mercoledì 30 novembre 2016

Triste y final



Chissà se Osvaldo Soriano, il celebre giornalista e scrittore argentino che più di ogni altro ha saputo avvicinare il calcio alla letteratura, avrebbe inserito la favola tragica della Chapecoense nei suoi Cuentos de Futebol. Avrebbe avuto anche un titolo già pronto, rielaborando quello di una delle sue opere più celebri: Triste y final.

Ci sarebbe voluta la sua penna, o quella di qualche altro letterato prestato al calcio come i nostri compianti Gianni Brera e Giorgio Tosatti, per rendere appieno il senso – se un senso c’è – di questo dramma umano e sportivo. Che rinnova tra l’altro, soprattutto a noi italiani, vecchie ferite mai del tutto rimarginate.
Ti chiami Associação Chapecoense de Futebol, e sei il tipico piccolo club della provincia brasiliana - vicino al confine sud con Argentina e Uruguay, un crocevia mistico del calcio – che pare fatto apposta per essere protagonista di un racconto di Soriano, o di una favola della Disney.
Fondato nel 1973, all’epoca in cui il sogno calcistico carioca non aveva limiti, dopo quarant’anni il tuo sogno personale si avvera, e ti qualifichi a partecipare in pianta stabile al mitico Campeonato Brasileiro di serie A. I tuoi avversari d’ora in poi si chiamano Palmeiras, Botafogo, Corinthians, Flamenco, Santos. Nomi che mettono i brividi soltanto a pronunciarli, figurarsi a trovarseli di fronte sul campo di gioco.
Non basta. Due anni dopo, pareggiando a San Lorenzo de Almagro, ti qualifichi per la finale della Copa Sudamericana 2016. Sei ad un passo dalla gloria, che ti aspetta il 28 novembre. E’ con questo pensiero che sali sul quadrimotore AVRO RJ 85 volo LaMia Airlines 2933 diretto all’aeroporto RionegroJosé Maria Cordoba in Colombia. Da lì poi a Medellin, dove ti aspetta l’Atletico Nacional per disputare la finale di andata della Coppa.
Non ci arriverai mai. Lo stesso destino che sembrava averti finalmente sorriso a 32 denti, portandoti sul tetto del Sudamerica e del mondo, ti aspetta al varco, beffardo. Sotto il sorriso splendente si nasconde un ghigno maledetto, osceno. Quello del Tristo Mietitore.
Le scatole nere del quadrimotore sono in fase di recupero. La disgrazia è avvenuta in una notte di forti piogge, che hanno ostacolato i già problematici soccorsi. Forse sapremo perché sei andato a schiantarti a Cerro Gordo, sulla montagna a 10 km. a sud di Medellin, o forse no. Quando si tratta di compagnie aeree, le versioni difficilmente convincono. Guasto elettrico, mancanza di benzina. Siamo nel 2016, si può morire ancora, nel fiore degli anni e ad un passo dal trionfo della propria giovinezza e dall’apoteosi sportiva, per una ragione come questa?
Pochi attimi prima, i ragazzi della Chape girano per l’aereo in preda al buon umore provocato in loro dalla consapevolezza di essere lassù in alto per un volo che sembra diretto verso l’infinito ed oltre. Pochi attimi dopo, non ci sono più. Dissolti, al pari del loro sogno. Restano soltanto dei video e delle foto a testimonianza imperitura. Sì, perché oggi la tecnologia e tale che non sei morto mai del tutto, nemmeno dopo morto.
Vengono in mente un'altra montagna ed un altro aereo. Allora era un trimotore, il FIAT G.212 delle Aviolinee Italiane. La collina era quella di Superga, il giorno – che nessuno in Italia dimenticherà mai, che fosse vivo allora o meno – è quello che spezzò il sogno, la leggenda più grandi del calcio italiano di tutti i tempi. 4 maggio 1949, il giorno che scomparve il Grande Torino. Non è un caso che la società granata sia stata la più tempestiva nel rappresentare il proprio cordoglio per la disgrazia a quella catarinense.
«È un destino che da oggi ci lega indissolubilmente, vi siamo fraternamente vicini», ha fatto scrivere il presidente Urbano Cairo a quello del club brasiliano, Plinio David de Nes Filho. Il quale, in lacrime davanti ai microfoni di Bom Dia Brasil, stava dicendo: «Il sogno della Chapecoense è finito stanotte».
Non esiste più una finale della Copa Sudamericana nell’agenda sportiva della CONMEBOL, la Federcalcio sudamericana. Come a Superga, come a Monaco di Baviera nel 1958 - allorché una delle semifinaliste della Coppa dei Campioni, il Manchester United di ritorno da Belgrado dove aveva eliminato la Stella Rossa, si schiantò sugli edifici circostanti l’aeroporto subito dopo il decollo - una delle due contendenti è venuta meno. E’ stata chiamata a giocare altrove.
Ma a quanto pare, il sogno della Chapecoense non finirà. Verrà tramutato direttamente in leggenda. E’ stato lo stesso Atletico Nacional di Medellin che avrebbe dovuto contendergliela, a proporre l’assegnazione della Coppa agli sfortunati avversari. La CONMEBOL ha già fatto sapere che è proprio quanto succederà. I nomi dei ragazzi della Chape saranno scritti nell’Albo d’Oro sportivo. Su quello della speciale classifica degli eroi grati agli Dei e per questo da loro chiamati ancor giovani, troppo giovani, ci sono di già.
La formazione si allunga. Ai nomi dei ragazzi di Torino e di Manchester si sono aggiunti quelli di Chapecò. La vita a volte fa scherzi davvero strani, immortala per sempre il tuo sorriso un attimo prima di strappartelo dal volto. E lascia dietro di te chi sopravvive a straziarsi per la stessa eternità con davanti agli occhi quel sorriso, quella gioia di vivere ancora inconsapevole, che nessuno può più togliersi dalla mente.

domenica 27 novembre 2016

Cuba Libre, addio al ventesimo secolo

Eric Horsbawm lo definì il secolo breve. Cominciato in ritardo per colpa di un assetto sociale che si richiamava direttamente al medioevo feudale e che la Grande Guerra spazzò via tra il 1914 ed il 1918, finito in anticipo per il crollo, nel 1989, del Muro che simboleggiava l’ultima delle grandi sanguinose illusioni di portare le cosiddette masse a pieno titolo nella stanza dei bottoni della storia.
Il ventesimo secolo ha prodotto tante idee, quasi tutte nate da buone e progressiste intenzioni, altrettanto sangue ed una lunga galleria di ritratti raffiguranti leader carismatici come forse oggi non siamo abituati a vedere – e tantomeno a seguire – più. Popoli in cerca di riscatto dalla fame e dal tallone di ferro di governi nati quando i Barbari sostituirono le proprie istituzioni a quelle dell’Impero Romano affidavano la sorte della loro gloriosa rivoluzione a personaggi animati da ambizione pari alla loro personalità e spesso alla loro assenza di scrupoli.
Il modello era stato codificato da Napoleone Bonaparte, che aveva trasformato la Grande Rivoluzione del 1789 e la Prima Repubblica francese nel Primo Impero, ma gli archetipi rimontavano assai indietro nella Storia, da Giulio Cesare a Oliver Cromwell. Nel ventesimo secolo, quello che avrebbe messo a disposizione delle dittature mezzi che il genere umano non aveva mai visto prima in azione o anche soltanto immaginato, la galleria era stata aperta da Vladimir Ilic Ulianov detto Lenin da una parte e da Benito Mussolini dall’altra, alle due estremità di un arco politico che come tutte le figure geometriche all’infinito tendono a ricongiungersi, a toccarsi combaciando.
La Repubblica di Cuba ha annunciato sabato mattina la scomparsa dell’ultimo dei grandi condottieri di questo ventesimo secolo che è durato poco, ma che è sopravvissuto a se stesso fin troppo nelle filosofie politiche riadattate ai tempi apparentemente nuovi, e soprattutto negli atteggiamenti di tanti che ad esse continuano almeno a parole a rifarsi scrutando l’orizzonte in cerca di nuovi lider maximi capaci di condurli epicamente e romanticamente ad una nuova vittoria del sole dell’avvenire. Una locomotiva come quella di Francesco Guccinilanciata a bomba contro l’ingiustizia.
Fidel Alejandro Castro Ruz ha indossato tutta la vita la mimetica del guerrillero, del comandante militare. In realtà era un avvocato destinato al Foro dell’Havana, così come il suo compagno iniziale d’avventura, anche lui in mimetica per tutta la durata della sua vita (peraltro assai più breve), era un medico che dalla natia Argentina si era spinto a osservare e registrare le condizioni di vita della gente in tutta l’America Latina.
Fidel Castro ed Ernesto de la Serna Guevara detto El Che (in quanto argentino, poiché quello è da sempre l’epiteto un po’ irridente con cui gli altri sudamericani indicano gli abitanti di quel paese a causa di un loro tic dialettale) dettero a tutto il Sudamerica (e non solo) un destino diverso il 26 luglio 1953, quando alla testa dei Barbudos assaltarono la Caserma Moncada, dando il via alla Rivoluzione Cubana.
Barbudos (di ispirazione comunista, un po’ come i Montoneros argentini e i Sandinisti nicaraguensi) ritenevano che il destino di Cuba fosse stato in realtà deviato dalla guerra ispano-americana del 1898. Lungi dall’essere riconoscenti ai gringos per la fine della dominazione coloniale spagnola, reagirono come i messicani, prendendo a detestare las ombras del Norte, il gran male capitalistico che stava arrivando dagli Stati Uniti d’America e che stava sostituendo il dominio coloniale con un altro per loro ancora più odioso.
Negli anni Cinquanta, l’isola che i Conquistadores spagnoli avevano battezzato Cuba era in pratica un enorme casinò ed un altrettanto enorme bordello a cielo aperto gestito dalle componenti peggiori del capitalismo nordamericano, che si possono definire con il nome sintetico ed evocativo di Cosa NostraFulgencio Batista era uno dei tanti dittatorelli latino-americani che si erano sostituiti al gobierno colonial del Rey de España con metodi più o meno sanguinari.
Il Sudamerica attendeva i suoi lider per sollevarsi, e li trovò in Castro e Che Guevara. Il 1° gennaio 1959, quando el Che sgominò l’ultima resistenza di Batista a Santa Clara, militari e mafiosi dovettero abbandonare l’isola in fretta e furia. L’avvocato del Foro dell’Havana si ritrovò capo del governo rivoluzionario. El Che diventò una figura leggendaria, ritratto con il suo celebre basco di guerrillero heroico sui poster che sempre più ragazzi in Occidente appendevano in cameretta, man mano che si avvicinavano gli anni della contestazione.
Poteva essere l’inizio di una grande storia, ed in un certo qual modo lo fu. Quella cubana fu l’unica rivoluzione popolare di ispirazione comunista ad avere successo dopo quella bolscevica russa del 1917 (e fino a quella sandinista del 1979 in Nicaragua). Allo stesso modo di quella, fu costretta a dibattersi tra necessità di sopravvivenza drammatiche sotto l’attacco della reazione e scontri altrettanto drammatici tra personalità in cui l’ambizione finì per seppellire ben presto le migliori ntenzioni.
La storia di Fidel Castro e dei suoi rapporti con gli U.S.A. è quella di tante occasioni perse. Il governo americano di Eisenhower riconobbe ufficialmente la nuova realtà cubana, ma lasciò in eredità alla successiva amministrazione Kennedy lo sbarco disastroso alla Baia dei Porci organizzato dalla C.I.A.. Esuli cubani, fomentatori di professione, mercenari e agenti dei servizi segreti andarono a morire sotto le mitraglie dei Barbudos, confezionando uno dei più grossi disastri militari della storia, rovinando l’immagine internazionale degli U.S.A. proprio mentre si accingevano a lanciare la corsa alla Nuova Frontiera, e segnando per sempre il destino di un continente prima, di un mondo poi.
Kennedy sarebbe stato forse l’uomo giusto per avviare con Cuba una politica di buon vicinato. Ma la Baia dei Porci gettò i cubani nelle braccia dell’Unione Sovietica e avviò forse il nuovo presidente americano fin da subito sulla strada diretta a Dallas. Poco più di un anno dopo la rivoluzione, Fidel Castro si proclamava leader comunista, stringeva accordi con l’U.R.S.S. e portava la Guerra Fredda sull’orlo della effettiva deflagrazione. Gli Yankees divennero nemici dichiarati, i sovietici accompagnarono la loro amicizia con i missili che per dodici giorni nel 1962 tennero il mondo sull’orlo della Terza (e ultima) Guerra Mondiale. Kennedy e Krusciov videro la loro faticosa distensione avviarsi allo sbriciolamento e le loro carriere e vite alla fine. Che Guevara riprese il suo viaggio sudamericano, estremamente perplesso per la svolta che avevano preso la rivoluzione cubana nonché i suoi rapporti personali con il lider maximo. Anche la sua strada aveva già una destinazione finale, in Bolivia a La Higuera. C’era anche una data, 9 ottobre 1967. E non si sopirono mai le voci secondo cui di quella tragica destinazione se non progettista quantomeno Fidel Castro fu benevolo osservatore.
Con Ernest Hemingway
La rivoluzione che doveva liberare il popolo diventò una volta di più il suo strumento efferato di tortura. Le carceri cubane presero a riempirsi di dissidenti, i generi alimentari a scarseggiare sulle bancarelle dei mercati, il pensiero e la parola a diventare merce sempre più pericolosa da scambiare sull’isola. A Guantanamo, dove era nata una delle canciones popular più celebri e struggenti del repertorio cubano, gli U.S.A. mantenevano la loro base militare per una di quelle compravendite tra Stati che andavano tanto di moda una volta, 2.000 dollari annui in cambio di 120 km quadrati di territorio, su cui si insediarono nel 1903 i Marines. Di là dal confine, la guarnigione sovietica (senza missili) che Gorbaciov avrebbe ritirato soltanto nel 1991, a comunismo ormai morto e quasi sepolto.
Con Giovanni Paolo II
Fidel Castro perse la seconda occasione con Bill Clinton, a Guerra Fredda finita e con una nuova amministrazione americana più favorevole di quelle di Reagan e Bush padre. Anziché cercare la fine delle sanzioni, del’embargo, e una svolta liberista che in tutto il mondo post-comunista i nuovi governi eletti si affrettavano ad intraprendere, preferì rimanere l’ultimo baluardo di una ideologia che la storia aveva condannato senza appello, l’ultimo dittatore che usava le patrie galere come strumento principale nei rapporti con l’opposizione. L’ultimo dei non allineati che in realtà erano stati allineati eccome. Tito e Indira Ghandi erano scomparsi da tempo, lui era destinato a incontrare nientemeno che due Papi, Giovanni Paolo II nel 1998 e Francesco nel 2015, ed un presidente americano, Barack Obama nel 2016. Sempre se è vera la versione ufficiale della sua scomparsa, il precedente di Breznev (tenuto ibernato per due anni dopo la morte) qualche perplessità fatalmente la induce.
Fidel era in cattive condizioni di salute dal 2006 a seguito di una peritonite, questo è l’unico dato certo. Il fratello Raul, uno degli ultimi superstiti come lui di Moncada, aveva progressivamente preso in mano le redini della Repubblica Socialista di Cuba, la cui costituzione e ragione sociale non sono mai state mutate da quel 1960 in cui fu proclamato il partito unico.
Con Francesco
Chissà se il lider è morto davvero l’altra notte, o chissà quando. Sopravvivendo comunque anche troppo al secolo e alla ideologia che l’aveva prodotto, e ritardando fino all’inverosimile l’ingresso della sua isola nel mondo moderno. Da sanità e istruzione per tutti, a sanità e istruzione che funzionano. Dal salario minimo al cibo su tutte le tavole. Alla fine dei Balseros, i fuggiaschi sulle zattere che sfidano i 90 km di oceano infestato da squali per raggiungere Key West in Florida, rinnovando antiche epopee tragiche di boat people in fuga da analoghi paradisi comunisti.
La fine di un’epoca, di un mondo. Quello dei dittatori e dei commandantes che si vestivano sempre in mimetica. Quelli che in nome di una ideologia rossa o nera tormentavano peggio di chi li aveva preceduti il popolo che li aveva acclamati come veri libertadores, pentendosene un istante dopo.

Rossi o neri, perché gli estremi si toccano, ed è uno dei teoremi infallibili che il ventesimo secolo ci ha lasciato in eredità, e la cui dimostrazione Fidel Alejandro Castro Ruz porta con sé nella tomba. Il ventunesimo secolo di lider maximi così non ne produce più. C’è soltanto da sperare che continui.

I Balseros nel Mar dei Caraibi

domenica 20 novembre 2016

CONTROSTOMACO (più che CONTROCORRENTE)


Facendo zapping tra i post e i commenti, trovo un paio di “figuri” vecchie conoscenze, altrettanto vecchi arnesi del governo rosso che allieta questa regione da tempo immemorabile e che ormai la rende quasi irrecuperabile all’umanità. 
Uno è un ex burocrate dei servizi generali, che si è dato alla letteratura da pensionato e che essendo rimasto ammanicato con i suoi benefattori avrà addirittura l’onore di un “vernissage” in consiglio regionale, maitre de la maison addirittura l’uomo dalle tante poltrone, il presidente di quell’alto consesso. Lo vedo passare sulla pagina di un’amica, educazione vuole che non si alimentino polemiche quando si è in casa d’altri. Avrei voluto chiedergli altrimenti se il 9 gennaio, in occasione del funerale di un mio carissimo amico (e a quanto ne sapevo anche suo, o perlomeno collega e conoscente di lunga data) era anche allora a presentare il suo libro.
Sempre sulla pagina di questa cara amica, vedo passare un altro letterato, benemerito anch’egli di regime, ma avendo seguito il percorso inverso. Questo lo danno per virtuoso della penna cittadino di lunga data e di lungo corso, fine intellettuale in quota al partito democratico, al quale – per meriti sicuramente artistici – l’amministrazione regionale ha affidato in gestione il suo settore comunicazione. Avrei voluto chiedergli due cose: che avrebbe fatto se non fosse esistito il partito democratico (ma questa, mi rendo conto, è una curiosità mia), e soprattutto poi se è sempre troppo occupato (lo danno anche per grande conferenziere) per rispondere alle richieste che giungono sul suo tavolo all’ufficio che occupa per investitura granducale. O se i suoi standard di educazione non prevedono tali risposte, non essendo le istanze evidentemente redatte in forma letteraria tale da soddisfare i suoi gusti raffinati. 
A cosa e chi mi riferisco? E’ una storia buona per un altro giorno, questa seconda. La racconterò alla prossima occasione.

Basta un NO

Maria Etruria Boschi, come la chiama Matteo Salvini con evidente riferimento al suo casato nobiliare, si aggira per l’Europa (dopo il Sudamerica) un po’ come faceva una volta quello spettro ancestrale da cui discende il suo partito. Solo che, a differenza di quanto succedeva normalmente allo spettro almeno in Occidente, Maria Elena ha un incarico ufficiale nella compagine del governo italiano, è Ministro per le riforme costituzionali, e pertanto ci si aspetterebbe che le sue uscite fossero sempre e comunque in rappresentanza di tutto il popolo che governa, non soltanto di quella parte che lei vorrebbe veder vincere, con le buone o con le cattive.
Tra l’altro, visti i chiari di luna, corre il sospetto che questi viaggi, dalla Pampa argentina all’Imperial College di Londra, sia il contribuente a sobbarcarseli sul suo già magro bilancio. Maria Etruria, pardon, Elena, dice di no: tutto a carico, suo e dell’impegno volenteroso di giovane pasionaria democrat. Lo dice lei, e noi – come il Marcantonio di Shakespeare dobbiamo crederci, è donna d’onore.
Di questo passo dovremo credere anche che Matteo Renzi ha comprato personalmente i 4 milioni di francobolli apposti alle altrettante lettere di invito ad andare a votare indirizzate agli italiani all’estero. Di credere che esse contengano tra l’altro soltanto quell’invito, e non un messaggio neanche tanto subliminale ad apporre la fatidica croce sul fatidico SI, ci riesce ancora più difficile. Così come di credere che tutto ciò avvenga per il bene dell’Italia.
Parlano tutti in nome dell’Italia, man mano che l’ora X si avvicina. I sondaggi sono stati stoppati troppo tardi, i quindici giorni di legge non sono stati sufficienti a impedire la pubblicizzazione dell’ultimo, che ha indicato una crescita tendenziale del fronte del NO oltre il 5% di vantaggio. Un vantaggio che nemmeno la chiamata alle urne in dose massiccia degli ex italiani potrebbe rovesciare, probabilmente.
In attesa di sapere se i sondaggi sono davvero quel baraccone da circo che la Brexit e Donald Trump hanno svelato al mondo, il campo del SI comunque ha annusato l’aria che tira, che non è favorevole per niente. E cercando di far propria l’improntitudine del suo condottiero, Matteo Renzi, l’uomo che ha la faccia per tutte le stagioni e per tutte le affermazioni (tanto quelle passate chi se le ricorda?), si dispone a farci trascorrere queste ultime due settimane prima del voto come gli spettatori del teatro dei Pupi siciliani, ricorrendo cioè alla più vasta gamma di espressioni facciali (dal truce al disgustato al fulminante), nonché alle più oscure minacce ed anatemi per farci passare notti in bianco preoccupati del nostro destino qualora insistessimo nella protervia dell’errore, quello di mettere la crocetta fatale nella casella sbagliata.
Vecchi arnesi del comunismo rinnegato solo a parole, come Valter Veltroni e il miliardario rosso De Benedetti, o di quella democrazia cristiana di terza fascia - al di sotto del sottobosco - come l’altro ministro Dario Franceschini, ci offrono durante l’omelia serale presso una televisione ormai del tutto compiacente se non asservita il quadro dell’Italia futura che ha tradito il nuovo che avanza, con i cosacchi di Salvini che abbeverano i cavalli a Montecitorio e Palazzo Chigi, e con Donald Trump che ci priva delle nostre risorse, dei nostri nuovi portatori di cultura (come se non ne avessimo abbastanza della nostra), mentre la Merkel ci sbatte fuori dall’Euro e ritorniamo al baratto in natura.
Già, la Merkel. Incoronata leader dell’Occidente dal Presidente più inutile e dannoso della storia degli Stati Uniti, quel Barack Obama che si appresta se Dio vuole a chiudere il gas e riconsegnare le chiavi della Casa Bianca al legittimo proprietario, la Signora dello Spread non ha perso tempo a far sentire le sue minacce, come nemmeno fu capace Federico Barbarossa a suo tempo. Doppiata subito dai Quisling della Banca d’Italia, che hanno paventato i primi bombardamenti degli Stukas già per la mattina del 5 dicembre.
Maria Elena Boschi con Vincenzo de Luca
Vecchi e nuovi Presidenti della Repubblica italiana fanno la loro parte ricordando al popolo che dal 2011 non è più sovrano. E il popolo forse comincia a rendersene conto, se le dichiarazioni di voto rilasciate ai sondaggisti non sono anche stavolta mendaci o canzonatorie.
Di tutti gli articoli oggetto del restyling renziano, che dovrebbe far assomigliare la nostra costituzione un po’ al Palazzo di Giustizia di Firenze (per chi ha presente l’oggetto), quello chiave di questa Legge Costituzionale Truffa non è il 70, che pure riduce l’elenco delle competenze e delle regole di funzionamento del nostro Senato ad una pagina del Manzoni di quelle che abbiamo imparato a odiare a scuola, oppure ad una di Camilleri, quando descrive le modalità di concessione delle linee telefoniche nella Sicilia dell’Ottocento.
No, l’art. chiave è il 117 riformato, ove si dice che: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea e dagli obblighi internazionali”.
Segue l’abolizione sostanziale del regionalismo e del federalismoen passant, ma non è questo il punto, e se i governatori dovessero continuare ad essere della stazza di un Vincenzo De Luca o di qualcun altro degli attuali, non sarebbe tra l’altro nemmeno una gran perdita.
Il punto è che d’ora in avanti, se passa la riforma, gli impegni presi a Bruxelles sono immediatamente vincolanti e non più sottoposti a ratifica da parte del nostro Parlamento. L’Italia cessa da quel momento di essere uno stato sovrano e diventa una regione a statuto ordinario dell’Unione Europea. Quel soggetto politico che, con buona pace di Altiero Spinelli e di tutta Ventotene, negli ultimi vent’anni ha quasi azzerato il nostro potere d’acquisto ed il nostro tenore di vita, ci ha imposto governi che nessuno ha più potuto votare, ci ha imposto una invasione di migranti per ritrovare un precedente analogo – in tutti i sensi – della quale bisogna risalire al periodo compreso tra il 410 d. C. e la cacciata dei Longobardi dalla Penisola. Ha distrutto la nostra economia e la nostra sovranità reale. Complici, ovviamente, i ducetti, i gerarchi ed i burocrati bancari che si sono alternati a far finta di governare questo paese, gestendo invece esclusivamente i propri interessi.
Le ragioni del No, dunque, sono le stesse del 1947, quando perfino i comunisti capirono che non era il caso di alienare la sovranità popolare così faticosamente e sanguinosamente riconquistata. Lo capisce perfino un vecchio arnese del comunismo postmoderno come Pierluigi Bersani. Il suo No inquieta un po’ il campo anti-renziano, come quello di D’Alema. Si tratta di gente che avrebbe fatto perdere la sua battaglia perfino a San Francesco, a Giovanna d’Arco, se fossero stati dalla loro parte. Ma non è il caso di stare a sottilizzare, servono tutti i voti per salvare la Costituzione repubblicana, anche quelli di chi a suo tempo ci ha preso in giro con la Bicamerale e la pessima riforma del Titolo V di Bassanini.

L’unica vera costituzione che ci rimarrebbe, se prevalessero le ragioni del SI, sarebbe il Trattato di Maastricht. Non ci resterebbe il tempo per finire di maledirlo abbastanza.

lunedì 14 novembre 2016

Salvini porta il NO in piazza a Firenze



Tempo di marce e di manifestazioni contro. In America si susseguono – come per effetto di una accorta regia – quelle anti-Trump, che vorrebbero rimettere in discussione il voto popolare e la elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti. Il fondamento di queste manifestazioni è pari alla loro genuinità, e c’è da credere che alla fine, conoscendo l’attaccamento alle proprie istituzioni democratiche del popolo americano, la questione sarà affidata a dirimere alla Guardia Nazionale. Intanto, fa un certo effetto vedere sfilare in corteo contro il razzista Trump soltanto studenti rigorosamente wasp, mentre le cosiddette minoranze per le quali dovrebbe cominciare un quadriennio di terrore affollano piuttosto i ranghi delle forze dell’ordine.
In Italia, dove la partita istituzionale è ancora aperta, si sfila e si manifesta invece per il SI o il NO più importanti della storia repubblicana. Mentre il governo ricorre ad espedienti da venditore porta a porta per cercare una rimonta che altrimenti appare piuttosto difficile – con buona pace dell’esercito di sondaggisti arruolati dai mass media per raccontare una realtà che appare diversa quanto lo erano quella britannica prima del voto sulla Brexit e quella nordamericana prima del voto per le presidenziali -  Matteo Salvini, che ha annunciato per oggi il deposito di una denuncia nei confronti di Matteo Renzi e Angelino Alfano per l’acquisizione degli indirizzi dei residenti italiani all’estero (e di chi glieli ha forniti, in quanto il fatto configura a suo dire un reato penale aggravato), si pone ufficialmente alla testa del fronte del NO in Piazza Santa Croce a Firenze.
Dodicimila persone, secondo le stime ufficiali (ma quelle ufficiose parlano di cinquantamila e non sono soltanto camicie verdi giunte dal nord, come vengono liquidate sprezzantemente dalla stampa nazionale, ci sono anche molti fiorentini e toscani), confluiscono in una delle piazze più belle e cariche di storia di quello che dovrebbe essere il capoluogo del renzismo per andare ad ascoltare il programma del giovane leader della Lega Nord, di Giorgia Meloni e di tutti coloro che si schierano per il rinnovamento reale del paese, passando per quello di un centrodestra ormai giunto ad un bivio storico.
Nell’immediata vigilia del raduno, Salvini e quella parte del fronte del No che sta a centrodestra scoprono di avere il principale avversario tuttavia non nelle forze di governo ma insospettabilmente in Silvio Berlusconi. Che per propri motivi personali manda a Padova Parisi a dividere le forze e scomunica il giovane Salvini urbi et orbi: «noi non siamo quella roba che è a Firenze».
Portland, manifestazioni anti Trump
La risposta di Salvini è da leader, quello che una volta era lo stesso Berlusconi e che adesso non è più: «Se mi chiamano, io ci sono”. A guidare una nuova forza politica. A guidare il paese.
Il paese che scende in piazza a  Firenze è, fatte le debite proporzioni, lo stesso che oltreoceano ha votato Trump ed assiste con fastidio alle manifestazioni di chi vorrebbe invalidare quel voto. E’ un paese stanco di una sinistra che non sa vincere, non sa più nemmeno perdere, e non sa proporre più una soluzione che sia una ai problemi di questo paese, che anzi contribuisce ad aggravare.
«Con oggi si parte per andare a vincere», dice il leader della Lega. Che lancia un avvertimento alle istituzioni, soprattutto a quella – la massima carica dello Stato – che se dovesse vincere il No il 4 dicembre avrebbe il dovere di trarne le opportune conclusioni e dovrebbe bandire nuove elezioni.
Il riferimento a Mattarella, sulla scia del precedente di segno opposto di Napolitano, è assolutamente evidente e voluto. «Scelgono i cittadini, non Mattarella”. E se andasse diversamente? "Con la riforma che faremo noi”, dice Salvini, «ci sarà l'elezione diretta del presidente del Consiglio, e manderemo in soffitta il presidente della Repubblica che non serve a niente (…) al Quirinale ci metteremo un enorme asilo nido gratuito per i bambini che non trovano posto».
Il palco di Santa Croce
Parole chiare, dirette, senza mezzi termini. Come quelle che in America sono servite a vincere una elezione presidenziale. A Firenze il fronte del No ha imboccato una svolta che potrebbe essere storica. La sensazione è che questo fronte sia effettivamente partito da qui per andare a vincere qualcosa, e che l’Italia non abbia alternative alla sua vittoria. L’Europa così com’è ha un destino incerto, che finisca di inimicarsi o meno la nuova amministrazione americana. Per non rimanere soli con in mano il cerino dei migranti, di piazze come quella di Santa Croce sarà bene tenere conto.
Nel frattempo, il premier sceglie il campo di battaglia mediatico dei social network (e, come detto, delle vecchie poste), ma forse al pari di Berlusconi non ha più il polso delle piazze, che cessano di essere virtuali e tornano reali nell’approssimarsi della consultazione referendaria.
Nella vicina (ma stavolta rigorosamente separata dal cordoni delle forze dell’ordine) Piazza dei Ciompi, intristisce il corteo dei centri sociali antagonisti. Circa 300 persone, a cui non restano che slogan che al pari dei sondaggi mediatici raccontano una realtà che non esiste più. Se mai è esistita.

domenica 13 novembre 2016

Sciocchezzario antiamericano


A cinque giorni dal voto USA e dalla vittoria di Donald Trump, prendiamo atto che la fine del mondo non è arrivata, e che pertanto buona parte dello sciocchezzario di sinistra andrà riscritta.
Ci sono alcune considerazioni che voglio fare, prima di chiudere se Dio vuole l'argomento e di rituffarmi nella assai meno comprensibile e gratificante politica italiana.
La lezione americana più grande per noialtri rimasti qui nel vecchio continente a baloccarci con assolutismi e diritti divini intramontabili è l'accettazione della volontà popolare come sovrana. E guai a discuterla. Chi vince governa, chi perde lealmente si dispone a dare una mano, nessuno si sogna di contestare il risultato e tantomeno l'istituzione che lo incarnerà. perché sarebbe contestare il POPOLO.
Le marce anti-Trump, genuine come una moneta da tre euro, o in questo caso tre dollari, dovrebbero essere indagate quanto ai loro mandanti reali, e poi lasciate a disbrigare alla Guardia Nazionale (accidenti a quelle che vanno di fuori, come dicono gli anglosassoni). Se poi si scopre che dietro c'é quella parte di Wall Street orfana delle bolle speculative, complimenti ai "compagni" che stanno inneggiando a quella parte, good job. Siete ancora più stupidi di quanto la storia vi abbia ormai certificato.
I discorsi alla Juncker sono offensivi non tanto per il presidente Trump, ma per tutta la popolazione che l'ha eletto, circa 300 milioni di persone, e che tiene alla sua massima istituzione più di ogni altra cosa al mondo. Una popolazione, tra l'altro, con la quale - con buona pace di fascisti e comunisti di ieri e di oggi - abbiamo diversi debiti di gratitudine, di cui almeno un paio enormi. Sarebbe il caso a maggior ragione di chiamarsi fuori da una istituzione e da una comunità il cui presidente (non eletto dal popolo) offende una comunità altrettanto grande e con la quale grazie a Dio possiamo e dobbiamo continuare ad avere ottimi rapporti. Altrimenti invece di un esercito da operetta dovremo riarmare un esercito serio com'era una volta e rimandarlo ai confini, perché i Diavoli Blu e i Berretti Verdi stavolta non arrivano a darci una mano.
A qualche amico in vena di revisionismo storico, ribadisco che il sistema elettorale anglosassone è lo stesso da più di 400 anni, e mi pare che abbia prodotto risultati egregi, storicamente. Si chiama "maggioritario", funziona in USA, Gran Bretagna, Australia, Canada e dovunque la cultura politica anglosassone si è insediata stabilmente. Sicuramente meglio che in qualsiasi altra parte del mondo, fatti alla mano.
Due notazioni: 
1) avevamo votato anche noi italiani per il maggioritario, e l'avremmo avuto se l'attuale presidente della repubblica a suo tempo non si fosse fatto parte diligente, anzi negligente, nello stravolgere la volontà popolare, inaugurando la tradizione di vertici istituzionali che si pongono in contrasto con la volontà popolare stessa, con profili più o meno evidenti di illegittimità, oltre che - mi sia consentito dirlo - di dubbia moralità.
2) stiamo qui a pasticciare sull'Italicum, che è una rivisitazione in peggio della Legge Acerbo, e qualcuno ha veramente voglia di criticare il sistema elettorale americano? abbiamo governi non eletti da nessuno da almeno cinque anni e qualcuno ha veramente voglia di discutere l'elezione di Donald Trump? Ma noi allo specchio ci guardiamo mai?
Chiudo con una riflessione. Ogni volta che passo davanti al War American Cemetery vicino a Firenze mi si stringe il cuore. Grazie ragazzi, grazie GI, siete finiti lì sotto a quelle croci bianche per permettere a questo branco di imbecilli dalla bocca larga che siamo noi italiani di poter continuare a sbeffeggiarvi come facevamo prima della guerra, allora in camicia nera, dopo rossa.
Grazie ancora.

venerdì 11 novembre 2016

Il Giorno della Rimembranza



Alle undici di mattina dell’11 novembre 1918, su un vagone ferroviario fermo sul binario della linea che attraversava la foresta demaniale di Compiegne presso la località Rethondes, l’Inutile Strage ebbe finalmente termine.
Non esistono foto che ritraggono lo storico evento, giornalisti e fotografi non furono ammessi. L’unica foto che ritrae l’accaduto ed i convenuti fu presa al momento in cui le delegazioni firmatarie dell’Armistice scesero da quel vagone, consegnando alla storia quello che la Francia definì – un po’ troppo frettolosamente – le jour de glorie, prendendo ispirazione dal proprio inno nazionale e dal sentimento di giubilo per la fine di un’attesa che durava – per ogni cittadino francese degno di tal nome – da ben 48 anni.
La Prima Guerra Mondiale era già terminata sul fronte orientale il 3 marzo 1918, a Brest Litovsk, località della Bielorussia dove la delegazione bolscevica che si era impadronita del potere in Russia rovesciando lo Zar acconsentì a tutte le durissime richieste dell’Alto Comando tedesco. Lev Trotskji cedette territorio fino a tutte le repubbliche baltiche ed alla Polonia, permettendo ad un occidente che si era dimostrato fin da subito ostile di sistemare le basi delle sue truppe a ridosso di San Pietroburgo.
Sul fronte italo-austriaco, invece, la guerra si era conclusa con l’attracco dell’Incrociatore Audace al molo di Trieste, il 3 novembre 1918. il giorno dopo, il governo dell’Imperatore Carlo I d’Asburgo, l’ultimo erede del prozio Franz Joseph - morto due anni prima appunto quasi senza eredi dopo l’assassinio di Francesco Ferdinando che aveva dato il via alla Grande Guerra -, aveva chiesto ed ottenuto l’armistizio al generale italiano Armando Diaz. Il generale fu quasi sorpreso, anche se l’Austria – Ungheria ormai si stava dissolvendo per le sconfitte militari e le rivolte interne, e la richiesta lo colse – dice la leggenda – mentre davanti alla cartina del fronte cercava di capire dove c…. fosse questa Vittorio Veneto dove le sue truppe avevano ottenuto quella che risultò essere la vittoria decisiva, la rivincita di Caporetto.
L’Impero Ottomano, che aveva sostituito proprio l’Italia nella Triplice Alleanza con gli Imperi centrali, si era arreso il 29 ottobre e aveva il suo da fare a sopravvivere alle spinte insurrezionali repubblicane dei Giovani Turchi dell’eroe di guerra Mustafa Kemal, il vincitore del carnaio di Gallipoli, colui che un giorno sarebbe stato chiamato Ataturk.
La guerra finì di colpo, dopo essere sembrata interminabile. Quattro anni e mezzo di dramma nel fango di trincee inamovibili, da una parte e dall’altra, ravvivati soltanto dalle offensive disperate scatenate a ovest e a sud dagli Imperi Centrali dopo il crollo della Russia zarista nel novembre del 1917 e dall’arrivo del contingente americano sul continente europeo nell’ultimo anno di guerra, si conclusero con la dissoluzione dell’Austria Ungheria e con la rivolta repubblicana a Berlino, che impose all’ultimo Oberkommand rimasto belligerante la richiesta agli Alleati di cessazione delle ostilità.
I generali tedeschi, che avevano esautorato i politici del loro paese negli anni della guerra, li spedirono sprezzantemente a ricevere le condizioni armistiziali sul vagone ferroviario a Compiegne. Quando la delegazione tedesca arrivò a destinazione, il Kaiser Wilhelm II era già fuggito in Olanda per sottrarsi alla rivolta repubblicana. L’Imperatore d’Austria lo seguì in esilio tre mesi dopo, quando le potenze vincitrici e vinte si stavano già riunendo a Versailles per la discussione e la firma del Trattato di Pace.
A Compiegne, la Francia inviò i suoi eroi, il Maresciallo Foch ed il generale Weygand. Era il soggetto belligerante che sentiva di più quel momento: Sedan e Napoleone III erano vendicati, Lorena e Alsazia riconquistate, 48 anni di mortificazione dell’orgoglio nazionale e della grandeur per mano prussiana erano finalmente cancellati.
La Germania, da una settimana rimasta l’unica avversaria degli Alleati, le si presentò di fronte con una delegazione di mezze figure, per di più civili. Il segretario di stato Erzberger si vide porre davanti condizioni durissime, compreso l’annullamento del trattato di Brest Litovsk che avrebbe fatto della Polonia e di altri paesi finalmente nazioni libere e indipendenti.
Erzberger contava talmente poco che dovette chiedere all’unica vera autorità rimasta sopra di lui, il Capo di Stato Maggiore tedesco Maresciallo Paul von Hindenburg, il permesso di accettarle. La Germania sconvolta dall’insurrezione repubblicana che entro un paio di mesi sarebbe stata legittimata a Weimar non poté dirgli che di accettare.
La vittoria alleata era totale, ma la sua portata fu sopravvalutata. L’esercito tedesco si era arreso senza che un solo metro del suo suolo patrio fosse stato conquistato dai nemici. Era stato costretto alla resa, ma non sconfitto. Per ritirare e smobilitare le divisioni tedesche ancora sul campo, circa 190 su tutto il fronte occidentale dal Belgio al confine svizzero, ci vollero circa due mesi, fino al gennaio 1919.
La Francia, tra Compiegne e Versailles, impose per spirito di revanche delle condizioni di resa che miravano a piegare la Germania per sempre, impedendole di riprendere le armi in futuro. Proprio la durezza di tali condizioni, sancite dal Trattato di Pace, mise la Germania economicamente in ginocchio e la ridusse moralmente alla disperazione, favorendo la successiva ascesa del Nazismo e la ripresa delle ostilità – in modo se possibile assai più drammatico – vent’anni dopo. La Francia avrebbe finito per ritrovarsi, il 21 giugno 1940, di nuovo a Compiegne, di nuovo su quel vagone ferroviario, a sottoscrivere un secondo armistizio ma stavolta da potenza sconfitta, invasa, piegata. Con il Fuhrer in persona a rappresentare la Germania trionfante, e la Francia medesima stavolta rappresentata da un ex eroe di guerra divenuto mezza figura impresentabile ed esecrata, il Maresciallo Philippe Petain.
Anche l’Italia avrebbe sopravvalutato la sua vittoria, lamentandone la mutilazione da parte degli Alleati a Versailles. Dimenticandosi che la fine delle ostilità era stata favorita anche dall’insurrezione delle altre nazionalità (a cominciare da quelle della vicina e neonata Jugoslavia) che si erano scrollate di dosso al pari di lei il giogo imperiale austro – ungarico. Il mito della vittoria mutilata avrebbe giocato un ruolo non indifferente nell’ascesa al potere delle camicie nere di Benito Mussolini, così come le sanzioni di Versailles avrebbero giocato un ruolo analogo nell’ascesa delle camicie brune di Adolf Hitler in Germania.
Ma quella mattina, a Rethondes preso Compiegne, su quel vagone dove non poté salire nessun testimone che non facesse parte di una delle delegazioni dei paesi che si erano scannati fino al giorno prima, si respirava soltanto il sollievo per la fine di una strage come l’umanità non aveva ancora mai visto, fino a quel momento. Senza immaginare che si stava preparando la successiva, assai più ingente e drammatica.
L’11 novembre rimase in Gran Bretagna nel calendario come Remembrance Day, negli USA come Veteran Day, in Francia le Jour de Glorie. Viene celebrato con due minuti di silenzio alle ore 11 dell'11 novembre ("the eleventh hour of the eleventh day of the eleventh month").
Furono gli inglesi, che a differenza dei francesi non avevano rivincite da celebrare e a differenza degli americani non avevano un loro continente in cui tornare ad isolarsi, a cogliere e testimoniare il senso più profondo di orrore antimilitarista lasciato dalla Prima Guerra Mondiale, suggerendo a tutte le altre nazioni l’emblema di quella ricorrenza per gli anni a venire: la corona di papaveri rossi (uno dei pochi fiori in grado di nascere anche sopra un devastato campo di battaglia) con cui aveva tributato le esequie a ciascuno dei suoi caduti e che da allora addobba suggestivamente i cimiteri di guerra in tutto il mondo.
Nel 1935, il governo di Ramsay McDonalds sottopose ai sudditi di Sua Maestà George V i Peace Ballots, un referendum con cui veniva chiesto al popolo inglese se a fronte del riarmo tedesco era disposto ad affrontare una nuova guerra. La risposta fu a schiacciante maggioranza NO, e il primo a prenderne atto fu proprio Adolf Hitler. Quattro anni dopo, un nuovo quesito – stavolta nei fatti, non su schede referendarie – si pose sempre davanti ai sudditi di Sua Maestà, diventato nel frattempo George VI: morire per Danzica?
La risposta è nota.

giovedì 10 novembre 2016

La sinistra che ha sbagliato popolo



Ventiquattr’ore dopo la chiusura dell’Election Day, la terra sta ancora percossa e attonita al nunzio. La scelta del popolo americano di Donald John Trump come quarantacinquesimo Presidente dell’Unione è un qualcosa di cui le nostre élites culturali - e le nostre masse che vanno dietro di loro di conserva, a ciò sospinte da un analfabetismo di ritorno sempre più dilagante – non riescono proprio a capacitarsi.
Nasce come battuta sul web, ma ben presto acquisisce i connotati di un discorso similserio, su cui si getta a capofitto la sinistra nostrana per darsi pace e soprattutto farsi ragione dell’ennesima sconfitta incassata da un suo paladino. Hillary Rodham Clinton non ha perso per sbagli suoi o del partito che rappresentava nella corsa alla Casa Bianca. Ha perso perché è il popolo che è sbagliato.

E qualcuno dei nipotini di Berlinguer già va a riscoprire quei filosofi francesi del Settecento che come Joseph De Maistre si opponevano all’Illuminismo teorizzando l’assolutismo regio e aborrendo il suffragio universale.
Ha sempre detto Berlusconi, uno a cui in questi giorni fischiano le orecchie per essere paragonato e accomunato – ovviamente nell’esecrazione - al neopresidente americano, che la sinistra italiana è assolutamente incapace di vincere libere elezioni, ma in compenso è stata capacissima di egemonizzare l’establishment culturale nostrano (anche se per certi suoi epigoni parlare di cultura significa usare una parola grossa). Al punto da infiltrare qualsiasi mezzo di informazione con velinari di partito che avrebbero la pretesa di chiamarsi giornalisti, se non addirittura opinion leaders.

Lilli "la rossa"
A costoro, da diverso tempo a questa parte, è affidata una poderosa campagna di disinformazione nei confronti di una massa che non aspetta altro che di credere a novelle all’apparenza ben confezionate, e tutt’al più esprimerci sopra dubbi o sfoghi più o meno sgrammaticati su qualche social network.
Così, nel 2011 l’Europa ci chiedeva di disfarci di un governo liberamente eletto a vantaggio di uno di burocrati e tecnocrati che non aveva altra legittimazione che la volontà di un anziano sovrano, presentatosi ad un parlamento imbelle con l’atteggiamento di un Luigi XIV, lo Stato sono io.
Nel 2014, non contenta, l’Europa ci chiedeva di metterci sulla testa un enfant prodige, che enfant lo era di sicuro (per trovare un presidente del consiglio altrettanto giovane bisognava risalire – guarda caso – a Benito Mussolini), ma prodige si è dimostrato soltanto nel raccontare favole, quelle favole appunto che poi una comunità di mass media ormai quasi completamente asservita ha senza ritegno propinato al popolo.
Nel 2016, annus che si spera definitivamente e meritatamente horribilis per questa sinistra e per la sua fabbrica del consenso, è scattata l’offensiva nei confronti di quei soggetti politici – soprattutto all’estero – che hanno dato segno di volersi ribellare allo status quo: un’Europa sempre più lebensraum tedesco, un’America avvitata su se stessa dall’Obamacare e dal perseguimento di politiche sempre più avventuristiche ed antieconomiche sullo scacchiere mondiale.
Ecco quindi la certezza della sconfitta della Brexit, poi dopo l’assoluta certezza della vittoria della Clinton, con un Clintoncare già pronto a perpetuare l’Obamacare e tutti felici e contenti con il limone in bocca ed il rametto di prezzemolo non diciamo dove, pronti a farci mangiare dai rispettivi migranti che di povero, a vederli bene, hanno solo la padronanza della nostra lingua con cui ci gratificano di stronzi razzisti. Due sonore batoste, alla fine, poiché il vento è cambiato e perfino il cantastorie Renzi ha percepito che è l’ora di cantarle a questa Europa, se non è troppo tardi. Altrimenti restiamo una volta di più con l’Asse Roma – Berlino, di cui siamo il fianco debole tra l’altro, come sempre.

De Benedetti, che avrebbe tanto voluto essere Berlusconi
Ma per una Kultura sinistrorsa, abituata da decenni alle veline del partito e ai tatticismi del centralismo democratico applicati ultimamente all’incultura delle nuove leve, una giravolta così brusca è difficile, se non impossibile. Non tutti hanno l’improntitudine del lider maximo. Non tutti sono pronti a riposizionarsi su nuove roccaforti ideologiche o di interesse, e soprattutto in nuove testate non più di segno tendente al rosso.
E così, a fare zapping tra i canali, capita di sentire discorsi in libertà, senza freno a mano. La decana dell’informazione italiana schierata Lilli Gruber intervista per esempio De Benedetti, il decano dei capitalisti italiani incapaci e falliti, che conciona senza contraddittorio sull’America (un paese dove ormai non gli darebbero neanche il permesso di soggiorno turistico) e soprattutto sull’Italia (paese che conosce ormai ancor meno, per sua stessa ammissione). Volano parole grosse, discorsi che per comuni mortali comporterebbero sicuramente querele e accuse di vilipendio, ma che loro – membri di diritto dell’establishment informativo culturale, tessere numero uno e due di quel partito democratico senza di cui sarebbero a lavorare sul serio o a rispondere di se stessi e del proprio operato da tempo – possono tranquillamente permettersi.
Donald Trump quindi è un imbroglioncello, apprendiamo, come il nostro Berlusconi. E via così. A capire le ragioni profonde del popolo americano, che poi sarebbero anche le nostre, i sedicenti giornalisti e opinionisti hanno rinunciato da tempo.
Vanno ad intervistare Giorgio Napolitano, ex presidente della repubblica mai abbastanza ringraziato per il coup de theatre, chiamiamolo così, con cui chiarì al mondo intero che cos’è la democrazia nel suo paese, e lui non si perita a definire per parte sua la vittoria di Trump come «l’evento più sconvolgente da quando esiste il suffragio universale». Adesso è tutto più chiaro, a cominciare dal perché lui stesso si sia fatto a suo tempo parte diligente nell’abolirlo di fatto, qui in Italia.
Un mondo a parte, che potremmo liquidare con la frase significativa e sprezzante di Guido Crosetto: «Giornalisti che non hanno capito nulla del paese dove vivono e lavorano, adesso sono diventati improvvisamente esperti di Stati Uniti d’America».
Già, gli Stati Uniti. Non ci abbiamo mai capito veramente granché, nonostante la pretesa amicizia storica ribadita dall’ineffabile Renzi. Non abbiamo mai compreso l’essenza della democrazia americana, così lontana dalla nostra versione miserabile. Non abbiamo mai compreso perché laggiù quel popolo che ci piace pensare e definire ad alta voce rozzo e così poco intelligente ha portato a casa da due secoli il miglior sistema di controllo dei propri governanti che la razza umana abbia mai elaborato.
Mandiamo laggiù un Vittorio Zucconi a svernare per decenni, e ci torna indietro più comunista di prima. Fin qui, poco male, l’antiamericanismo che si rinfocola dalle nostre parti ad ogni minima occasione viene da lontano, e travalica gli Zucconi stessi. Nasce dal fascismo e con il 25 aprile viene travasato pari pari nel comunismo senza soluzione di continuità. Per molta parte della nostra pubblica opinione, quel 25 aprile è stato ed è più o meno inconsciamente una sconfitta. E gli americani sono oppressori, anziché coloro che ci hanno vivaddio regalato il fatto di non dover festeggiare pochi giorni fa in camicia nera e orbace il novantaquattresimo anniversario della Marcia su Roma.
Paradossalmente, quel popolo che la sinistra italiana vorrebbe adesso esautorare (ma più che gli atti di Napolitano, il Decreto Boschi e l’Italicum, che altro vorrebbe fare?) nutre le sue idee più strampalate proprio nella base elettorale del PD, che di quella sinistra pretende di essere la legale rappresentanza. Quel popolo che dalle sette di ieri mattina si è disposto ad aspettare – come da direttive più o meno esplicite dei suoi opinion leaders e funzionari di partito – la terza guerra mondiale scatenata dal sessista, omofobo, xenofobo Trump.
E allora, come si mette? De Maistre proponeva di levare il voto a tutti. Che Maria Elena Boschi si sia messa a studiarlo, in previsione delle prossime riforme se e qualora sopravvivesse al SI o NO del 4 dicembre prossimo venturo?
Intanto Renzi manda avanti Alfano, con le sue tastate di terreno nei confronti della classe politica e dei cittadini, in previsione di correzioni di tiro che forse anche per lui è troppo tardi per adottare. Ogni volta, infatti, il prode Alfano gli ritorna a casa con il viso segnato da un ceffone a tutta mano.
Ma lui non demorde. Via tutte le foto con Obama, adesso ritoccherà con Photoshop quelle di Salvini con Trump, sostituendosi al segretario della Lega Nord. Intanto la Boschi è fissa in TV a dettare i tempi televisivi a collaboratori fidati come la Gruber. Da qui al 4 dicembre p.v. si spera che qualche santo aiuti, o qualche altra calamità intervenga. E di trovare anche qualche soldarello per le esauste casse dello Stato mettendo in conto all’Europa anche il terremoto del Belice. Nel frattempo, i sondaggisti danno il Si in lenta ma inesorabile rimonta.
Se tanto ci da tanto, il No ce la dovrebbe fare. Anche malgrado il supporto di Massimo D’Alema.
E poi ci sembrano strani gli americani.

mercoledì 9 novembre 2016

L'America volta pagina



«Qualsiasi cosa succeda, il sole domani sorgerà ancora». Soltanto alla fine di una delle presidenze più deludenti dell’intera storia americana, Barack Obama sembra trovare le parole giuste per celebrare il momento giusto. Le ultime, in attesa di passare il testimone a colui a cui meno avrebbe desiderato farlo, ma la cui vittoria – indiscussa e indiscutibile come qualsiasi voto popolare in terra statunitense – va accettata come un verdetto senza appello.
Il sole sorge stamattina sulla quarantacinquesima presidenza degli Stati Uniti d’America, che il popolo ha conferito a Donald John Trump, il candidato del partito repubblicano. Buon garbo vorrebbe che si attendesse lo spoglio dell’ultima scheda e la proclamazione del risultato ufficiale, ma non pare proprio che possa ripetersi un caso come quello del 2000, con la vittoria – contestatissima – di George W. Bush su Al Gore all’ultima scheda della Florida.
Stavolta la maggioranza è netta, talmente netta che il popolo americano ha ritenuto di corredare la prima amministrazione Trump del supporto benevolo di una maggioranza del Great Old Party sia alla Camera dei Rappresentanti che al Senato. Un verdetto netto, inequivocabile, come più non si poteva. Basta con i Democrats e le loro politiche che per otto anni hanno sconvolto il mondo, non solo questo paese. Magari l’America non tornerà più grande come una volta, ma che ci provi Trump a rimetterla in carreggiata, come ha promesso.
E’ proprio la Florida comunque a sancire la vittoria repubblicana, anche se la matematica certezza arriva dalla Pennsylvania. Il 270° grande elettore viene assegnato alle sette di mattina circa, dopo una notte che solo nelle fasi iniziali aveva confermato le previsioni più caute che parlavano di un testa a testa tra la Clinton e Trump. Mentre aveva smentito da subito i sondaggi più o meno pilotati che avevano assegnato alla signora dei Democratici un vantaggio decisivo già in partenza.
A leggere la mappa del voto, si ha l’idea della valanga repubblicana, così come si è delineata alle prime luci dell’alba. Il Midwest è una marea rossa, dove il rosso è il colore assegnato dai Networks a Donald Trump. A Hillary Clinton vanno le coste, con il New England e la California come pezzi pregiati. A Donald Trump vanno la Florida, il Texas, gli Stati del Sud, tutto il grande mare dell’America che una volta si chiamava rurale, provinciale. Un fronte popolare variegato, accomunato probabilmente dalla stanchezza per i problemi che l’amministrazione Obama ha aggravato più che risolvere, e che quella della Clinton prometteva di ereditare.
Si ferma per la seconda volta a pochi metri dal diventare realtà il sogno di Hillary Clinton di essere la prima donna a sedersi sulla poltrona più accessoriata ma anche più scomoda del mondo. Anche nel caso di una sua vittoria, l’America avrebbe voltato pagina in modo significativo. Sarebbe stata una svolta ancora più epocale di quella che aveva portato Barack Obama alla Casa Bianca otto anni fa, proprio a scapito  di Hillary.
Più che l’onore delle armi, è giusto e opportuno tributare alla candidata sconfitta il rammarico per un mancato evento, un esperimento che una parte dell’opinione pubblica sentiva ormai come doveroso da intraprendere. La ex First Lady paga più che errori o lacune propri quelli di colui che è stato il suo predecessore, nonché del suo stesso partito, il cui programma elettorale ed il cui messaggio si sono rivelati inadeguati ai tempi difficili che l’America, e con lei il mondo intero, stanno vivendo.
Trionfa l’outsider, quel Donald Trump che perfino stamattina qualcuno non rinuncia a stigmatizzare dal fronte avversario come l’oggetto misterioso, il pazzoide finito nella stanza dei bottoni, il guerrafondaio. Dimenticando non solo la lezione di Ronald Reagan, ma anche quella del buon senso spicciolo. Le agenzie di stampa intanto si leccano un po’ ovunque le ferite, peraltro auto inferte.
Crollano le borse. Se Wall Street lamenta l’infrangersi di un feeling con il clan dei Clinton  e la probabile fine dell’Era delle Bolle Speculative, le borse europee si spaventano apprendendo dell’irresistibile ascesa di un soggetto politico che avrà molta ma molta meno pazienza e comprensione del predecessore per una Unione Europea e una sua politica bancaria - monetaria che cessa di essere una spina nel fianco dell’America soltanto quando si dedica ad esserlo per se stessa. E che comunque per i nostri tempi ed il nostro mondo ha rappresentato soltanto, nei fatti, instabilità e crisi.
Al di sotto del livello degli Affari, c’è comunque una opinione pubblica europea che deve prendere ancora le opportune misure al nuovo corso statunitense. Che incassa l’ennesima lezione di democrazia e di vitalità nazionale da parte degli americani, andati tranquillamente a votare ignorando le predizioni apocalittiche scatenatesi un po’ ovunque a proposito dei fatti di casa loro (ma anche di casa nostra) e tornati back home, come sempre, con un risultato chiaro e netto, un Presidente che si insedia tra due mesi ma che già da stasera farà sentire la sua voce, con un paese che si ricompatta – smaltiti i veleni della campagna elettorale più dura da tanto tempo a questa parte – per sostenerlo senza se e senza ma.
Una bella lezione per quella Europa che Donald Trump ha già fatto sapere di non considerare un entità politica, ma piuttosto un’espressione poco più che geografica, preferendo disporsi a trattative con i singoli stati e sulle singole questioni. Dopo la Brexit, un altro duro colpo a quel Congresso di Vienna dei nostri tempi che appare sempre di più essere stato il Trattato di Maastricht.

«Tuttavia, ora, alla fine, sono felice di sapere che si tratterà di un Sole che sorge e non di uno che tramonta»
(George Washington)