa soprattutto nella storia per aver dato ai popoli del mondo allora conosciuto e a venire la nozione stessa di Legge. Dall'altra la prassi distorta di una società precipitata negli intrighi di corte, nell'applicazione dell'unica legge sostanziale sopravvissuta di fatto ai Secoli Bui, quella del più forte, e resa appunto schizofrenica dalla necessità di trovare comunque una giustificazione morale, filosofica e religiosa a quello stato di natura retrocesso ai primordi, quello che fu definito dal grande filosofo inglese Thomas Hobbes dell'Homo Homini Lupus.
Questa lunga premessa è la concessione di chi scrive al tentativo di nobilitare con un fondamento storico l'ultima azione di un organo - di rango addirittura costituzionale - che a voler essere meno indulgenti (come il momento storico per la verità richiederebbe) si potrebbe definire una violenza carnale al diritto così come ce lo avevano consegnato i nostri antichi e gloriosi predecessori. Oltre che uno spregio al popolo sovrano a guardia della cui Carta Costituzionale, la fonte principale del diritto, sarebbe stata posta da dei costituenti assai fiduciosi.
Con sentenza n. 1 del 2004 la Corte Costituzionale ha reso pubbliche le motivazioni con cui ha messo fuori dell'ordinamento giuridico italiano la legge n. 270 del 2005, quella che conosciamo volgarmente - in tutti i sensi - come Porcellum, secondo la stessa definizione datane dal proponente, il senatore leghista Calderoli.
E' stata la legge elettorale con cui sono stati eletti gli ultimi tre Parlamenti, e non è cosa da poco per un popolo venire a sapere una bella sera che si è trattato di assemblee illegittime, incostituzionali. Non c'è alcun motivo per rimpiangere una siffatta legge, si badi bene. Ma è il modo di questa Corte – per dirla con il Manzoni – che ancor offende.
Una bella sera di due mesi fa, tanti ne sono passati, erano i giorni successivi alla decadenza di Berlusconi da senatore (nessuno annusa l'aria che tira più di un magistrato di lungo corso) e antecedenti all'elezione di Matteo Renzi il rottamatore a segretario del PD. Poi ci sono voluti, secondo costume inveterato, altri due mesi circa per il deposito di sentenza e motivazioni in cancelleria, per cui uno degli ultimi atti della Corte nel 2013 è finito per diventare il primo nel 2014.
Se uno ha la pazienza di leggere le oltre 15 pagine della sentenza, la ragione di un simile ritardo appare evidente. La traduzione in italiano moderno della lingua bizantina è un esercizio complicato, faticoso, e deve aver richiesto tutte le energie degli attempati giudici costituzionali, alcuni dei quali – come il buon Sabino Cassese – fanno danni ormai da diversi decenni. Se uno ha quella pazienza, e arriva comunque in fondo, si rende conto di come possa esser degenerato il nostro diritto dai tempi di Cicerone e Giulio Cesare, e malgrado la sistemazione del grande Giustiniano.
A differenza di altri consessi analoghi, come la Suprema Corte americana, la Corte Costituzionale non parla ad un popolo, con cui anzi rifiuta orgogliosamente e "costituzionalmente" ogni rapporto. Parla ad altri magistrati, che parlano lo stesso linguaggio, sacerdoti che celebrano misteri alla presenza di altri sacerdoti.
Del resto, questo era l'intento del Legislatore. La Corte interviene quando chiamata in causa da Corti di rango inferiore. Ci sono voluti otto anni perché di fronte a un qualunque Tribunale qualcuno si sentisse in diritto-dovere di eccepire la costituzionalità del Porcellum. Otto anni e tre legislature prima che un cittadino lamentasse di non aver potuto esercitare il suo diritto di voto "personale ed eguale, libero e segreto" come garantitogli dalla Costituzione e violato dalle liste bloccate decise dall'alto e dai premi di maggioranza.
Dopo tre gradi di giudizio, la Corte di Cassazione chiama in causa quella Costituzionale. Siamo arrivati in cima, nel momento in cui la Seconda Repubblica sta vacillando e tutto il Paese con lei. La Corte Costituzionale, vivaddio, ci mette quindici pagine di letteratura più o meno misteriosa per dire che quel cittadino ha ragione, le liste bloccate senza possibilità di preferenza e il premio di maggioranza su base regionale violano i principi costituzionali. Questa legge non ha posto nel nostro ordinamento perché ne viola dei principi essenziali, e pazienza che dai suoi meandri sono usciti gli ultimi tre Parlamenti, uno di centrosinistra, uno di centro-destra e uno non si sa di cosa, quello attuale. Per un malinteso principio di conservazione, gli atti prodotti da questi parlamenti illegittimi sono dichiarati dalla Corte perfettamente legittimi. Con buona pace dei padri e delle Madri del Diritto.
Si ritorna dunque al proporzionale, perché la 270 del 2005 decade solo per la parte che assegna i premi e regola la formazione delle liste. Del resto, il proporzionale è – per così dire – il modello base. Poi il popolo italiano ha scelto come accessori quelli del maggioritario, su cui a seguito dello storico referendum del 1993 c'è un dibattito – interessato - da vent'anni. Tocca al Parlamento, dice la Corte e grazie tante, fare una nuova legge. Lo dice la Corte (se uno ha la pazienza di decifrare dall'aramaico), lo dice il Presidente della Repubblica (che poi si inalbera se uno gli tocca il governo Letta, cioè la negazione di qualsiasi riforma), lo dicono le forze politiche presenti in Parlamento (che poi quella riforma in Parlamento non la fanno). E allora?
Serve qualcosa di nuovo. Ecco allora che il nuovo che avanza oggi decide di incontrare il nuovo che avanzava vent'anni fa. Matteo Renzi invita Silvio Berlusconi nella sede del PD. Fino a due mesi fa era più facile pensare al primo ministro israeliano che va a fare le vacanze d'estate a Gaza. Adesso Matteo invita e Silvio accetta.
Alle 18:30 del 18 gennaio 2014 lo storico incontro. Il vecchio leader anticomunista che fa lo storico primo ingresso nella sede dei post-comunisti. Il giovane leader dei post-comunisti e post-democristiani che lo accoglie a braccia aperte perché ha capito che quell'uomo è l'unico come lui veramente interessato a che tutto cambi non perché tutto resti come prima, come diceva invece il Gattopardo e come sperano tutti gli altri politici di questo Paese. Perché è l'unico che come lui vuole liberarsi della propria nomenklatura, prima ancora che di quella avversaria. Perché sono gli unici due che possono sperare di sopravvivere al confronto con la gente comune, se solo si liberano della rispettiva zavorra.
Dopo due ore di colloquio, e qualche contestazione in piazza e su Twitter di quelle forze minoritarie che non ci hanno messo molto a capire di cosa stanno parlando i due leader e che aria tiri per loro, si apprende che tra PD e Forza Italia c'è piena sintonia sulla legge elettorale. Per quanto la famiglia Letta – zio e nipote - aleggi sinistramente intorno a questo storico incontro, c'è aria di cambiamento epocale. Come per Attila e Leone I, come per Vittorio Emanuele II e Garibaldi, non sapremo mai esattamente cosa si sono detti il vecchio e il giovane oggi pomeriggio. Sapremo solo che da quel momento il mondo, almeno per noi italiani, non sarà stato più lo stesso.