giovedì 15 agosto 2013

L'Inferno secondo Dan Brown

Io sono l’Ombra. Attraverso la città dolente, io fuggo. Attraverso l’eterno dolore, io prendo il volo.

Ormai li conosciamo bene, il professor Robert Langdon e il suo padre letterario Dan Brown. Lo scrittore del New Hampshire è al suo quarto best seller avente per protagonista l’esperto di simbologia religiosa ed esoterica di Harvard, e almeno in termini di vendite promette di ripetere il successo che gli è ormai tributato a livelli planetari dai tempi del Codice Da Vinci anche con questa sua ultima fatica ispirata all’Inferno di Dante Alighieri ed alla città che gli dette i natali. E nella quale ancor oggi si possono respirare le sue atmosfere predilette e comprendere la commedia – e la tragedia – sottintese alla sua visione del mondo antico.
La ricetta è sempre la stessa, alla prima pagina si è già proiettati nel vortice dell’azione, con uno stile narrativo che ricorda più quello di Ian Fleming nei romanzi dedicati a James Bond agente 007 che quello di Umberto Eco nei suoi romanzi di ambientazione storica. Azione in luogo di introspezione, come in ogni grande plot americano che si rispetti, ovunque si svolga la scena. Per quanto Brown, figlio di un professore di matematica della Exeter Academy, New Hampshire, possieda e sfoggi una erudizione notevole, la sceneggiatura con lui non va mai in profondità, non c’è tempo del resto.
Stavolta tocca a Firenze, dopo Roma, Parigi e Washington, essere la cornice suggestiva di inseguimenti da brivido, sparatorie e risoluzione di enigmi degni di un Bartezzaghi di annata, il tutto condito da un brivido ogni qualvolta il pur consapevole professor Langdon o i suoi biechi inseguitori sono portati dall’impeto dell’azione a sfiorare pericolosamente qualche capolavoro dell’arte mondiale, lasciandoseli dietro quasi sempre illesi per miracolo. Quasi, perché stavolta al termine di una scena anche in questo caso degna del miglior 007 a lasciarci le penne è nientemeno che l’Apoteosi di Cosimo I del Vasari, attraverso cui piomba nel sottostante Salone de’ Cinquecento il sicario mandato dalla misteriosa Spectre di turno a catturare il professore prestato allo spionaggio ed all’avventura, dopo che nei sotterranei del Vaticano dove gli Angeli erano inseguiti dai Demoni era andato in frantumi un intero scaffale contenente preziosissimi documenti del tempo di Galileo Galilei.
Non si ferma davanti a niente Dan Brown, né con l’iconoclastia sdoganata dal racconto del ritrovamento della discendenza nientemeno che di Gesù Cristo che gli ha dato fama mondiale, né nel proporre sviluppi e soluzioni all’intrigo che non hanno più verosimiglianza del cinema hollywoodiano di cassetta. Neppure al vezzo di concludere la sua fatica come il sommo poeta, con la parola stelle. Ma alla fine, malgrado gli ingredienti migliori ci siano tutti, seguendo l’azione via da Firenze in altre località tempio dello spirito e dell’arte umana si finisce per provare la stessa sensazione che ci da l’assaggio del cibo americano: stesso sapore, stesse sensazioni (o assenza di esse) che ci si trovi nel Corridoio Vasariano o a Palazzo Vecchio a Firenze, oppure nella Chiesa di San Marco a Venezia o a Santa Sofia a Istanbul, Costantinopoli.
I libri di Dan Brown scontano la maledizione di quelli di molti suoi connazionali, soprattutto autori di genere: letto uno, letti tutti. E poiché in fondo non ci può essere colpo di scena più grande di quello che Langdon scopre una volta decifrato il Codice Da Vinci, alla fine questo sequel - come gli altri - lascia assai delusi. Resta l’azione, per chi ama il genere Brown non delude e passerà sicuramente sul grande schermo con grande facilità. Ma non cercate Dante nelle sue pagine, non lo troverete, come non vi avete trovato Leonardo, Galileo o George Washington e Benjamin Franklin stessi.
Eppure, una lancia va spezzata anche per questa letteratura americana che per noi è sempre un bicchiere pieno a metà, perché non tutti gli aspetti sono negativi, anzi. Mettetevi davanti alla Porta del Battistero di Ghiberti con Robert Langdon e Dan Brown, e cercate di immedesimarvi non nei vostri sentimenti (di cittadini che sono passati lì davanti una volta al giorno per decenni, magari senza alzare lo sguardo mezza volta) ma nei loro. Certo, a paragone della descrizione della Biblioteca del monastero benedettino da parte di Umberto Eco/Guglielmo da Baskerville le parole di Brown ne escono con le ossa rotte. Però quanto entusiasmo negli occhi di questi visitatori che vengono dall’altro capo del mondo e che ogni volta sono capaci di emozionarsi come fosse la prima volta. Come forse riusciva anche ai fiorentini quando videro per la prima volta il capolavoro di Lorenzo Ghiberti. Come Dante stesso quando vide per la p rima volta, ragazzino, la rappresentazione di Satana nel Battistero che avrebbe ispirato la sua rappresentazione visionaria dell’Inferno. Come a noi non riesce più da tanto, troppo tempo.
E’ un fenomeno comune alla letteratura ed allo stesso cinema americano quello di essere così distante dai nostri archetipi - e stereotipi - culturali da far pensare che il Mayflower fosse un’astronave interstellare più che un vascello che attraversò l’Atlantico separando europei e americani per sempre. E tuttavia nello stesso tempo di riuscire a trasmettere emozioni (tutto sommato più fedeli allo spirito originale delle nostre opere) in un modo che alla nostra cultura che pretende di continuare a chiamarsi classica non riesce più. Così, per esempio, il Troy di Wolfgang Petersen e l’Achille di Brad Pitt sono quanto di più distante esista al mondo da quello che abbiamo studiato a scuola, nelle lunghe interminabili ore di Epica. Ma se vogliamo essere sinceri, quando sognavamo gli eroi di Omero essi erano come lui, il marito di Angelina Jolie, e abbiamo dovuto aspettare questo regista formatosi alla scuola di Walt Disney perché i nostri sogni finalmente si materializzassero.
Yerebatan, la Cisterna. Dove tutto si conclude.

Alla prossima, professor Langdon. Non ascolteremmo una lezione delle sue per tutto l’oro del mondo, ma la seguiremo sempre, dovunque vada e qualunque cosa trovi.

mercoledì 14 agosto 2013

La rivoluzione delle musicassette


Tempo fa, uno spot azzeccato mostrava una musicassetta e una matita, e una didascalia che recitava: “i giovani d’oggi non sapranno mai che relazione c’è tra questi due oggetti”. Già, come si fa a spiegare ai ragazzi d’oggi, quelli degli mp3, che al tempo dei loro genitori la musica passava attraverso questi oggetti di modernariato che ogni tanto avevano bisogno di riavvolgimento manuale, quando il nastro si incagliava nel walkman, con il meno tecnologico dei sistemi, una matita appuntita infilata al centro di una delle due ruote della bobina?
Cinquanta anni fa la Philips introdusse sul mercato uno degli oggetti più rivoluzionari che la scienza moderna avesse mai messo a disposizione del consumo di massa, dapprima musicale poi d’ogni altro genere. Si trattava di un brevetto tedesco, in origine era stata la BASF, ex IGFarben (la famigerata industria bellica di Hitler) a produrre nastri magnetici su cui poteva essere inciso il suono in entrambi i due lati.
La Philips vi aggiunse il supporto, quel compact cassette trasparente che rese il tutto originale, versatile, di facile utilizzo con i più disparati sistemi di riproduzione, dagli impianti stereo più sofisticati ai lettori da passeggio, gli walkman appunto. Era il 1963 quando i ragazzi si ritrovarono in mano il futuro. Negli anni del boom del rock e della musica come veicolo di modernità e di rivoluzione sociale, l’azienda olandese trovò più o meno consapevolmente la quadratura di un cerchio magico, mettendo alla portata degli adolescenti di tutto il mondo la fruizione di un qualcosa che fino a quel momento era stato al di fuori della portata delle loro tasche. E mettendoglielo a disposizione ovunque, in casa e soprattutto fuori, a scuola, al lavoro, a passeggio, a giocare, a correre, a fare l’amore.
Inizialmente, la Philips prima e le concorrenti poi misero in produzione nastri preregistrati, che trasferivano su supporto diverso la musica del vinile, con i suoi lati A e B. Ma la vera svolta si ebbe con la produzione delle cosiddette “cassette vergini”, registrabili con qualsiasi impianto stereo. Fino a quel momento, i ragazzi si trovavano a casa dei pochi fortunati che potevano permettersi l’acquisto degli LP a 33 giri. Da quel momento in poi, i pochi fortunati dettero il via al più massiccio, incontrastato e incontrastabile fenomeno di pirateria musicale della storia, duplicando i vinili a beneficio di tutti gli amici con buona pace delle varie SIAE mondiali, che sapevano di aver di fronte una battaglia persa. La musica diventò definitivamente un fenomeno di massa ancor più di quanto la radio, Woodstock ed il Rock avessero saputo fare.
Con l’avvento del walkman tascabile della Sony nel 1979 ed il proliferare delle autoradio dotate di riproduttore di cassette, erano veramente pochi i posti in cui la nostra musica preferita (e spesso a costo zero) potesse seguirci, splendida colonna sonora di una splendida giovinezza in un mondo che si apriva ad una tecnologia di cui ancora vedevamo soltanto i lati e le conseguenze positive. Nel frattempo, l’avvento faticoso ma inarrestabile dell’informatica individuava per le cassette nuovi campi di applicazione, i primi Commodore utilizzavano le cassette come supporto per i dati.
Il regno delle musicassette era destinato a durare più di 30 anni, e poteva essere interrotto soltanto da un altro evento epocale. Non l’avvento dei CD audio, che inizialmente costavano quanto e più dei dischi in vinile e non erano masterizzabile, ma bensì a partire dal 2000 quello della musica digitale, gli mp3, contro cui i vecchi nastri (a parità di costo zero, grazie ai vari Napster, Emule & C.) non avevano più possibilità di combattere.
Nell’ultimo decennio la Sony ha messo fuori produzione i Walkman e soltanto la National Audio Company di Springfield, U.S.A., fabbrica ancora le cassette a nastro. A sentire la quale, ne produce e ne vende ancora circa 100.000 pezzi all’anno, una cifra sbalorditiva. Evidentemente, non sono soltanto i genitori cinquantenni (con le loro collezioni registrate in più di trent’anni) gli aficionados del nastro e della matita per riavvolgerlo. Per il vintage, o l’oblio, c’è ancora tempo.

domenica 11 agosto 2013

Storie di ordinaria ingiustizia

TRIESTE - Riceviamo, e volentieri pubblichiamo
A.S. è una persona normale, un padre di famiglia, lavoratore. Mai un problema con la giustizia, mai un’intemperanza, mai una lira di tasse non pagata. Una vita da italiano medio, verrebbe da dire, nell’accezione buona del termine. Una sera d’inverno di quattro anni fa, dopo una cena con gli amici, sta tornando a casa. In pizzeria, ha bevuto un boccale di birra, lo standard di sempre.
La strada è bagnata, ha piovuto da poco. La velocità è nei limiti, ci sono curve in serie e anche a volere non si può correre. La macchina è a posto, la guida esperta, ma le insidie sono sempre in agguato. Succede ai piloti di Formula Un o come ai guidatori normali, basta mettere una ruota su una
striscia di segnaletica a terra umida e l’aderenza va a farsi benedire.
E’ un attimo, A.S. perde il controllo del mezzo e prima di recuperarlo va a sbattere contro un cartello di segnaletica stradale. Per fortuna va piano ed è abbastanza lucido, come può esserlo una persona dopo una giornata di lavoro che ha bevuto una birra al pasto. Il cartello stradale è l’unica vittima dell’incidente, oltre al davanti della sua autovettura, semidistrutto (perché con le vetture di oggi basta appoggiarsi con una mano e si lascia l’impronta).
Una signora che abita nei paraggi, credendo di far bene, chiama i vigili pensando che A.S. abbia bisogno di soccorso. Non sa, non immagina che lo sta condannando a un calvario senza fine. Siamo in Italia, la normativa stradale è diventata molto rigida, come quella dei film americani che abbiamo visto per una vita. Siamo in Italia, e se si ha la disgrazia di essere italiani cittadini registrati, per di più persone normali senza “amicizie” o “conoscenze” quella normativa ce la vediamo applicare fino alle estreme conseguenze, e - come vedremo - anche oltre.
I vigili arrivano subito. A.S. deve sottoporsi agli accertamenti di rito, tra cui la prova dell’etilometro. La normativa prevede una soglia di 0,5 g/l (grammi/litro) per la concentrazione alcolemica nel sangue. Al di sopra (e un boccale di birra ci va ampiamente) si è colpevoli. Ritiro immediato della patente con sospensione per un anno, sanzione amministrativa da determinarsi a cura del Tribunale a cui A.S. dovrà presentarsi al termine di quell’anno, con possibilità di erogazione di sanzioni accessorie, obbligo di frequenza di strutture sanitarie preposte alla prevenzione dell’alcoolismo, sequestro giudiziario del mezzo, che resta sotto la sua responsabilità di custodia a disposizione dell’autorità giudiziaria fino a sentenza definitiva, e relativo obbligo di pagamento di bollo.
Se avesse ammazzato qualcuno, A.S. sarebbe conciato meno peggio. A quest’ora ne sarebbe fuori. Se fosse uno dei clandestini che guidano senza patente sulle nostre strade (anche facendo vittime) non ne parliamo. A quest’ora avrebbe fatto fuori qualche altro cartello, e sicuramente non avrebbe speso una lira di quelle che invece A.S. deve cacciare fuori. A parte l’avvocato, perché in Italia non è possibile difendersi da soli (ammesso di capirci qualcosa nel groviglio di leggi che abbiamo sopra la testa), c’è da pagare la sanzione amministrativa che arriva puntuale dopo un anno, 2.000 euro circa (per un cartello stradale), ci sono da pagare le spese di giudizio, c’è da trovare il modo di andare a lavorare per un anno (non proprio dietro casa), c’è da conservare il mezzo incidentato fino a dopo la sentenza. 
Già, perché se al trasporto di se stesso A.S. fa fronte grazie al buon cuore degli amici, per far fronte alla seconda esigenza la legge stessa gli mette non poco i bastoni tra le ruote. Il suo posto macchina dal 2010 è occupato dal mezzo incidentato, ormai un ammasso di lamiera rugginosa, con buona pace del condominio che comincia a risentirsi. E meno male, perché un posto in un garage o nella depositeria comunale sarebbe costato dio solo sa quanto. La macchina nuova, quando A.S. può ricomprarsela, se ne sta in compenso nel mezzo di strada.
Ma non è finita. Arriva la sentenza, va in giudicato perché A.S. non fa ricorso, frequenta gli alcoolisti anonimi, paga tutto da bravo cittadino e... scopre che c’è stato un errore nel dispositivo, il processo è nullo di diritto, la macchina non può essere rottamata proprio perché un nuovo processo deve essere celebrato, ma non subito, bensì con i tempi della giustizia italiana. Cioè con tutta calma. Il giudice che ha fatto l’errore, in forza di un referendum che il popolo italiano votò tanti anni fa, sarebbe responsabile anche in solido dei danni causati, ma come diceva il sommo poeta Dante Alighieri: “le leggi son, ma chi pon mano ad elle?
Manca una legge attuativa che richiami un magistrato cialtrone alle sue responsabilità, come qualsiasi altra categoria professionale. Manca una norma procedurale che ovvii in via breve a simili situazioni. Si riparte da capo. A.S si riprende un avvocato (a sue spese) e si ripete il tutto, abbiamo scherzato. Questa è la storia. Non è quella di Berlusconi, che comunque le risorse per difendersi bene o male le ha avute e le ha. A una persona normale, la nostra giustizia può rovinare la vita per niente. E almeno in questo è veramente uguale per tutti.