lunedì 22 agosto 2016

DIARIO OLIMPICO: Addio (senza rimpianti) al mondo nuovo



Il primo ad usare il termine Mondo Nuovo fu Amerigo Vespucci, piloto mayor de Castilla, che il 24 giugno 1497 pose piede per primo sulla terraferma del continente che avrebbe portato per sempre il suo nome. A Guajira, nell’attuale Colombia (ironia della sorte, intitolata nei secoli a venire a colui che era stato il Primo dei Primi ma non l’avrebbe mai saputo, o compreso, e sulle cui orme però lo stesso Vespucci si era mosso), l’Europa calpestò per la prima volta il suolo americano.
Amerigo Vespucci a quel punto era un suddito di Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, i soberanos spagnoli che nel giro di pochi anni avevano cacciato i Mori e fondato un Impero su cui il sole non avrebbe tramontato. Ma era rimasto anche legato alla patria d’origine, la Repubblica Fiorentina, e nelle sue lettere a Lorenzo il Popolano, cugino dell’omonimo detto il Magnifico, avrebbe raccontato i suoi viaggi, le sue intuizioni e le sue scoperte, permettendo ai maestri cartografi di individuarlo come il vero scopritore della quarta parte del mondo. Lui, non Colombo, che era partito per primo ma non aveva saputo cosa aveva raggiunto. All’Ammiraglio del Mare Oceano restò intitolata soltanto la prima terraferma toccata dalle navi con le vele crociate. Il continente invece si sarebbe chiamato America.
Tra le terre del Mundo Nuevo, il Brasile fu scoperto per terzo. Colombo stesso arrivò al delta dell’Orinoco (da lui ribattezzato la piccola Venezia, o Venezuela) nel 1498. Pedro Alvares Cabral sbarcò per i portoghesi a Porto Seguro (nell’odierno stato di Bahia) il 25 aprile del 1500. A quel punto, il papa Borja Alessandro VI aveva già tracciato sul mappamondo la famosa linea al largo delle isole del Capo Verde, stabilendo che tutto ciò che era ad ovest avrebbe parlato spagnolo. Tutto ciò che era ad est, portoghese.
E’ um mundo novo con tutti i difetti e pochi pregi del vecchio che lo colonizzò, il Brasile che stanotte ha salutato  e spento la fiamma olimpica. Forse con qualche saudade, nostalgia. Chissà quanto corrisposta dal resto del mondo che se ne torna a casa. Lasciandosi dietro un paese in festa per la vingança, la vendetta consumata nel torneo di calcio ai danni della Germania che due anni fa mise a nudo il bluff dell’ex paradiso del calcio, compiendo il secondo maracanazo della storia verdeoro. Un paese che celebra tra le sue sette medaglie d’oro anche quella sfilata – con le buone o con le cattive – dal collo dell’Italia. Italvolley, come l’Olanda nel calcio, continua a fare i conti con quello zero nella casella delle vittorie del titolo più ambito che cozza terribilmente e dolorosamente con quanto la storia di questo sport ed i meriti acquisiti sul campo altrimenti suggerirebbero.
Lo sconforto delle "Farfalle" italiane dopo il verdetto dei giudici
L’ultima giornata dei trentunesimi giochi olimpici rende meno amaro, paradossalmente, l’addio a Rio de Janeiro ed al suo Pan di Zucchero. Alla fine stucchevole, poco gradevole al di là della facile retorica. L’Italia cade vittima di ben tre imboscate, vedendosi derubricare le ultime tre medaglie. La ginnastica ritmica scende dal podio per questione di centesimi di punto, quanti ne servono all’ineffabile giuria (ma tutte le giurie olimpiche da sempre sono ineffabili) per tirarci su la Bulgaria, il cui peso politico in questa disciplina è evidentemente superiore a quello delle medaglie di bronzo di Londra 2012.
Chissà che peso politico deve avere l’Azerbaigian, perché nella lotta libera maschile a Frank Chamizo – cubano naturalizzato italiano – viene tolto ben più di qualche centesimo di punto per dirottarlo dalla finale per l’oro a quella per il bronzo a vantaggio dell’azero Togrul Asgarov.
Le lacrime di Ivan Zaytsev
Last but not least, il peso politico del Brasile – più ancora di quello pallavolistico – è universalmente noto. Nella bolgia del Maracanazinho un’Italia che fa fatica a trovare il meglio di se stessa lottando contro tutto e contro tutti viene scippata scientificamente di tre punti, in altrettanti momenti decisivi dei tre set con i quali cede ai padroni di casa. Tre punti che l’avrebbero mandata avanti nella stretta finale di ciascuno di quei set. Una volta rovesciati nel giudizio, il Brasile ai vantaggi ha la meglio. Restano negli occhi le bruttissime immagini di Wallace che per poco non amputa la mano al nostro Juantorena, con gli arbitri che danno invasione all’azzurro. E il pessimo gesto irrisorio del prode Felipao, che alla fine schernisce gli azzurri: chiedete, chiedete pure il challenge, noi intanto cominciamo a far festa.
Le lacrime di Frank Chamizo
Lasciamo il Brasile senza nostalgia, con i suoi idoli di plastica ed i suoi successi effimeri e gonfiati da venti che soffiano più potenti che sulla spiaggia di Copacabana. Alla fine, malgrado sviste e furtarelli, il nostro medagliere è egregio: 28 medaglie, 8 ori, 10 argenti, 8 bronzi. Come a Londra 2012 e appena meglio di Pechino 2008. Il nono posto è la nostra dimensione attuale, a prescindere dalle considerazioni di cui sopra e dalle altre fatte in questi quindici giorni a proposito della nostra impreparazione istituzionale allo sport che conta. Con un po’ più di fortuna o di giustizia eravamo davanti alla Corea del Sud, che ha meno medaglie complessive ma un oro in più. Raggiungere la Francia al settimo posto sarebbe stato possibile, ma forse non equo. Tra le 42 medaglie loro (di cui 10 ori) e le 28 nostre c’è tutta la differenza tra una società ed un paese che investono istituzionalmente nella salute ed il benessere dei propri cittadini ed una società ed un paese fermi anche in questo campo al volontariato sociale ed al provvidenziale stellone.
Vincono gli U.S.A., che almeno nello sport si avviano a celebrare un nuovo secolo americano. Sorprendente seconda la Gran Bretagna, la Britannia Felix che non possiamo che invidiare. E’ tutto ciò che vorremmo fosse il nostro paese, e si allontana sempre di più, in fuga. Non è la Brexit, non è l’onda lunga di Londra 2012. La Gran Bretagna si tiene dietro anche la Cina emergente, e per lei vale – amplificato – il discorso fatto sopra per la Francia. Ottima quinta la Germania, non male il quarto posto per una Russia che non doveva neanche esserci, a sentire il Comitato Olimpico Internazionale.
Medagliere finale di Rio 2016
Le nazioni, a prescindere da vittorie e sconfitte, da medaglie d’oro e da medaglie di legno meritate o immeritate, lasciano il mondo nuovo senza troppi rimpianti. E’ un mondo che rischia di passare da una promettente gioventù ad una precoce vecchiaia, se non saprà che fare di se stesso, delle sue potenzialità espresse solo su campi di calcio ed altri courts sportivi. Se non perderà il gusto di vittorie effimere e a volte anche taroccate e non guadagnerà quello delle conquiste di civiltà che ancora mancano un po’ a tutto il Sudamerica. Buona parte di quella quarta parte del mondo che Amerigo Vespucci aveva scritto orgogliosamente di aver scoperto a Lorenzo il Popolano.
Si spengono le note della cerimonia di chiusura più casereccia da tanto tempo a questa parte, per quanto promettente e suggestiva era stata quella di apertura. Una volta Juan Antonio Samaranch, presidente del C.I.O. fino al 2001 e recentemente scomparso, definì le Olimpiadi di Atlanta le peggiori della storia dal punto di vista organizzativo e dello spirito olimpico. I record, anche quelli negativi, sono fatti per essere battuti, e forse Rio de Janeiro c’è riuscita. Questo rimane al Brasile, e rimane al mondo che lo saluta. Da oggi si smontano gli impianti, e si impilano i conti da pagare. Caro Felipao, continua pure a festeggiare. La vita prima o poi presenta a tutti l’esito del challenge..
Adeus mundo novo. Konnichiwa Tokyo-ga.

lunedì 15 agosto 2016

DIARIO OLIMPICO: Il sorriso dell'Italia

Il sorriso di Tania è il sorriso dell’Italia. L’ultimo tuffo della sua carriera costringe i giudici, fino a quel momento di manica stretta, ad alzare un “81” che vale la medaglia di bronzo, il terzo posto sul podio olimpico dietro alle cinesi con le quali, al pari di quanto succedeva con le atlete dell’est europeo di una volta, non è dato competere.
Quinto tuffo: 81, è medaglia
E’ la sesta medaglia olimpica della famiglia Cagnotto, dopo le quattro di papà Giorgio conquistate tra Monaco di Baviera 1972 e Mosca 1980. Le medaglie di Tania invece sono vinte tutte qui, a Rio, alla fine di una lunga rincorsa e di tante delusioni. Gli sport dove decidono le giurie sono così, la politica la fa da padrona. Ma alla fine la grazia e la bellezza di questa tuffatrice prevalgono. Alla fine anche i giudici più severi si commuovono, e dopo l’argento nel sincro con la Dallapé per Tania arriva la consacrazione, la porta d’ingresso nella storia dello sport del suo paese.
Sarà difficile trovare un’erede a questa donna, così come ancora aspettiamo di trovarne uno a suo padre. Di sicuro, se lo vorrà, Tania Cagnotto sarà una splendida portabandiera alle prossime Olimpiadi così come lo sono state Federica Pellegrini, Valentina Vezzali, Sara Simeoni. Grandi signore dello sport, che lasciano un vuoto probabilmente incolmabile.
E’ la medaglia n. 570 nella storia dei Giochi Estivi per l’Italia. Poco dopo arriva la 571. L’Italia – pardon, la Sicilia, perché i nostri eroi vengono tutti da Acireale o da Catania – è seconda solo alla Francia nella Spada a squadre. Ci sono sport che non smettono mai di alimentare il Medagliere italiano. Judo, Scherma, Tiro, Ciclismo. Ce li abbiamo nel DNA? Forse. O forse nel dissesto totale delle nostre istituzioni anche sportive, si salvano le discipline di base, quelle dove contano solo la passione e la partecipazione popolare. La domenica, c’è chi inforca la bicicletta, o va a tirare d’arco o di fucile e pistola, o di scherma, o si butta in piscina. O d’inverno si mette gli sci, o i pattini o monta sullo slittino. Sono questi gli sport che ci tengono nell’alta classifica olimpica. Negli sport a squadre, il Volley e la Pallanuoto azzurri sopravvivono alla morte del calcio, del basket, del tennis, perché forse ancora dalle loro parti girano meno quattrini e meno politica.
Le Olimpiadi, per l’Italia, durano la prima settimana. Poi arriva l’Atletica, e l’Italia sparisce. Se poi ci si mette la sorte, che prima ti regala un Tamberi e poi te lo toglie a pochi giorni dall’accensione della fiamma olimpica, allora è notte fonda.
Siamo un paese di dilettanti, in tutti i sensi. Forse è per questo che almeno nella prima settimana, gli sport dilettantistici ci danno tante soddisfazioni. La storia parla chiaro, la storia siamo noi, con quel quinto posto assoluto nel Medagliere di tutti i tempi quanto a medaglie d’oro (243, dopo il bis di Campriani) e sesto nel numero totale di medaglie (685, dopo il volo di Tania e la grinta di Paolo Pizzo, Enrico Garozzo, Marco Fichera e Andrea Santarelli).
L'abbraccio tra due generazioni di Cagnotto
Ventinove partecipazioni su trentuno (ma nel 1896 e nel 1904, dove risultavamo assenti, l’organizzazione, o per meglio dire la disorganizzazione fu tale da non rendere attendibile qualsiasi statistica), le nostre medaglie sono poco meno di un quarto di quelle degli Stati Uniti, sempre presenti, sempre vincenti e sempre conseguenti al motto mens sana in corpore sano. Gli USA hanno festeggiato l’oro numero 1.000 con la staffetta 4x100 femminile che è stata anche probabilmente l’ultima gara della nostra Federica Pellegrini. Tra loro e noi ci sono anche Gran Bretagna e Germania (nelle sue varie articolazioni del dopoguerra). L’URSS è un ricordo del passato e prima o poi la riprenderemo, la Cina ancora ci sta dietro. Siamo testa a testa con la Francia, qualche oro in più noi, qualche medaglia nel complesso in più loro.
Giorgio Cagnotto, Monaco 1972
Siamo a giocarcela con paesi che investono nello sport, convinti che sia una componente essenziale dell’educazione dei propri figli e del benessere e della cultura dei propri cittadini. Noi siamo a batterci con loro, con la sola forza della passione dei nostri atleti della domenica, che poi diventano campioni in silenzio, e una volta ogni quattro anni ci impongono di ricordarci di loro.

Il sorriso di Tania, di Niccolò, di tutti questi ragazzi è il nostro sorriso. Sarebbe l’ora di ricordarcelo anche dopo che, il 21 agosto, la fiamma si spegnerà e i ragazzi dei Cinque Cerchi lasceranno definitivamente o mundo novo. Questa Rio de Janeiro che per ora per i nostri colori è stata migliore di Barcellona 92 e punta adesso ad esserlo di Mosca 80. Non mettiamo limiti alla Provvidenza, semmai mettiamoli a chi sperpera i nostri soldi, invece di spenderli per il nostro futuro.





L'Italia ai Giochi Olimpici estivi

l'Italia ai Giochi Olimpici invernali

venerdì 12 agosto 2016

DIARIO OLIMPICO: Revocate la medaglia ad Elisa Di Francisca



No, cara signora Di Francisca. Certe iniziative te le puoi permettere quando sei una libera professionista, non quando vai a giro per il mondo a spese del C.O.N.I., e quindi nostre. Se sei nella squadra azzurra di Rio, sei una dipendente dello Stato italiano, appena qualcosa di meno di una militare in servizio. E se ti capita di finire sul podio, ci vai con la bandiera italiana, perdio, non con questo fazzoletto ridicolo, che tra l’altro è poco più di un brand di un associazione di diritto privato di banchieri e speculatori.
Per me la medaglia di questa signora non esiste, non conta nel Medagliere azzurro. E fossi dirigente della sua Federazione, o del C.O.N.I., prenderei in considerazione l’opportunità di sbatterla fuori, radiarla e revocarle la medaglia.
Abbiamo tuti ancora negli occhi il dolore e la rabbia repressi di Fehaid Aldeehani, il tiratore del Kuwait che ha battuto in finale del Double Skeet il nostro Marco Innocenti. E che si è visto avvelenare il giorno più bello – probabilmente – della sua vita dal fatto di non poter salire il gradino più alto del podio sulle note del suo inno nazionale e sullo sfondo della bandiera del proprio paese che sale più in alto di tutte.
A quella persona batto le mani, e le sono nel cuore, al di là di ogni altra considerazione. Non a una cialtroncella che gira il mondo a spese nostre senza rendersi conto nemmeno di dove va e perché ci va, e che soltanto altre due cialtrone come Laura Boldrini e Federica Mogherini potevano applaudire pubblicamente, in spregio anch’esse ai rispettivi ruoli e funzioni.
Possiamo affrontare tutto con serenità e dignità, a cominciare da quella legge di natura che ha avviato al declino autentiche signore del nostro sport, come Federica Pellegrini (bella, bellissima, splendida nella sua divisa di Armani e sotto quella bandiera tricolore), Sara Errani, Roberta Vinci, Jessica Rossi, le ragazze del Volley, e chissà chi altre da qui alla fine.
Ma non possiamo accettare quel fazzoletto con le stellette in mano ad una nostra atleta al posto della bandiera italiana. Di gente come Elisa Di Francisca, che rappresenta solo se stessa a carico del contribuente, non abbiamo e non avremo mai bisogno.
Per me gli argenti azzurri a Rio 2016 sono cinque.

mercoledì 10 agosto 2016

DIARIO OLIMPICO: Il cuore di Federica


Di Federica Pellegrini non posso che ribadire quanto scrissi quattro anni fa. Il tempo purtroppo passa per tutti, anche per i grandi campioni e campionesse. E' arrivata comunque quarta, e anche se non riporterà a casa una medaglia nella gara che una volta dominava, onore al coraggio. "Vado laggiù a battermi". Quanti sono i ragazzi italiani, al di là del talento, che oggi ragionano così?

Si è battuta, ed è arrivata dietro a tre colleghe che hanno solo il merito di essere più giovani, e di liberare con poco sforzo la potenza che lei liberava con nonchalance fino a poco tempo fa.
Onore al coraggio e alla classe. Il C.O.N.I. ha scelto una grande portabandiera anche stavolta, come la Vezzali, la Simeoni, Mennea, Myers e tanti altri.
E lei ha portato la bandiera dove non sarebbe riuscito nessun altro. Chapeau.


lunedì 8 agosto 2016

DIARIO OLIMPICO: La fame sportiva degli italiani



Alle 22,30 circa l’Italia conquista la medaglia d’oro numero 200 della sua storia olimpica. La 199 era arrivata a Londra, sulla punta del fioretto di Valentina Vezzali, che aveva chiuso la sua leggendaria carriera portando il punto decisivo per la vittoria della squadra italiana. E chiuso anche, in ottemperanza alla sciagurata decisione del C.I.O., l’avventurosa storia del fioretto femminile a squadre alle Olimpiadi, che a Rio è stato cancellato dal programma.
La "rabbia agonistica" di Fabio Basile
Fabio Basile sale sulla pedana per spaccare il mondo, oltre al suo ultimo avversario il campione del mondo coreano An Baul che non si aspettava di finire sotto ad un simile tsunami. E lo spacca, prendendo per sé e per l’Italia la storica medaglia. L’Inno di Mameli suona finalmente a bordo pedana del Judo nella Carioca Arena 2, anticipando di poco l’Arena 3, dove Daniele Garozzo conquista la medaglia 201 schiantando nella finale  l’americano Massialas (non prima di averci fatto temere di poter subire una rimonta come quella della ungherese Szasz ai danni di Rossella Fiamingo). Garozzo tiene duro, e porta l’Italia al quarto posto complessivo provvisorio del medagliere di Rio2016.
Dagli sport cosiddetti minori arrivano come sempre le soddisfazioni azzurre. Sport che vivono di vita propria, oltre che della passione di chi li pratica, perché da governo e C.O.N.I. non c’è verso che arrivi un sostegno che uno, se non la stretta di mano del rappresentante di turno quando c’è da salire sul podio e farsi scattare belle foto con medaglie al collo di bei ragazzi e ragazze sorridenti.
Daniele Garozzo, la grande scuola del Fioretto
Siamo un paese che da un paio di decenni non investe più su se stesso. Portato a morire di lenta agonia da una classe politica e dirigente che ormai è autoreferenziata, e dedita soltanto ad investire sulla propria prorogatio come casta ormai scollata dal paese reale. Siamo figliastri di uno Stato che ha sempre investito poco su tante cose, a cominciare dallo sport. Finito nel dopoguerra il dilettantismo di stato felicemente brevettato a livello mondiale dal regime fascista, ci siamo ritrovati più che altro a vivere come sportivi da poltrona, spettatori vittime consapevoli di una dicotomia mediatica. Anzi, per coniare un neologismo, una tricotomia.
Il Calcio, alcuni Altri sport, tutti gli Altri sport. Il Calcio è la passione ed il veleno di ogni italiano che si rispetti. Che si giustificava e si giustifica con l’appartenenza alla maglia ed al campanile, oltre che con il doping di stato del Totocalcio (con la bufala di regime che i proventi andavano anche agli sport minori).
Alcuni Altri sport, quelli che bene o male intravedevamo a scuola, stretti dentro palestre poco più grandi dello stanzino delle scope. Pallacanestro e Pallavolo nascevano lì, e continuavano nel doposcuola, in un’epoca in cui chi era tanto fortunato da non saper giocare a pallone veniva portato da mamme e babbi a giocare ad altro, presso una miriade di società sorte con il boom economico e quello sportivo autogestito. Per i più benestanti, c’erano poi lo Sci, che richiedeva un background familiare non comune a tutti, e il Tennis che si stava allineando ad esso sulla scia dei successi dei Quattro Moschettieri di Coppa Davis, diventando un improbabile sport di massa. Poi c’era il Nuoto, che almeno fino ad una certa epoca i pediatri consigliavano alle mamme più attente allo sviluppo sano ed equilibrato dei propri figli.
Tania Cagnotto e Francesca Dallapé
Infine, c’erano tutti gli Altri sport. L’Atletica la vedevamo una volta l’anno, ai Giochi finali della Scuola (in qualche caso propedeutici a quelli della Gioventù). Il resto era lasciato al buon cuore ed al caso. Siccome però eravamo ancora un paese in cui molti avevano fame, almeno in senso lato, il popolo rimediava come sempre a modo suo alla latitanza delle istituzioni. I fratelli Abbagnale andavano ad allenarsi alle cinque di mattina, prima di andare a lavorare. Pietro Mennea e Sara Simeoni volevano l’oro olimpico ed il record del mondo, ma prima di tutto volevano uscire da una provincia che ancora negli anni Settanta – Ottanta soffocava. I judoka, gli schermidori, i ciclisti erano prima di tutto ragazzi in fuga dal destino. Poi diventavano grandi campioni. Poi lasciavano dietro di sé grandi scuole.
Poi, una volta ogni quattro anni, arrivavano le Olimpiadi. E come successe nel 1983 con Azzurra alla Coppa America di Vela, tutti diventavano appassionati di tutti gli sport. Tutti tornavano ragazzi. In fuga, da una quotidianità dove la fame era progressivamente sparita ma dove ancora si soffocava. E lo Stato, un po’ dappertutto, lasciava vivere su alcune cose ma latitava su tante altre.
Elisa Longo Borghini terza a Copacabana
Siamo un paese che da tanto tempo ha dimenticato da dove viene. E perché. Siamo un paese che si fa invadere, piuttosto che accogliere ed integrare, e che quindi perpetuerà alle seconde e terze generazioni degli immigrati le storture del rapporto malsano tra Stato e cittadini che gli italiani storici hanno sempre patito. Bello vedere le ragazze di colore nella Nazionale di Volley, Paola Egonu e Miriam Sylla, oltre a Valentina Diouf che è stata la prima ma che stavolta è rimasta a casa per scelta del tecnico. Chissà cosa pensano di questo loro nuovo paese. Chissà se pensano la stessa cosa di quelli che ci vivono da sempre. Chissà la fatica che hanno fatto a fare sport, a trovare quello a loro congeniale, nonché impianti adeguati ed efficienti. Ed i loro genitori a portarcele.
Siamo un paese che una volta ogni quattro anni si illude di essere una potenza sportiva mondiale. E il bello è che ogni quattro anni Olimpia alimenta e quasi giustifica questa sua illusione. Ci piaccia o no, ce lo meritiamo o no, siamo al quinto posto nel Medagliere assoluto di tutti i tempi, con 236 medaglie d’oro tra Giochi estivi ed invernali. Roba da non credere.
Abbiamo passato i primi giorni a Rio credendo che la storia finalmente si fosse decisa a presentarci il conto. La sfortuna sembrava essersi imbarcata sull’aereo per il Brasile con gli Azzurri. Ma soprattutto stava emergendo la mancanza di ricambio generazionale, naturale conseguenza di una politica sportiva tendente allo zero.
Il Calcio non finanzia più neanche se stesso, e da due edizioni dei Giochi non è più nemmeno capace di qualificarsi. Il Basket è stato il più pronto ed il più sciagurato nell’adeguarsi. Esportiamo talenti nell’N.B.A. statunitense e poi, anche qui, da Pechino 2008 non riusciamo nemmeno ad andare alle Olimpiadi come ripescati. Vien da pensare che Pallanuoto e Pallavolo siano due isole felici, due sport congeniali a noi come abiti di sartoria, perché continuano a sfornare risultati. Forse hanno soltanto dirigenti un po’ meno preoccupati di se stessi e un po’ più attenti a quello che hanno per le mani.
Insomma, pensavamo che stavolta smuovere il medagliere sarebbe stata un’impresa. Ed ecco due ragazzi che ancora hanno fame, e se la vogliono togliere in discipline che non portano megacontratti e mogli o compagne veline, prime pagine (se non per due giorni in tutta la vita) e sponsor pubblicitari. Ecco dietro di loro altri ragazzi e ragazze a cui manca alla fine un attimo, un metro, uno spunto, un nervo più saldo, ma che comunque portano a casa la loro medaglia che fa quarto posto provvisorio al pari di quelle d’oro.
Odette Giuffrida
Rossella Fiamingo, Odette Giuffrida (a proposito, non si può disperarsi troppo perché l’oro va a Majilinda Kelmendi, ed è il primo della storia per il Kossovo), le splendide Tania Cagnotto e Francesca Dallapé, l’incredibile Gabriele Detti e la stoica Elisa Longo Borghini, che corre una gara massacrante a ridosso del luogo di piacere più famoso del mondo, Copacabana, e per poco non vendica Vincenzo Nibali e tutta la maledetta sfortuna che – come non bastasse quella di venire da un paese dove lo sport è negletto – ha perseguitato gli azzurri nelle prime 48 ore di queste Olimpiadi. E mettiamoci pure la squadra femminile di Tiro con l’Arco, che arriva quarta per colpa di un braccio che trema due volte sulla scoccata decisiva, per la finale e nella finalina, ma sono esordienti, e l’emozione fa pessimi scherzi sotto i Cinque Cerchi. Loro si rifaranno, c’è da scommetterlo, lavorando duro per quattro anni nell’oblio generale, ma si rifaranno.
Siamo quarti, chissà se dura, aggrappati come siamo a Federica Pellegrini, a Gregorio Paltrinieri e a poco altro, in termini di certezze. Oppure a qualche ragazza o ragazzo che ancora si allenano nell’ombra, e magari nei prossimi giorni da quell’ombra usciranno, in termini di imponderabile. Per il momento, possiamo dire che non sarà la peggiore Olimpiade di sempre, come temevamo. A parte due edizioni a zero medaglie, ma erano le pionieristiche Atene 1896 e Saint Louis 1904 (più un Circo alla Buffalo Bill che un’Olimpiade, e secondo il C.I.O. di allora l’Italia neanche avrebbe partecipato, pensate un po’ come tenevano i conti….), finora il peggior bottino era stato a Montreal nel 1976, due ori, sette argenti, 4 bronzi.
Stiamo a vedere. Il furbetto del governino intanto se n’è tornato in Italia, caricando nuovamente famiglia e bagagli sull’aereo presidenziale. Almeno ha dato un passaggio anche a Vincenzo Nibali, che qualcosa alla patria ha donato anche questa volta, una clavicola. Vediamola in positivo: il nostro governo non fa nulla per lo sport e poco per il resto, che almeno non stia lì a intralciare e a gravare sulle spese.
Sarà un caso, ma decollato l’Air Renzi One sono arrivate subito due medaglie d’oro.

sabato 6 agosto 2016

DIARIO OLIMPICO: La festa di Olimpia più bella di sempre al Maracanà

Avevamo lasciato una gran folla festante che parla portoghese a Parigi, poco meno di un mese fa. Ne troviamo un’altra a Rio de Janeiro, ancora più grande. Sono i centomila del Maracanà. Ma stavolta il calcio non c’entra.
Avevamo lasciato il Brasile ferito a morte per la pessima prova della sua Seleçao in quello che doveva essere il suo Mondiale, e che invece si era rivelato il peggior Mondiale di calcio della storia, per i padroni di casa e in assoluto. Lo ritroviamo due anni dopo con l’entusiasmo alle stelle per aver organizzato la XXXI^ Olimpiade, con la testa sgombra da quel veleno che una volta era la sua gioia e la sua ragion d’essere, il futebol. E la voglia di proporre a tutto il mondo qualcosa di diverso, di migliore.
Se il buongiorno si vede dal mattino, cioè da questa cerimonia inaugurale, al peggior Mondiale di sempre forse faranno seguito le migliori Olimpiadi di sempre. Stavolta niente Jennifer Lopez, niente overdose di samba distrattamente e in modo raffazzonato elargita, con l’occhio all’orologio per il fischio d’inizio del match d’esordio dei verdeoro. Stavolta il Brasile fa sul serio. Fa se stesso nel modo migliore.
E’ l’italiano Marco Balich, il progettista di Expo 2015 e dello Juventus Stadium l’ideatore della splendida coreografia che sorprende e incanta tutti, a partire dalle note struggenti di Aquele abraço di Gilberto Gil, la canzone con cui salutò il suo paese al momento di partire per l’esilio nel 1968, durante la repressione del governo militare.
La storia visiva della vita sulla Terra e del Brasile la fanno da padroni stanotte, insieme alla musica che questo paese ha fatto amare a tutto il mondo. Sul palcoscenico che richiama quelle forme di Rio rese immortali dallo scomparso architetto Oscar Niemeyer si alternano le immagini, i giochi di luce e le danze che raccontano il destino di questa terra, dalla prima ondata che portò la vita sotto forma di organismi monocellulari e poi sempre più complessi, alla costruzione del paradiso terrestre da parte degli Indios, alla conquista ed alla colonizzazione portoghese, all’indipendenza ed alla liberazione degli schiavi venuti dall’Africa, all’integrazione ed allo sviluppo urbano moderno con la convivenza di metropoli avveniristiche e favelas.
Alla potenza evocativa e visiva di tutto ciò si alterna la grande musica brasiliana. La chitarra classica di Paulinho da Viola accompagna la più suggestiva esecuzione della Marcha Triunfal, l’inno brasiliano, mai sentita. Alla fine i centomila del Maracanà la cantano a cappella, come due anni fa per la loro Seleçao, ma quanta più grazia e suggestione stanotte! Poi è la volta della Ragazza di IpanemaDaniel Jobim canta per il nonno Antonio, mentre Gisele Bundchen, la modella brasiliana diventata una istituzione nazionale, attraversa lo stadio in tutta la sua lunghezza per la più lunga ed emozionante passerella della sua vita.
Il Brasile celebra le sue eccellenze. Ed ecco allora il tributo ad Alberto Santos Dumont, l’uomo che si contende con i fratelli statunitensi Wilbur ed Orville Wright l’onore di aver compiuto il primo storico volo nella storia umana. I fratelli Wright volarono per la prima volta il 17 dicembre 1903, ma sparati da una specie di fionda. Santos Dumont fu il primo a staccarsi dal suolo con decollo autonomo il 13 settembre 1906 a Parigi con il suo celebre apparecchio 14 bis, di cui una riproduzione viene fatta alzare in volo sul cielo di Rio e ad accompagnarlo è sempre Tom Jobim con la sua Samba do aviao, la canzone della meraviglia per chi arriva a Rio dal cielo.
Ancora grande musica, è Jorge Ben con il suo Pais tropical. Poi è samba, e non può essere altrimenti, con le Scuole che sfilano dietro le loro bandiere anticipando la promenade degli atleti. Ma prima, la degna conclusione di questa cerimonia a bassissima tecnologia e ad altissima coscienza sociale ed ambientalista. Un breve filmato, ma efficace come un cazzotto nello stomaco, che mostra gli effetti dell’inquinamento e del surriscaldamento globale sui cinque continenti che oggi si ritrovano qui, a giocare. E’ un momento da prendere sul serio, potrebbero non essercene più altri in un prossimo futuro.
I Cinque Cerchi disegnati dal coreografo sono verdi, ed hanno un impatto che va ben al di là della loro ragione immediata. E’ la più bella cerimonia inaugurale di sempre.
Arriva il momento delle squadre. La fanfara olimpica richiama tutti al sogno di sempre, quello che ci accompagna fin da ragazzini ai quattro angoli di questa Terra non più spensierata, se mai lo è stata. Stavolta non ci sono discussioni, entra per prima la Madre Grecia. Dopodiché, ad ognuno le sue cineserie. Come a Pechino otto anni fa, si fa confusione con la propria lingua e il proprio ordine alfabetico. La Germania è Alemaña, ed entra per seconda. Gli Stati Uniti sono Estatos Unidos, e si vedono spostare dalla tradizionale collocazione in coda al corteo, quella che secondo loro riscuote più applausi ed impatti mediatici. Un po’ come la collocazione nella scheda elettorale. Solo che qui non si vota, si gareggia. Ed il giuramento olimpico letto dal velista Robert Scheidtenfant du pays, ricorda a tutti come si gioca. Pulito e senza trucchi.
Stona un po’ l’assenza di autorità brasiliane, il paese legale non se la passa meglio di quello reale, a regola. Sona anche l’assenza di autorità sportive come Usain Bolt, e viene da chiedersi perché, senza ricorrere al solito pensar male. Gli assenti stasera hanno più torto che mai. Non stonano per niente le divise della squadra italiana, disegnate da Giorgio Armani, e si vede. Le Olimpiadi della moda le abbiamo vinte noi, nessun dubbio, prima ancora di giocare. E Federica Pellegrini è una gran portabandiera.
E’ il momento della fiaccola, che arriva da Olimpia ad accendere il braciere. Per mesi il Brasile ha sognato che l’ultimo tedoforo potesse essere il suo figlio prediletto, Edson Arantes do Nascimento, la Perla Nera. Ma Pelé versa in cattive condizioni di salute, e già due volte è stato ripreso per i capelli. Mohamed Alì non è più con noi, non si può ripetere la suggestione di Londra. E allora?
E allora il Brasile sconfitto dal calcio e nel calcio dimostra di avere grandi orgoglio e creatività, rialzando la testa nel modo migliore. Nello stadio entra Guga Kuerten, vecchia gloria del tennis di vent’anni fa. A mezza corsa la torcia passa ad Hortensia Marcari, cestista medaglia d’argento ad Atlanta. E poi l’ultimo cambio. Ad accendere la fiamma ci va lui, Vanderlei da Lima, il maratoneta che sognava di arrivare primo da Maratona ad Atene nel 2004, e che invece dovette lasciare via libera al nostro Stefano Baldini complice anche il disturbo di un tifoso. Chi cade e poi risorge (Vanderlei arrivò comunque al bronzo) merita questo onore, dice il Brasile.
I Giochi di Rio 2016 sono aperti. E’ tutto? Non ancora. Regina Casé, popolarissima attrice locale, trova le parole che potrebbero consegnare alla storia questa XXXI^ Olimpiade e tutto quanto di buono saprà ispirare. Cerchiamo le cose che abbiamo in comune e celebriamo le differenze!.
Alle prime Olimpiadi le donne non erano ammesse, quest’anno potranno gareggiare i Transgender. Sempre alle prime Olimpiadi, le razze diverse da quella bianca erano ammesse più che altro come fenomeni di costume, tipo Circo di Buffalo Bill. Adesso, il melting pot brasiliano ricorda a tutti a colpo d’occhio quello che le parole della Case’ suggeriscono.

Ne ha fatta di strada la fiaccola di Olimpia dalla prima volta che partì dal Tempio di Zeus. Chissà se il barone de Coubertin se lo sarebbe mai immaginato.


giovedì 4 agosto 2016

Portare la bandiera



Fra poche ore, al Maracanà di Rio, le squadre olimpiche tornano a sfilare. I Giochi della XXXI^ Olimpiade torneranno a fermare il mondo, o almeno a provarci. Le tregue olimpiche sono sempre più difficili da attuare, ma almeno lo spettacolo che si rinnova di oltre 10.000 ragazzi da tutto il pianeta che sfilano con i colori dei rispettivi paesi mantiene tutta la sua suggestione, per quante illusioni possa aver perso la razza umana da quando Pierre de Coubertin riportò in vita il mito di Olimpia.
E’ un esercito pacifico e gioioso quello dei ragazzi che vanno a prestare il Giuramento Olimpico ogni quattro anni ai quattro angoli del mondo (sarebbero cinque, come i cerchi della bandiera, quest’anno tocca per la prima volta al Sudamerica, manca – ad oggi – la prima volta dell’Africa). E come ogni esercito che si rispetti ha bisogno di un alfiere. Qualcuno che porti le insegne, la bandiera.
Un onore non da poco. Da conferire di volta in volta a chi si è distinto nelle campagne precedenti. Illustrando la patria, come si diceva una volta. Qualcuno - o qualcuna, da quando le donne hanno cominciato a mietere allori olimpici quanto e più degli uomini – che ha già fatto risuonare l’Inno di Mameli in passato, in qualche prestigiosa competizione internazionale.
A Rio, tra poche ore, questo onore toccherà a Federica Pellegrini. E non c’è da discutere. Alzi la mano chi in questo momento è in grado di individuare un personaggio sportivo, uomo o donna, più carismatico in senso umano e sportivo della ventisettenne milanese che cominciò a incantare il mondo  (non solo per la sua avvenenza) ad Atene del 2004, diventando la prima donna capace di riportare l’Italia sul podio olimpico 32 anni dopo Novella Calligaris.
Da allora Federica non si è più fermata, seppur con qualche appannamento e passaggio a vuoto. Come a Londra, quattro anni fa, quando sembrava che il tempo fosse passato inesorabilmente anche per lei, come ha fatto per cannibali come Michael Phelps, lasciandola fuori dal podio sia nei prediletti 200 stile libero che negli ambiziosi 400 (una doppietta che le era riuscita ai Mondiali, ma mai alle Olimpiadi, comunque).
Federica non ha mollato. Aveva la voce rotta dal pianto per la commozione l’anno scorso a Kazan, quando le chiesero di commentare l’argento mondiale appena vinto, unica atleta della storia a salire sul podio in sei edizioni consecutive. Pochi giorni dopo, bis in staffetta 4x200, con entrata in vasca per l’ultima frazione al quinto posto e taglio del traguardo al secondo.
A maggio è tornata a Londra, per gli Europei. Stavolta l’Inghilterra è stata benevola, un oro (nei 200) e tre argenti nelle staffette. Il C.O.N.I. non poteva aver dubbi su a chi affidare la nostra bandiera. Con l’auspicio che le sue braccia siano ancora capaci di sopportare la fatica non soltanto per reggere il tricolore, ma per regalarci un altro sogno in vasca.
E’ l’ultima (per ora) di una lunga serie di signore portacolori dello sport italiano, Federica. Da quando fu introdotta la sfilata preolimpica, a Stoccolma nel 1912, fino a Helsinki nel 1952 erano sempre stati gli uomini a vedersi conferire l’alto onore. Spadaccini di prestigio come Nedo Nadi e Giulio Gaudini, atleti e ginnasti plurimedagliati come Alberto Braglia, Ugo Frigerio e Giovanni Rocca.
Fu Miranda Cicognani, la signora della Ginnastica italiana degli anni cinquanta, la prima donna azzurra a portare la bandiera nella capitale finlandese in occasione della XV^ Olimpiade. Poi ancora una teoria di mostri sacri di sesso maschile, da Edoardo Mangiarotti il re della Scherma (due volte), al suo erede Giuseppe Delfino, al mitico cavaliere Raimondo d’Inzeo (il re di Roma nel 1960), all’istriano marciatore Abdon Pamich, all’altoatesino tuffatore Klaus Dibiasi.
Sara Simeoni a Los Angeles 1984
Nel 1980 le bandiere non sfilarono. A Mosca, gli alleati degli Stati Uniti (che boicottavano protestando per l’invasione sovietica dell’Afghanistan) parteciparono in ossequio al compromesso né bandiere né inni né atleti appartenenti all’esercito. Pietro Mennea, che fu uno degli eroi di quella Olimpiade, dovette aspettare quella di Seoul otto anni dopo per vedersi affidata la bandiera.
A Los Angeles, nel 1984, era toccato nel frattempo di nuovo ad una signora, Sara Simeoni, eroina anch’essa della trasferta in Russia. A Barcellona non si poteva negare l’onore a Giuseppe Abbagnale, uno dei fratelloni del Canottaggio. Ad Atlanta toccò di nuovo alla Scherma. Ma al femminile, perché ormai tutti i successi della nostra grande scuola erano colorati tutti di rosa. Nel 1996 fu Giovanna Trillini. Valentina Vezzali, a cui l’onore sarebbe toccato a Londra nel 2012, ad Atlanta vinse le prime medaglie di metallo pregiato prenotando il futuro.
Valentina Vezzali a Londra 2012
A Sidney, a rappresentare l’Italia del Basket tornata grande, portabandiera fu designato il fresco campione d’Europa Carlton Myers. Ad Atene, la scelta cadde sul monumento della nostra Ginnastica Artistica Yuri Chechi, che aveva mostrato al mondo come si può cadere (Barcellona) e stringendo i denti risorgere (Atlanta). Il canoista più amato dalle italiane Antonio Rossi portò il tricolore a Pechino. Poi Valentina, che chiuse da gran signora la sua carriera a Londra portando alla vittoria un bel manipolo di sue eredi conclamate.
Nel frattempo, i Giochi invernali avevano preso una loro strada, diversa da quelli estivi. Da Eugenio Monti (il mitico vincitore della prima medaglia De Coubertin della storia, per aver prestato agli inglesi Nash e Dixon il bullone di riserva che consentì loro di vincere a Innsbruck nel 1964 nel Bob a 2), a Gustav Thoeni e Paul Hildgartner (entrambi due volte a testa), ad Alberto Tomba, la bandiera era sempre stata un affare da uomini. Fino a Lillehammer, quando passò alla prima vera fuoriclasse donna del nostro sport alpino, Deborah Compagnoni. Poi a Gerda Weissensteiner dello Slittino, a Isolde Kostner e a sua cugina Carolina Kostner. Per finire a Giorgio Di Centa e Armin Zoeggler.
Domani sera, al Maracanà, apre la fila Federica. Un solo augurio: grande Federica. E grande Italia. Una volta di più.

Carolina Kostner a Torino 2006

lunedì 1 agosto 2016

Quel giorno al Nurburgring



La Nordschleife, l’anello nord del Nurburgring (costruito nel 1927 presso Adenau in Renania) era insieme a quello di Monza il circuito più prestigioso della Formula 1. E il più difficile. Era stato disegnato appositamente per portare all’estremo la capacità di resistenza delle vetture e le prestazioni dei piloti. E ci era riuscito puntualmente, nelle ventidue circostanze in cui era stato sede del Gran Premio di Germania.
Enzo Ferrari, Niki Lauda, Luca Cordero di Montezemolo
Era un circuito amatissimo dagli appassionati e detestato dagli addetti ai lavori, i piloti, che già nel 1970 avevano chiesto ed ottenuto la sua messa in mora a favore del più sicuro Hockenheimring del Baden-Wurttemberg. Dopo alcuni lavori di adeguamento, il Nurburgring si era ripreso la titolarità del GP di Germania l’anno seguente, mantenendo peraltro inalterate alcune delle caratteristiche che ne facevano una trappola potenzialmente mortale per i forzati della velocità. Subito oltre i guardrail installati nel 1970 lungo tutti i 23 chilometri del percorso, non c’erano mai o quasi vie di fuga e in alcuni casi c’erano a ridosso di essi pareti rocciose verso cui si arrivava a velocità vertiginosa, come alla curva del Bergwerk dove nel 1976 si decise il suo destino, insieme a quello del più grande pilota di quei tempi.
Andrea Nikolaus Lauda detto Niki era arrivato alla Ferrari nel 1974, in un momento in cui la Casa di Maranello cercava di tornare al successo dopo i dieci anni di digiuno seguiti all’ultima vittoria di John Surtees. Dopo due anni di apprendistato, Niki si era già imposto come il pilota del futuro, quello a cui tutti gli addetti ai lavori avevano pronosticato l'avvenire più luminoso.
Niki Lauda al Nurburgring nel 1975
Nel 1975, al secondo anno di Ferrari, Niki aveva ripagato tutti della stima concessagli, a cominciare dall’ingegner Enzo, portando la 312T al titolo mondiale piloti e costruttori. Era il più veloce, e guidava la macchina più veloce. Proprio al Nurburgring aveva stabilito il record della pista con un favoloso 6’58”6. Nessuno poteva immaginare che il suo record fosse destinato a restare imbattuto per sempre.
Un anno dopo, era il 1° agosto 1976. Niki tornò al Nurburgring con la 312T2, evoluzione della monoposto con cui aveva dominato l’anno precedente, dopo sette gare di campionato in cui aveva proseguito incontrastato il suo dominio. All’avvio del Gran Premio di Germania, era primo in classifica con 61 punti. Secondo era l’inglese James Hunt, l’unico peraltro capace di stare al suo passo, con 29. Sembrava non esserci partita.
Il destino era in agguato alla Bergwerk. La gara, rinviata a causa della necessità di riparare i danni provocati nel corso di quella di una categoria inferiore svoltasi in mattinata, fu rinviata quanto bastava per cominciare dopo che una fitta pioggia si era abbattuta sul circuito. Niki Lauda era tra coloro che avevano montato gomme da pioggia, ma al via la pioggia si era interrotta, favorendo le gomme slick. Il leader del mondiale aveva perso subito posizioni, era rientrato al secondo giro, aveva cambiato gomme ed era ripartito tirando come un forsennato per riprendere la testa della corsa che gli era sfuggita, malgrado il suo distacco in classifica generale gli consentisse anche di assorbire tranquillamente una giornata no.
La Bergwerk era nel punto più lontano dai box. Fu lì che Niki perse il controllo della macchina slittando su un cordolo, schiantandosi contro la roccia retrostante al guardrail, rimbalzando in mezzo alla pista con la vettura subito in fiamme. Dove fu centrato dalle sopraggiungenti monoposto di Harald Ertl, Guy EdwardsBrett Lunger. Un’ecatombe dalle conseguenze drammatiche.
La Ferrari di Niki Lauda in fiamme
Svenuto, senza il casco che gli era saltato via nell’urto, avvolto dalle fiamme e dai vapori della combustione, il pilota della Ferrari sarebbe stato condannato a morte se non fosse stato prontamente soccorso oltre che dai tre suddetti anche dall’italiano Arturo Merzario, arrivato alla curva fatale subito dopo.
Arturo aveva nozioni di pronto soccorso. Durante il servizio militare, raccontò poi, aveva frequentato un corso di massaggio cardiaco e respirazione artificiale, una di quelle cose che si facevano per avere qualche giorno di licenza in più, senza immaginare che un giorno potevano magari tornare drammaticamente utili. Fu lui a tenere in vita Niki strappandolo al suo abitacolo divenuto una trappola mortale e rianimando le sue funzioni vitali fino all’arrivo dei soccorsi.
Quei quaranta secondi abbondanti tra le fiamme deturparono per sempre il volto del campione del mondo, che una volta tornato in pubblico ed alle corse avrebbe peraltro esibito le sue ferite con nonchalance. «Quando mia moglie (Marlene Kraus, n.d.r.) mi vide per la prima volta dopo l’incidente, svenne. Capii così che non ero messo bene. Col tempo, le rughe hanno nascosto le cicatrici, e mi ci sono abituato», raccontò in seguito. «Mi sono sottoposto alla chirurgia soltanto per migliorare la mia capacità visiva. La cosmesi chirurgica è noiosa e costosa, tutto ciò che poteva fare era darmi un’altra faccia. Mi sono preoccupato solo che i miei occhi funzionassero, di tutto il resto non m’importava».
Il ricordo di quel giorno di quaranta anni fa è stampato indelebilmente nella memoria degli spettatori di tutto il mondo, al pari del volto deturpato di Niki con i quali quegli spettatori avrebbero dovuto fare i conti da allora in poi. Cosa successe in quel minuto in cui la vita di Lauda cambiò per sempre e il destino del Nurburgring fu segnato (dall’anno dopo il GP di Germania passò definitivamente ad Hockenheim), lo rievocano efficacemente le parole di Arturo Merzario.
«Ancora non ho capito che cosa mi spinse, quel giorno, a fermare la macchina. Voglio dire: non era il primo incidente drammatico che mi capitava di vedere in pista, e tutte le altre volte mi sono comportato in maniera diversa, ho continuato la mia corsa, come del resto facevano e fanno tutt'oggi i piloti. Quel giorno, però, ci fu qualcosa, e ancora non ho capito cosa, che mi suggerì, anzi mi impose di fare altro, di fermarmi, di scendere dalla macchina e correre verso Niki. Cosa? Domanda da un milione di dollari. È stato un baleno, un lampo. Non pensai a nulla, sopraggiunsi all'uscita della curva e trovai quella roba lì, lamiere e fiamme. Dentro poteva esserci chiunque, Niki, Clay Regazzoni, Jackie Stewart. Vedo la macchina in mezzo alla pista, scendo e corro verso l'abitacolo».
Niki Lauda al ritorno alle corse a Monza 42 giorni dopo l'incidente
Il resto della storia è noto, grazie agli annali della Formula 1, ed anche al film di Ron Howard, Rush, che ha rinfrescato a tutti la memoria su quel terribile 1976 culminato in quel 1° agosto in Renania. Hunt che recupera buona parte del vantaggio su Lauda, il quale decide di tornare in gara a Monza, 42 giorni soltanto dopo lo spaventoso incidente. L’austriaco sembra farcela a difendere il titolo, ma al Fuji in Giappone nell’ultima e decisiva gara, sotto una pioggia ben peggiore di quella che l’aveva quasi ammazzato in Germania, decide che basta così, ci sono cose più importanti nella vita di un titolo mondiale. Scende dalla Ferrari e lascia via libera alla McLaren di Hunt. Che diventa campione per un punto.
E’ storia anche il siparietto con Merzario, che si aspettava da lui almeno un grazie, arrivato goffamente soltanto mesi dopo sotto forma di donazione del celebre orologio d’oro che lo stesso Merzario rifiutò. E’ storia il dissidio gelido e sotterraneo con un Enzo Ferrari che non l’aveva mai amato veramente, pur stimandolo inevitabilmente, e che cominciò a distaccarsi dal suo pilota quel giorno al Fuji, per dirgli addio un anno dopo malgrado Niki si fosse appena ripreso alla grande ciò che era suo, il numero 1 sulla vettura. E’ storia il suo ritiro prematuro dalle corse a fine 1978, il suo ritorno nel 1984 con la McLaren ed il suo terzo titolo mondiale (per mezzo punto sul compagno di squadra Alain Prost), seguito da un nuovo - stavolta definitivo - ritiro.
Niki Lauda e James Hunt
E’ una storia che conosciamo tutti, e che Ron Howard ha romanzato efficacemente. Il povero Hunt non c’è più, portato via pochi anni dopo quei fatti dalle conseguenze di certi suoi eccessi fuori pista. Niki Lauda è ormai un anziano signore che parla con distacco di quei giorni. «Quando, dopo l’incidente, tornai in pubblico e la gente mi guardava, vidi che tutti erano scioccati. Mi mandava in bestia. Pensavo, come possono essere così maleducati da non nascondere le loro emozioni negative riguardo al mio aspetto? Poi vidi il film (Rush, n.d.r.), e mi fece guardare le cose da un altro punto di vista, quello delle altre persone che mi avevano davanti agli occhi. Mi ha aiutato a capire perché tutti erano scioccati”.
Lo siamo ancora. Sono passati quarant’anni. 1° agosto 1976, curva Bergwerk del Nordschliefe von Nurburgring. La Ferrari numero 1 in fiamme. Lì dentro c’è Niki Lauda, il campione del mondo, il nostro campione. Quattro uomini lottano disperati per salvarlo. Lo tirano fuori, è ancora vivo, è una maschera, come il Fantasma dell’Opera. Non è un film fantasy. E’ la storia della Formula 1. La nostra storia.

Niki Lauda oggi