venerdì 30 settembre 2016

Il mio nome è Tex Willer

Era il 30 settembre 1948 quando nelle edicole di un’Italia alle prese con una difficile ricostruzione dalle macerie della guerra mondiale uscì un nuovo albo a fumetti nel formato tipico di quell’epoca, 16,5 x 8 cm. Non per niente si chiamavano strisce, i fumetti d’allora. Assieme al cinema -  chi l’aveva a portata di mano, ancora intero, e se lo poteva permettere – erano il veicolo prediletto dei ragazzi italiani desiderosi di lanciare a briglia sciolta la propria fantasia nelle grandi praterie dell’avventura.
L’albo era pubblicato da una casa editrice milanese, erede della prestigiosa Nerbini fiorentina: la Edizioni Audace, poi Bonelli Editrice, dal nome del fondatore Gianluigi, la cui opera sarebbe poi stata continuata dal figlio Sergio. Protagonista era l’ultimo nato di una serie di personaggi sceneggiati da Bonelli e disegnati da colui che si stava affermando come uno dei più grandi fumettisti dell’epoca: Aurelio Galleppini, che un giorno si sarebbe firmato semplicemente Galep. Una firma che tutti i ragazzi ed anche molti adulti del dopoguerra avrebbero riconosciuto come unica, inimitabile.
Il suo nome era Tex Willer. In pochi anni il suo successo sarebbe stato travolgente, sbaragliando qualsiasi concorrenza. Il figlio dell’allevatore texano ucciso dai banditi, che per vendicare il padre diventa fuorilegge e poi si redime diventando un Ranger del Texas ed il capo della leggendaria tribu dei Navajos con il nome indiano di Aquila della Notte, catturò l’immaginario di bambini piccoli e di bambini cresciuti come nessun altro eroe della cellulosa.
Il successo di Tex fu talmente travolgente da spingere la casa editrice a concentrare i suoi sforzi su di lui, inaugurando la Serie Gigante che, a partire dal novembre 1959 a cadenza mensile e fino ai giorni nostri (attualmente è prossima l'uscita in edicola del numero 700, quella di Tex è la serie più longeva della storia dell’editoria fumettistica italiana), è diventata un appuntamento fisso dal giornalaio per migliaia di lettori di tutte le età.
Narrano le cronache, o forse le leggende, che il suo creatore Galep avesse preso a modello per i suoi schizzi di Tex nientemeno che l’attore cinematografico americano più gettonato dell’epoca, Gary Cooper, reduce da successi avventurosi come il Sergente York, Giubbe Rosse, Per chi suona la campana. Cooper era l’icona per antonomasia, l’archetipo incarnato dell’eroe buono che combatte per affermare i migliori sentimenti in un contesto naturale ed umano ostile, come era appunto il Far West in cui Bonelli e Galleppini erano andati ad ambientare le loro avventure. Di lì a poco avrebbe interpretato la madre di tutti i film western, Mezzogiorno di Fuoco (High Noon) consegnando se stesso ed il regista Fred Zinnemann alla leggenda. I due italiani anticiparono i tempi, scegliendo le sue sembianze per dar vita a quelle dell’eroe di carta più amato di tutti i tempi, non solo in Italia.
Sempre la leggenda narra di un Galleppini in costante evoluzione e ricerca della propria cifra stilistica. Dai primi albi a strisce all’affermazione definitiva della Serie Gigante, i suoi tratti a china cambiarono evolvendosi e diventando sempre più ricchi e definiti nei particolari, fino a fare del loro autore una specie di Gustave Doré del fumetto. Da Gary Cooper, pare che il maestro si spostasse per ispirarsi sulle proprie sembianze, che comunque non si discostavano di molto da quelle della star americana.
Il figlio Sergio Bonelli, che ha tenuto la Casa Editrice dopo la scomparsa del padre Gianluigi nel 2001 e fino alla propria, occorsa dieci anni dopo, raccontò poi che anche altri mostri sacri come John Wayne, Clint Eastwood e Charlton Heston (segnatamente quest’ultimo per la celebre mascella) avevano concorso a disegnare il volto del Ranger nell’immaginario di Galleppini, e poi a consegnarlo al nostro.
Tra le imprese straordinarie di Tex, a fianco delle epiche lotte contro nemici formidabili come Mefisto e accanto a partner favolosi, ammantati di mistero ed esotismo come El Morisco, c’è quella di aver resistito sulle scene per quasi settant’anni malgrado un impianto ed una filosofia apparentemente datati.
Tex Willer è indubbiamente all’avanguardia rispetto ai tempi della sua nascita perché è un difensore dei deboli, tutti, quale che sia il colore della loro pelle. E’ il primo che dipinge gli indiani a tinte positive, in un’epoca in cui i pellirosse sono ancora quelli di Sentieri selvaggi, entità negative minacciose per l’uomo bianco civile e portatore di progresso. Addirittura è proprio un indiano, Tiger Jack, il terzo dei suoi celebri pards assieme al Kit Carson mutuato dalla leggenda del West ed al figlio Kit, avuto – udite, udite – con l’indiana Lilith, figlia di Nuvola Rossa capo dei Navajos, colui che gli lascerà in eredità il sacro Wampum, la cintura del Capo.
Ma è terribilmente indietro per altri aspetti, ossequioso di una censura ormai superata dai tempi e dalle consuetudini in tutte le forme d’arte e di espressione della nostra società. Le donne sono quasi completamente assenti nelle sue storie. La moglie Lilith muore subito uccisa dal vaiolo introdotto nella riserva dai trafficanti di acqua di fuoco e di armi. Altre donne nella sua vita non ne entrano, se non per fugaci e castissime comparse.
La stessa filosofia di Tex e delle sue avventure è un po’ ingenua. La legge rimette a posto tutto. La stella di latta (insieme a qualche sganassone ed alla leggendaria Colt 45) assicura sempre il lieto fine e la riparazione dei torti. Il Grande Padre di Washington e le sue Giacche Blu alla fine rispettano i trattati stipulati con i pellirosse. Magari non subito e non del tutto, ma li rispettano.
Sappiamo bene che non andava, che non è andata così. Ma tuttavia ancor oggi Tex Willer è il nostro eroe. E nelle poco più di cento pagine delle sue avventure che ogni mese troviamo in edicola, il mondo è esattamente ancora come vorremmo che fosse. Come lo sognavamo da ragazzini, quando il primo dei suoi albi ci capitò in mano. E ne abbiamo fatti seguire una collezione intera, che ha accompagnato le nostre vite come una galoppata per le leggendarie piste dell’Arizona.

giovedì 29 settembre 2016

Silvio Berlusconi, 80 anni di storia d'Italia



Compie 80 anni oggi Silvio Berlusconi, l’uomo che – comunque lo si giudichi - ha scritto, o contribuito a scrivere, forse, il maggior numero di pagine della storia dell’Italia repubblicana, insieme a Gianni Agnelli. Il Cavaliere e l’Avvocato. La Finivest e la Fiat, il potere economico e poi politico che hanno determinato e indirizzato la qualità della nostra vita e della nostra storia contemporanea.
Peccato non poterci essere quando tra 100 anni gli storici daranno il loro giudizio definitivo su di lui, Silvio Berlusconi. Chissà cosa avrà prevalso, l’immagine dell’uomo che ha cambiato irreversibilmente la storia d’Italia o quella di colui che ha esaltato in maniera parossistica i vizi peggiori degli italiani? L’uomo che vendeva da giovane scope elettriche porta a porta e che sembrava ad un certo punto addirittura candidarsi a diventare presidente di una Repubblica riformata in senso  presidenziale, o quello che investiva da giovane soldi di cui nessuno ha mai accertato la provenienza (ma molti hanno vociferato a proposito delle più equivoche)? Il demiurgo oppure il grande corruttore (anche se a tutt’oggi degli oltre venti procedimenti giudiziari a lui intentati solo uno è arrivato a condanna definitiva, e con modalità che hanno destato più che qualche perplessità)?
Giulio Cesare, per dirne uno, è considerato unanimemente una delle più grandi figure storiche di tutti i tempi. Genio politico e militare, uomo che cambiò in modo definitivo la storia del suo tempo e di tutti quelli a venire, dai suoi contemporanei fu esaltato o detestato senza mezze misure, né fu fatto oggetto da essi di quel minimo di obbiettività che sarebbe necessario ma che è tuttavia impossibile adottare da parte di chi vive nello stesso tempo della persona in questione. L’uomo che distrusse la Repubblica Romana, oppure l’uomo che permise la nascita e la prosperità dell’Impero Romano. L’uomo a cui si rivolgevano speranzosi e grati migliaia di veterani legionari e l’immensa plebe romana, ed anche quello che i suoi stessi parenti decisero di uccidere con 23 coltellate.
Chissà quanto tempo dovrà passare perché Silvio Berlusconi sia fatto oggetto di un giudizio storico obiettivo. Le passioni del proprio tempo sono sempre troppo intense per permetterlo. E allora chi vuole scrivere su di lui ha di fronte la materia più difficile. Perché da lui e intorno a lui passa tutta la storia d’Italia, e non solo quella degli ultimi 20 anni. Nei primi anni settanta, all’epoca della fondazione della Fininvest e prima ancora della costruzione di Milano 2, giornalisti autorevoli come Giorgio Bocca si chiedevano a voce più o meno alta da dove provenissero i capitali impiegati da questo costruttore che si stava affermando rapidamente, in un panorama nel quale, nell’Italia di allora del boom economico, di costruttori edili ce n’erano a bizzeffe.
Finanziatrice di molte delle sue opere era la banca d’affari Rasini, di cui suo padre era amministratore delegato. E dentro cui è stato detto che transitasse denaro di provenienza non proprio limpida depositato da signori che non erano propriamente benemeriti della Repubblica, da Michele Sindona a Bernardo Provenzano e Totò Riina, da Roberto Calvi a Licio Gelli a Monsignor Paul Marcinkus. Niente di tutto ciò ovviamente è mai stato provato, almeno sotto il profilo del riciclaggio di denaro poco pulito. Ma materia per dubitare ce n’era, come del resto è legittimo che sia.
A fine anni settanta, un Berlusconi che aveva ormai raggiunto prestigio e notorietà e fondato la sua creatura più importante, la Fininvest, acquisì due titoli che alimentarono entrambi i filoni della sua leggenda, quella bianca e quella nera: il Cavalierato del lavoro (per cui da allora è il Cavaliere, come Agnelli appunto era l’Avvocato) e la tessera della Loggia di Propaganda 2. E’ storia che conoscono tutti, anche senza aver letto Giorgio Bocca o Marco Travaglio. Da lì in poi, il mito dell’imprenditore di successo che rappresentava il sogno italiano al suo meglio e quello dell’intrallazzatore che realizzava per conto proprio o di altri il piano di rinascita democratica elaborato dalla P2 procedettero di pari passo. Da lì in poi, non fu più questione di obbiettività, ma più spesso di ideologia o simpatia a pelle, ed ognuno scelse la leggenda che più gli si confaceva.
Un punto in particolare di quel Piano, qualunque fosse il suo rapporto con chi l’aveva ideato, l’imprenditore Berlusconi dimostrò di apprezzare e di voler realizzare: «il vero potere risiede nelle mani di chi ha in mano i mass media». Certo, non ci voleva Licio Gelli per una intuizione del genere, bastava aver visto Quarto Potere di Orson Welles. Da che esistono l’industria e la stampa, gli industriali hanno sempre cercato di possedere quotidiani prima e televisioni poi. Fatto sta che non appena nel 1976 la Corte Costituzionale liberalizzò le frequenze televisive sottraendole al monopolio di stato, Berlusconi fu uno dei primi ad intuire la potenza dell’arma di cui all’improvviso era possibile dotarsi. Con l’acquisto di Canale 5 Silvio Berlusconi fece l’ultimo e decisivo passo verso la storia che tutti conosciamo.
Profondamente anticomunista, grande comunicatore esperto di marketing (non per nulla la sua tesi di laurea riguardava la pubblicità a pagamento sui media), grande istrione capace di tenere avvinta con le sue parole apparentemente spontanee ma in realtà attentamente calibrate una platea variegata, il Tycoon Berlusconi usò i suoi mezzi di informazione, le reti Mediaset, il Giornale (per poco) di Montanelli e le case editrici che stava acquisendo, per la propaganda dapprima in favore dell’amico Bettino Craxi, segretario del P.S.I. anticomunista quanto e più di lui, e poi in favore di se stesso.
Quando venne il momento di scendere in campo, nel 1994 dopo Mani Pulite e la fine della cosiddetta Prima Repubblica, nessuno poteva meravigliarsi delle sue capacità di rivolgersi al più eterogeneo elettorato che la storia d’Italia ricordi e di convincerlo (nel più breve tempo che la stessa storia registri) ad affidarsi a lui. Nessuno poteva meravigliarsi, se non i suoi avversari politici che credevano di aver fatto o ottenuto tutto ciò che serviva a vincere, con l’abbandono della Falce e Martello, il crollo del Muro di Berlino e la fine dei partiti di governo sotto la spinta del Pool di magistrati di Milano. E invece scoprirono che c’era una parte del paese per nulla convinta della gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, e che a quella parte Silvio Berlusconi aveva saputo parlare. Loro invece no.
Sui vent’anni in cui Berlusconi ha governato o ha fatto opposizione a Prodi, D’Alema o chi per essi, i vari alter ego che la sinistra gli ha opposto a partire dalla fine anni novanta, si esprimerà la storia, e giustamente. Quello che si può dire senza mancare di obbiettività allo stato attuale, è che il politico Berlusconi si è dimostrato – a prescindere da qualsiasi considerazione sulle sue motivazioni e le sue finalità – di un’altra categoria rispetto ai suoi competitors.
Anche adesso che per età e per vicissitudini personali e politiche sembra ai margini del gioco, l’onda lunga delle conferme di quanto sopra continua a lambire la nostra vita pubblica. In un panorama politico che sembra ritornato quello dei tempi della televisione in bianco e nero, con una serie di governi tecnici o comunque non votati ma piuttosto subìti dalla gente che insieme all’esplodere di scandali da far impallidire il ricordo di Mani Pulite hanno di fatto favorito un pericolosissimo distacco di quella stessa gente dalla politica, il periodico riapparire dell’ex premier Silvio Berlusconi ha continuato a bucare lo schermo come ai vecchi tempi.
Quando scelse finalmente di affrontare la sua Nemesi Marco Travaglio in una puntata di Servizio Pubblico di Michele Santoro divenuta storica, il Cavaliere ottenne un risultato molto più significativo dei nove milioni di spettatori registrati quella sera. Sancì il ritorno (momentaneo) del colore, in senso figurato ma anche sostanziale, in quella campagna elettorale di allora e in generale in una vita politica e civile che é sembrata in seguito destinata all’encefalogramma piatto ed avviata verso la crisi della democrazia in Italia.
Fu l’ultima volta che il centro-destra sembrò avere un unico leader effettivo, capace di rimettere in moto l’intero sistema politico italiano azzerato ed avvilito dal governo burocratico-bancario dei professori prima, e da quello riformistico-ciarlatanesco degli affabulatori poi.
Fu anche l’ultima volta che il sistema politico italiano poté godere, beneficiare (si fa per dire) di quella tendenza alla semplificazione che ne ha avvelenato il funzionamento negli ultimi vent’anni: o con Berlusconi o contro Berlusconi. E tutti contenti, nessuno escluso, perché era tutto molto più semplice piuttosto che elaborare un programma politico in grado di dare risposte alla crisi economica che attanagliava ed attanaglia tutt’ora il nostro paese ed il nostro continente.
Come già successo per Mussolini ed il Fascismo, con Berlusconi in campo il quadro era semplificato a prescindere, o pro o contro, e pazienza se la gente aspettava di sapere cosa avrebbe fatto il prossimo governo per risollevare l’economia degli anni 2000.
In quel quadro politico, comunque, era indubbio che il Grande Comunicatore avesse avuto una marcia in più, e fosse riuscito a toccare corde nell’elettorato di cui gli altri ignoravano e ignorano l’esistenza. Come la Thatcher nella Gran Bretagna degli anni 80, dominatrice assoluta della scena finché il Labour Party non seppe opporle un alter ego capace di dispiegare la stessa efficacia ma nel campo opposto, Tony Blair, così anche il Partito Democratico sembrò però alla fine aver trovato il competitor adatto a confrontarsi non tanto con un Berlusconi avanti negli anni e nel frattempo alle prese anche con la propria salute, quanto con il berlusconismo come sistema, perché - come il Cavaliere - apparentemente capace di parlare agli elettori nel modo in cui essi vogliono, a torto o a ragione, che ci si rivolga loro.
Matteo Renzi, anch’egli personaggio controverso di questo scorcio di storia politica italiana, amato o odiato senza mezzi termini ma comunque dotato del dono di saper parlare al popolo scegliendo toni e argomenti giusti, è nel frattempo diventato molto più che il leader del centrosinistra. Gli ultimi gesti politici rilevanti di Silvio Berlusconi, prima dell’infausta campagna elettorale amministrativa a Roma, sono stati non a caso quelli di benedire la vittoria di Renzi alle primarie del PD, e poi di stipulare il patto del Nazareno, dove è stato disegnato il percorso politico-istituzionale che stiamo attualmente compiendo. Basato sull’intuizione, interessata e condivisa dallo stesso PD, che la forza antisistema di Beppe Grillo e dei Cinque Stelle fosse un pericolo ulteriore per quella democrazia che essa si proponeva di rifondare, oltre che per le rendite di posizione vigenti.
Nell’allora giovane sindaco di Firenze l’allora leader del PDL riconobbe inevitabilmente un antagonista più formidabile di quanto la sua età gli avrebbe forse consentito di affrontare, ma nella sua ascesa scorse anche la non necessità di un simile antagonismo. Paradossalmente, Renzi era colui in grado di portare a compimento il suo stesso programma. Magari accentuandone molti aspetti in senso più confusionario e meno liberal.
Ma si sa, questi ragazzi non son più quelli di una volta, e nemmeno le scuole che hanno frequentato. Si fanno prendere dall’affabulazione e dall’entusiasmo. Eventualmente, per dare consigli preziosi, le porte di Arcore per Renzi c’è da scommettere che sono  comunque aperte. Poi, come sempre, sarà quel che il popolo italiano vorrà.

martedì 27 settembre 2016

L'ultima bandiera



Il romano dagli occhi di ghiaccio. Ce li ricordiamo tutti, quegli occhi in primo piano, negli istanti che precedevano il momento più critico di quella che sembrava l’ennesima problematica, drammatica spedizione azzurra ai mondiali.
Italia – Australia, Kaiserslautern, 26 giugno 2006, Ottavi di Finale del Mondiale di Germania. Gli azzurri in dieci per metà partita, dopo l’espulsione di Materazzi. Gli aussies che d’improvviso sembrano diventati uno squadrone. Mettono alle corde i ragazzi di Marcello Lippi al punto di rendere inimmaginabile un miracolo come quello di dodici anni prima contro la Norvegia. Unica speranza di evitare l’ennesimo ignominioso ritorno a casa, di prolungare l’avventura che prometteva così bene, la lotteria dei calci di rigore.
Il rigore arriva, ma non è il primo della serie di cinque, dopo i supplementari. Al 1° minuto di recupero Fabio Grosso va via a Bresciano ed entra in area. Neill platealmente lo stende. L’arcigno arbitro Medina Cantalejo non può avere dubbi, e non li ha. Il problema è: adesso chi ci va sul dischetto a tirare uno dei rigori più pesanti della storia del calcio italiano?
Ci va lui. Ci era già andato a Rotterdam, terzo di una serie di azzurri che avevano resistito – anche lì in dieci – agli arrembaggi degli orange olandesi e, grazie alle parate di Toldo, si preparavano ad eliminarli clamorosamente dalla loro finale. Se ne uscì con un cucchiaio che irrise un mostro sacro come il portiere van der Saar, e sancì il passaggio del turno dell’Italia. I tifosi non si misero le mani nei capelli, né sul cuore che aveva mancato di battere un colpo. Non era uno sconsiderato qualsiasi, un matto pur dotato come tanti. Era il migliore, uno dei migliori di sempre. Francesco Totti.
Sei anni dopo, eccolo di nuovo sul dischetto che scotta. Stavolta non ride Francesco. Non ha voglia di ridere, non ha in mente niente suggeritogli dal genio. Ha solo voglia di buttare dentro quel pallone, alle spalle del portiere Schwarzer, e di buttare avanti l’Italia, una volta di più.
E’ stata lunga e dolorosa la strada di Francesco per arrivare su quel dischetto. Dalla reazione scomposta alle malversazioni di Poulsen a Guimaraes, Portogallo, Europei del 2004 – una reazione che costò a lui tre giornate e all’Italia il probabile passaggio del turno, con il celebre biscotto scandinavo – all’infortunio che nel febbraio 2006, complice uno scontro con Richard Vanigli durante Roma-Empoli, gli era costato il perone e per poco anche la convocazione ai Mondiali di Germania.
Recupero a tempo record di Francesco. Er pupone ha un carattere d’acciaio. Quando serve, sa anche ridere di se stesso, come ha dimostrato diventando l’editor delle più divertenti barzellette su e di Francesco Totti. Quando serve altro, diventa una specie di Superman, caricandosi sulle spalle se stesso, Roma, la Roma, l’Italia, il Mondo, la sorte. E questo sport di cui è negli anni diventato l’ultima icona. L’ultima bandiera.
In Germania ci va, ma non è il Totti che trasforma in oro ogni pallone che tocca, è già un mezzo miracolo che ci sia. Lippi lo deve usare a dosi. Fino al 26 giugno. Al 91° di quell’Italia-Australia, il pallone si è fatto di cemento, il dischetto del rigore scotta. Chi ci va? Che domande, senza esitazioni ci va lui.
Gli occhi di Francesco per qualche istante sembrano quelli di Clint Eastwood. Poi, l’apoteosi tricolore. In quel momento, er core de Roma diventa definitivamente patrimonio nazionale. Cuore d’Italia. L’ultimo di una dinastia di numeri dieci leggendari. L’ultimo ad alzare la Coppa del Mondo. Da Kaiserslautern a Berlino, saranno altri a segnare i gol decisivi per prendersi quella Coppa, ma tutto nasce da lì, da quel rigore che nessuno voleva tirare. Senza del quale, una volta di più, il sogno sarebbe diventato incubo.
Compie oggi quarant’anni Francesco Totti. E gioca ancora. Domenica scorsa la Roma ha perso a Torino con i granata, ma il gol giallorosso l’ha segnato lui, ancora una volta su rigore. A quarant’anni la gamba non trema come non tremava a trenta, a venti, a dieci. E’ il gol numero 250 nel campionato italiano. Un altro capitolo della sua leggenda personale, e non è finita. E’ a 24 lunghezze dal miglior realizzatore di tutti i tempi, Silvio Piola, eroe dei Mondiali del 1938. L’eroe di quelli del 2006 insegue il mito, per diventare il migliore in assoluto.
Ogni anno lo danno per finito. Ogni anno tutti scrutano l’espressione del suo allenatore, quel Luciano Spalletti al posto del quale tutti vorrebbero essere e nessuno vorrebbe essere. Lo metterà fuori er pupone stavolta?
Già, facile a dirsi. Nelle ultime tredici partite tra la fine del campionato scorso e l’inizio di quello attuale, il vecchio Totti ha messo insieme qualcosa come 6 gol e 5 assists. La Roma avrà anche allestito uno squadrone, ma è dov’è soprattutto grazie a lui, che in quanto a squadroni romanisti ne ha visti almeno altri due, e di tutti è stato l’indiscusso capitano.
Doveva finire alla Lazio, nel 1989, ma nel suo destino c’era la Roma, e soltanto la Roma. Fu il compianto presidente Dino Viola a strapparlo agli odiati cugini, avendone intravisto le potenzialità già a 12 anni. Fu Vujadin Boskov (quello che sapeva bene cosa c’era in testa di giocatori, e capì al volo cosa c’era nella sua) a farlo esordire in serie A, a sedici anni. Vittoria, come succede ai predestinati. Fu Carletto Mazzone, altro core de Roma, a lanciarlo.
18 marzo 1993, Francesco Totti debutta in serie A, Brescia - Roma 0 - 2
Fu Carlos Bianchi, il problematico allenatore argentino del primo anno di gestione Sensi, a cercare di tarpargli le ali mettendolo in panchina perché immaturo. Francesco si riprese la maglia da titolare a furor di popolo romano, Bianchi fu messo in fuga. Da allora, la maglia numero dieci è stata soltanto sua, nessuno l’ha più messo in discussione. Nemmeno la sua fascia di capitano.
Nel 2001 con Capello arrivò lo scudetto, negli anni successivi una serie di sfortunate partecipazioni alla Champion’s League e tanti tentativi giallorossi di accreditarsi come unica antagonista effettiva prima della Juventus di Moggi e poi dell’Inter del Triplete. Altri scudetti sfiorati, altre Champion’s svanite. Tante offerte per andare a cercare fortuna altrove, dove sarebbero arrivate forse le vittorie ed i riconoscimenti.
Alle offerte rispondeva sempre mamma Fiorella, come quella prima volta in cui il figlio aveva appena dodici anni: «…..qualcuno bussò alla porta del nostro appartamento di Roma», racconta Totti. «Ad aprire andò mia madre Fiorella. Le persone che erano dietro la porta avrebbero potuto cambiare la mia carriera calcistica. Quando aprì la porta c’erano dei signori che si presentarono come dirigenti sportivi. Ma non erano della Roma: indossavano indumenti rossi e neri. Erano dell’AC Milan e volevano che andassi a far parte della loro squadra. A tutti i costi. Mia madre alzò le braccia al cielo. “No, no” rispose ai dirigenti e fu tutto ciò che disse “Mi dispiace. No, no”. Fine del discorso. Il mio primo trasferimento era stato rifiutato dal “boss.” Solo qualche settimana più tardi, venni scelto durante una partita giovanile e la Roma mi fece un’offerta. Sarei diventato giallorosso. Mia mamma se lo sentiva».
A quarant’anni, Francesco Totti non ha in bacheca nemmeno un Pallone d’Oro. Come dice proprio mamma Fiorella, «Francesco a casa ne ha tre di palloni d’oro, la moglie e i tre figli». E va bene così. E’ un’ingiustizia del resto che lo accomuna a tanti. Viene alla mente un nome su tutti, quello di Giancarlo Antognoni, predestinato alla maglia viola come lui a quella giallorossa, core di un’intera città. Bandiera mai sgualcita, sopravvissuta ad un mondo che fu, e che continua orgogliosa a sventolare in un mondo che di bandiere non ne concepisce più.
Auguri capitano. Finché gioca Francesco Totti, gioca la nostra infanzia, ed il nostro mondo che non c’è più e non vuole saperne di sparire.

Molti mi chiedono, perché hai passato tutta la tua vita a Roma? Roma rappresenta la mia famiglia, i miei amici, la gente che amo. Roma è il mare, le montagne, i monumenti. Roma, ovviamente, è anche i romani. Roma è il giallo e il rosso. Roma, per me, è il mondo. Questo Club e questa città sono stati la mia vita. Sempre».
(Francesco Totti)

4 dicembre, si vota



Alla fine, Matteo Renzi cessa di tenere in ostaggio un intero paese e la sua Costituzione, e stabilisce la data in cui si terrà il referendum confermativo della riforma approvata dal suo governo in aprile. Si voterà il 4 dicembre, con il Natale alle porte. Saremo tutti più buoni, come auspica il premier stesso. E forse saranno successe alcune cose, capaci di spostare ancora l’ago della bilancia.
Matteo Renzi Presidente del Consiglio dei Ministri
Radio Palazzo Chigi riporta rumors insistenti circa le valutazioni che avrebbero spinto Renzi a far slittare il più in là possibile la data della consultazione. Anzitutto, ci sarebbe più tempo per stanare gli indecisi, determinanti in quello che – a stare ai sondaggi – si delinea ormai come un testa a testa. Poi, ci sarebbe il tempo di approvare la legge di stabilità alla Camera e magari anche al Senato, almeno in Commissione Bilancio. Ultimo, ma forse più importante, ci sarebbe la possibilità teorica di sfruttare l’effetto paura che potrebbe arrivare in Italia dall’Austria, dove in quei giorni si rivota per le presidenziali e dove Norbert Hofer, leader dell’ultradestra, è uno dei favoriti. Per non parlare di un eventuale effetto Trump, altro spauracchio da agitare, almeno nell’immaginario della sinistra di governo.
Sarà il 4 dicembre dunque l’Armageddon, l’Apocalisse, la Fine del Mondo come l’abbiamo conosciuto. Dopo l’ambasciatore americano John R. Philips, si sono mosse più o meno tutte le personalità più eminenti dell’Unione Europea a spiegare agli italiani cosa succede se voteranno dalla parte sbagliata. Dio forse non vi vede in cabina elettorale, ma Schauble sì. E così, c’è il rischio adesso che gli italiani non sappiano più a che santo votarsi.
Nel frattempo, il Grande Comunicatore e Rottamatore non tralascia nulla. Mette a punto uno spot a favore del governo e della riforma addirittura sulla Gazzetta Ufficiale, cosa che al suo predecessore Berlusconi (uno che di marketing politico se ne intendeva non poco) non sarebbe neanche venuta in mente: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?». Questo sarà il quesito che troveremo nella scheda, giudichi ognuno.
Escamotages a parte, venendo alla sostanza sembrava già fatta per il NO, soprattutto a quello a Renzi più che alla sua riforma. Nelle ultime settimane la partita pare invece riaprirsi. Al punto che il primo governo della Terza Repubblica pensa a torto o a ragione di giocarsela come fosse l’ultimo della Prima. Dopo sei mesi, che diventeranno otto con l’interpretazione disinvolta della stessa Costituzione che si va a riformare, la questione è più o meno a punto e a capo.
Giuseppe Piero Grillo detto Beppe, leader del Movimento Cinque Stelle
Il paese è a punto e a capo. Nei dibattiti, le ragioni del NO si confrontano con quelle del SI con toni e argomentazioni sempre più indegne di una riforma nientemeno che della carta fondamentale, delle regole del gioco. Ma proprio quelle regole sono ciò che interessa meno a tutti. La questione reale sul tavolo investe la sopravvivenza di governi, forze politiche, schieramenti che hanno fatto di questo nuovo assalto al Titolo V e precedenti l’ultima loro frontiera. E, dal loro punto di vista, a ragione.
Quando Renzi disse, o con me o contro di me, fu probabilmente sincero come mai prima e dopo in vita sua. E gli fu risposto, da ambo le parti che si stavano delineando nella casta politica e nel paese, con altrettanta sincerità. Si può discutere all’infinito sulla bontà o meno delle norme introdotte o riformate dal Decreto Boschi, sul Si e sul NO. Il punto non è quello.
Il punto è che forse per la prima volta nel dopoguerra si è rotto quel patto tra gentiluomini che portò alla stipula ed approvazione della Costituzione del 1948. Le forze politiche di allora, comunque la pensassero su tutto il resto, convennero quasi all’unanimità sulla necessità di lasciare in eredità al futuro dell’Italia una Carta che evitasse ad ogni costo il ripetersi di esperienze tragiche da cui esse stesse erano appena uscite. In altre parole, che scongiurasse per il tempo a venire il riformarsi di un esecutivo forte. Come quello magari contro il quale avevano dovuto imbracciare le armi da poco deposte.
Maria Elena Boschi Ministro per le Riforme Costituzionali
Di più. Riuscirono a lasciare in eredità alle generazioni successive prima ancora che le norme fondamentali il sentimento che le aveva ispirate. Un sentimento di attaccamento alle pur bistrattate e mal funzionanti istituzioni repubblicane. Un sentimento che aveva resistito a vari tentativi di manomissione da parte di destra e sinistra parlamentari. Un sentimento che è venuto meno nell’Italia post 2011, quando è stato chiaro che le regole si facevano altrove, e che lo stesso presidente della repubblica non era più il garante di niente, almeno di niente che fosse scritto nella Carta del 1948.
L’apprendista stregone Renzi dunque beneficia di una frattura nel continuum spazio-temporale (come direbbero i grandi autori di fantascienza) della Repubblica, e tenta la sorte già tentata in passato – ma anche nel presente – da altri soggetti, o per meglio dire figuri politici altrettanto equivocamente intenzionati.
Abbiamo già scritto in passato di come l’Italicum di Renzi, il primo passo verso il suo Nuovo Ordine, ricalchi in maniera ancora più sfrontata la Legge Acerbo che favorì la presa del potere di Benito Mussolini. Basterebbe questo a richiamare in vita lo spirito del 1948. A farne soffiare di nuovo il vento forte e possente.
Chi pronuncia NO e SI con voce normale, sommessa, in questi giorni, rischia semplicemente di non essere sentito nel marasma, nell’urlio generale degli opposti squadrismi (per ora soltanto ideologici). Ciò che si sente, ed in modo sempre più sinistramente distinto, è appunto l’urlo di chi vuole prevaricare il sistema, non riformarlo o migliorarlo.
Virginia Raggi Sindaco di Roma
La commedia referendaria va in onda in contemporanea alla tragicommedia del Comune di Roma. L’accertata incapacità del Movimento Cinque Stelle di accreditarsi come forza di governo (non riescono a fare una Giunta al Campidoglio, figuriamoci una compagine che regga Palazzo Chigi meglio dell’Armata Brancaleone del Partito Democratico) aggrava, anziché semplificare, il quadro politico e sociale complessivo. E la figura di Beppe Grillo finisce per destare non meno inquietudini di quella di Matteo Renzi.
Considerata dal punto di vista dei cittadini pressoché inermi in questa contesa, la questione è chiara. E’ il caso di mettere in mano a forze assolutamente inaffidabili come gli attuali due terzi del Parlamento in carica (illegalmente tra l’altro, ricordiamo, come dichiarato dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 1/2014, ben dopo quindi la sua elezione) uno strumento come una Carta Costituzionale riformata nel senso di rendere il Senato un organismo di nomina regia, come nemmeno nello Statuto Albertino o durante il ventennio fascista?
E’ il caso di dare a questa gente addirittura un premio di maggioranza superiore al doppio dei voti eventualmente presi? Che sia Grillo o Renzi, che sia Boschi o Raggi, è il caso?
La cultura democratica e legalitaria è sempre più ai margini della vita sociale (lasciamo perdere politica) di questo paese. Che ha tempo circa sessanta giorni per decidere di che morte deve morire. E se è più giusto avere paura dei cosiddetti mostri che vengono dall’estero, o non piuttosto di quelli che ci siamo allevati in casa.

venerdì 23 settembre 2016

La fiamma olimpica si spegne a Roma



A proposito di Olimpiadi a Roma. La posizione assunta dall’Amministrazione Comunale di Roma sulla candidatura alle Olimpiadi del 2024, e che bissa clamorosamente quella assunta quattro anni fa dal governo Monti, rischia di passare alla storia come un impulso decisivo al crack economico italiano, così come il precedente di segno opposto del 1960 - è opinione comune  - fu determinante per il definitivo decollo di quello che è stato chiamato boom economico, l’irresistibile ascesa del nostro paese nel consesso delle nazioni moderne ed economicamente avanzate.
Virginia Raggi Sindaco di Roma
La posizione assunta da Giovanni Malagò, a prescindere da come si valuti la sua azione complessiva di presidente del C.O.N.I. (abbiamo scritto più volte su questo giornale lamentando le critiche condizioni in cui versa lo sport in questo paese), è su questa questione a giudizio di chi scrive ineccepibile. Dice Malagò, dopo il no della Raggi: abbiamo perso, sarebbe possibile andare avanti lo stesso, per non disperdere tempo, soldi ed energie spesi in questi anni sulla candidatura di Roma. Ma siamo consapevoli che difficilmente il C.I.O. reputerebbe credibile una candidatura avversata dalla stessa amministrazione che dovrebbe sostenerla. Il discorso è chiuso, ma è l’Italia a rimetterci.
Dopo il Giochi del 2020, boicottati da Mario Monti, Roma e l’Italia salutano infatti anche quelli del 2024, grazie al Movimento Cinque Stelle. Sullo sfondo, il governo nazionale che stavolta furbescamente lascia che siano altri a togliergli le castagne dal fuoco. La scelta impopolare è tutta della Raggi e di Grillo. Matteo Renzi se la cava con le caratteristiche dichiarazioni progressiste e con l’altrettanto caratteristico comportamento - nei fatti - di segno diametralmente opposto. Stavolta, un comportamento omissivo, un non facere che magari, vien da dire, sarebbe stato più auspicabile che avesse applicato su altre ed ancora più importanti questioni.
L’obbiezione principale dei Cinque Stelle ripresa dal burocrate Monti è quella secondo cui le città che ospitano le Olimpiadi pagano e fanno pagare i conti per decenni a tutta la collettività nazionale. Vero. Si chiama economia keynesiana. Investimenti anche a perdere per rimettere in moto l’economia. Poi si può disquisire chi ha pagato di più tra Montreal, Barcellona, Londra, Atene, Torino e compagnia bella.
Ma un conto è discutere su questo, un conto è sparare cifre come in campagna elettorale, come fa la signora Sindaco di Roma che poi viene smentita cinque minuti dopo aver aperto bocca. I conti di Roma 1960 sono stati pagati da un pezzo. Anche quelli di Italia 90.
L’altra obbiezione, se allestiamo i Giochi qualcuno ci mangia sopra, è forse ancora più disarmante, oltre che inammissibile, da parte di una classe di governo, o presunta tale.
Giovanni Malagò Presidente del CONI
Negli anni cinquanta, per allestire l’olimpiade romana, qualcuno ci mangiò sopra di sicuro, ma i nostri vecchi ci hanno sempre raccontato – e gli studiosi confermato -  che essa ebbe un ruolo non secondario nella determinazione di quello che conosciamo come boom economico italiano. Nel 1990, e lì c’eravamo più o meno tutti e ce lo ricordiamo, le opere di allestimento dell’ultimo mondiale italiano rimasero - e sono rimaste a tutt’oggi - come l’ultima campagna di ammodernamento di strutture sportive della nostra storia. Siamo fermi lì. Altrimenti, avessero ragionato come oggi, saremmo fermi a Luigi Nervi, 1930, Stadio Comunale di Firenze. Al Flaminio. Al Filadelfia. Gioiellini quanto si vuole, ma adatti allo sport moderno come il Colosseo.
Qualcuno ci mangiò sopra. Qualcuno ci mangia sempre sopra, in Italia. Ma tante ditte lavorarono, invece di tenere gli operai a casa, a pascersi dei discorsi di Grillo e della Raggi. Tante persone vennero impiegate nella gestione dell’evento. Le cifre di Rio non sono ancora ufficiali ma si parla di 50.000 ragazzi impiegati a supporto delle manifestazioni sportive. Chi altro è capace di dare 50.000 posti di lavoro tutti insieme in Italia? Un indotto economico enorme viene messo in moto in questi casi, e il gioco del PIL alla fine vale la candela delle inevitabili ruberie.
Anche a Londra qualcuno avrà rubato. Furono gli inglesi ad inventare la patente di corsa. La regina Elisabetta I ebbe la brillante idea di nominare Francis Drake e Henry Morgan, due ladri matricolati, due pirati, suoi corsari ufficiali. E parte ingente delle ricchezze da loro accumulate andò ad arricchire il tesoro della Corona, e fece la fortuna dell’Inghilterra. Probabilmente Elisabetta II è stata ben felice di fare altrettanto, quattro anni fa.
Governare è un arte. Credere di avere un futuro è un obbligo. Questo è un paese che ha perso qualsiasi credo, qualsiasi speranza. Sta accettando supinamente di morire, di sparire mangiato da una immigrazione selvaggia, incontrollata (perché così è stato predicato da autorità morali ecclesiastiche e civili che non si mettono in discussione, nel paese che ha inventato la Controriforma). Sta rinunciando a qualsiasi possibilità. Perché altrimenti c’è qualcuno che mangia. Poi magari in questo momento qualcun altro sta mangiando comunque, ma quello va bene, perché è della nostra parte, è dei nostri.
Roma non farà le Olimpiadi, nessuno mangerà a Roma, né a torto né a ragione. In senso generale, tra poco non mangerà più nessuno. nessuno ruberà più i nostri soldi. Perché saremo tutti morti. Al massimo ruberanno i fiori sulle nostre tombe, se qualcuno sarà ancora vivo per poterceli mettere.

martedì 20 settembre 2016

Roma è italiana



Era una delle date che ci facevano imparare a memoria, quando andavamo a scuola. Imprescindibili. I piccoli italiani del futuro quelle cose le dovevano sapere. Quelle date racchiudevano in sé la storia della nostra patria, il processo di formazione della nostra comunità nazionale. Della nostra stessa identità come popolo.
4 ottobre San Francesco patrono d’Italia. 12 ottobre, la Scoperta dell'America. 4 novembre la Vittoria nella Grande Guerra. 11 febbraio il Concordato Stato-Chiesa. 25 aprile la Liberazione. 2 giugno la Repubblica.
La Breccia di Porta Pia, dipinto di Carlo Ademollo (1880 circa)
E poi, o forse prima di tutte, c'era quella di oggi. 20 settembre. La Breccia di Porta Pia. Roma capitale. All’epoca in cui chi scrive andava  a scuola, già non si festeggiava più. Era stata abolita come festività comandata all’epoca dei Patti Lateranensi, quando la Chiesa aveva fatto pace con lo Stato. I cattolici osservanti erano tantissimi in Italia, e Mussolini aveva inteso guadagnarli definitivamente alla causa nazionale eliminando quello che era stato il simbolo più vistoso di una frattura tra le due anime dei cittadini italiani che era durata oltre sessant’anni.
Abolita nel 1930, noi cittadini in età da scuola dell’obbligo non avremmo comunque potuto festeggiare la ricorrenza della Breccia di Porta Pia. La scuola allora cominciava il 1° ottobre, San Remigio, e fino alla riforma Falcucci del 1977 settembre sarebbe rimasto intatto come ultimo mese delle nostre vacanze.
Ma la corsa dei Bersaglieri attraverso il varco aperto nelle mura papaline dalle cannonate del Luogotenente Generale Raffaele Cadorna era una delle immagini più vivide che venivano stampate nel nostro immaginario di bambini. Era la fine, gloriosa, epica e inevitabilmente un po’ retorica, del Risorgimento italiano. Mancavano solo Trento e Trieste, per la cui commemorazione di lì a poco c’era un’altra data, il 4 novembre. Roma capitale era il compimento del nostro destino. Il coronamento della nostra grande storia.
«La nostra stella, o Signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la città eterna, sulla quale 25 secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno italico». Con queste parole Camillo Benso Conte di Cavour, uno degli artefici principali  di quel nostro Risorgimento di cui sentivamo rievocare battaglie e gesti eroici sui banchi di scuola, aveva lasciato in eredità alla generazione successiva dei ministri del Regno il compimento della sua opera. L’impresa finale.
G. Altobelli - Ricostruzione della Breccia di Porta Pia - 1870 - fotografia - Istituto per la Storia del Risorgimento - Roma
Strappare Roma al governo del Papa era più duro che strappare il Norditalia all’Austria. Lo Stato della Chiesa era protetto dalle armi dei francesi di Napoleone III. Quando il Secondo Impero bonapartista trovò il suo destino a Sedan sotto le cannonate prussiane, il governo di Sua Maestà Vittorio Emanuele II presieduto da Giovanni Lanza (l’uomo che aveva già spostato la capitale del Regno da Torino a Firenze) vide la sua occasione e la prese.
La mattina del 20 settembre 1870 i Bersaglieri entrarono a Roma da Via Nomentana attraverso la Breccia di Porta Pia. E soprattutto entrarono nell’iconografia ufficiale del Risorgimento che arrivavano – di corsa, come loro costume – a completare. Nel film epico che raccontò da allora in poi a generazioni di bambini dal grembiulino nero e bambine dal grembiulino bianco i valori fondanti e la storia di quella nazione che li aveva generati.
Ancora cento anni dopo l’Unità d’Italia rispetto a cui quel 20 settembre furono scritte le parole missione compiuta, il film era quello e noi lo vedevamo ripetersi ogni giorno, nei nostri banchi di scuola.
Era una religione laica, con tanto di precetti e di simboli. La bandiera dei tre colori, la foto del Presidente della Repubblica sopra la cattedra del maestro. Le foto dei Bersaglieri a Porta Pia, dei Mille a Quarto, di Garibaldi e Re Vittorio Emanuele a Teano, la riproduzione fotostatica del Bollettino della Vittoria a firma del Gen. Armando Diaz, quella delle parole del Canto degli Italiani, l’Inno di Mameli. Queste icone tappezzavano le mura delle nostre scuole. Questo era ciò che ci veniva insegnato ogni giorno, perché un giorno noi lo insegnassimo ad altri.
Il 20 settembre non era più in rosso, nel calendario. Ma lo festeggiavano tutti, dalla Vetta d’Italia a Pachino. Dall’11 febbraio 1929, religione laica e religione cattolica si erano riconciliate. Al calendario degli scolari e dei cittadini si era aggiunta una festa in più, e sul muro delle aule scolastiche si era aggiunto il Crocifisso. I cattolici avevano potuto diventare cittadini a tutti gli effetti, e pazienza se in quel momento quel loro nuovo status non prevedeva un diritto di voto effettivo. Per quello, ci sarebbe stato bisogno di aggiungere una nuova data ancora al nostro calendario. Verso la fine dell’anno scolastico, il 25 aprile, quando già noi scolari respiravamo nell’aria il profumo inebriante di una nuova estate.
Era un mondo sicuramente più ingenuo. Più retorico nel celebrare i suoi valori. Tutto sommato era un mondo più semplice, per viverci, perché quei suoi valori erano chiari. E non c’era bambino che, quando arrivava di nuovo quel giorno lì, non sognasse di essere in divisa da Bersagliere e di correre attraverso le mura abbattute a cannonate nei pressi di Porta Pia. Verso Roma. Verso la Capitale. Verso il Risorgimento.

Porta Pia oggi

giovedì 15 settembre 2016

Il nostro cuore è rimasto a Rio



Non ce la fa Alex Zanardi a trattenere la commozione sul podio della Crono Strada H5 di Ciclismo. Vorrebbe cantare l’Inno di Mameli, ma è già tanto se riesce a trattenere le lacrime. Alla fine, anche per un cuore d’acciaio come il suo arriva il momento di ammorbidirsi, ripensare alla lunga strada percorsa, a questi ultimi chilometri che a Rio gli hanno valso il bis dell’oro di Londra, ad una voglia di vivere, combattere e vincere che a cinquant’anni non mostra segni di cedimento.
Alex, l’uomo che senza gambe è andato più forte di quando le aveva, è il simbolo di questa Italia paralimpica a Rio de Janeiro. La bandiera da portare è andata alla velocista Martina Caironi, oro a Londra, ma è ancora lui l’icona, la figura leggendaria, a questo punto mitologica, di un movimento che si appresta a strabiliare ancor più di quanto abbia fatto in passato.
Sono tanti i ragazzi e le ragazze azzurri che stanno scrivendo questa pagina di storia non solo sportiva in Brasile, e non c’è spazio per elencarli tutti come meriterebbero, a prescindere dal risultato, dal piazzamento e dal colore della medaglia vinta. Qui conta dire comunque che dopo una settimana di Giochi Paralimpici, hanno messo insieme un medagliere quasi uguale a quello dei colleghi normodotati nelle due settimane dell’agosto scorso. Siamo a 25 contro 28, e non è finita. Basta ascoltare Zanardi: «E’ stata una gara durissima, non so come ho fatto. Una faticaccia incredibile, non so cosa mi è rimasto per le prossime gare, ma intanto questa è presa. Se sei spinto solo dall'ambizione ad un certo punto ti stanchi, occorre passione».
Già, la passione. Ce n’è tanta sul volto di Beatrice Vio detta Bebe, la fiorettista che porta in serata la settima medaglia d’oro. Una gioia incontenibile, sembra quasi rabbia la sua. Sentimenti che vengono da lontano, da una lunga strada percorsa tutta in salita. Adrenalina accumulata in una gara che per questa ragazza, come per gli altri suoi colleghi e colleghe, viene ingaggiata ogni giorno. Con la vita, prima ancora che con lo sport.
C’è aria di sorpasso dei paralimpici sugli olimpionici. Ed è un dato clamoroso, strabiliante. Scrivevamo un mese fa che siamo un paese che vince più di quanto si meriti per l’investimento e l’impegno profuso nello sport. Ne profondiamo ancor meno nel rendere più accettabili le condizioni di vita quotidiane dei cosiddetti disabili. Questi ragazzi e ragazze scalano montagne ben più ripide degli stessi colleghi normodotati, che già ne scalano di impervie, soltanto per alzarsi dal letto la mattina.
Questi ragazzi e ragazze alla fine compiono imprese tali da conquistarsi le prime pagine di giornali che ormai sembravano destinati solo ai protagonisti dello sport business, ai fenomeni da baraccone più o meno osannati dei Giochi Olimpici. Facile essere Bolt o Phelps, con le braccia e le gambe di cui ti ha dotato Madre Natura. Questi qui in gara adesso, a riflettori abbassati, sono i veri sportivi. Perché lo sono tutti i giorni. Perché lanciare un peso, tirare una stoccata, correre a cronometro o fare canestro è difficile, per loro, ma non più che alzarsi dal letto, uscire in strada, andare ad allenarsi, a lavorare o impegnarsi in una qualsiasi attività in un paese per il quale sono figliastri malaccetti.
Onore ai ragazzi ed alle ragazze italiane a Rio. Sui loro petti, la divisa di Armani è ancora più bella a vedersi.




«Zanardi è l'esempio dell'Italia che vorremmo, che lotta, che si sacrifica, che non molla mai».
(Luca Pancalli, presidente del Comitato Paralimpico Italiano)

Tutte le strade portano a Oriana

Come scrissi a suo tempo a Dario Nardella sindaco di Firenze, Oriana non ha bisogno di questo ravvedimento operoso (e interessato) con cui il PD cerca di racimolare qualche voto extra dedicando una strada della città a colei che ha infamato fino all'ultimo giorno di vita, e anche oltre.
Sarebbe stata lei stessa a ridere di questo "omaggio", di questa "carità pelosa" e postuma. Oriana ERA Firenze, e non aveva bisogno di nessuno che glielo riconoscesse ufficialmente. Oriana è TUTTE LE STRADE di Firenze, e intitolargliene una non serve, è riduttivo oltre che - a questo punto - offensivo.
Sì, lei avrebbe riso di Dario Nardella, così come aveva riso di Matteo Renzi e di Leonardo Domenici. patetici burattini rappresentanti di un establishment culturale e politico che lei ha sempre disprezzato. Sia quando cercava di cooptarla sotto la bandiera dell'antiamericanismo ai tempi del Vietnam, sia quando la sbeffeggiava perché era andata a vivere in America, fuggendo le prime avvisaglie dell'Eurabia che avanzava.
Se avesse deciso di spendere altre parole per quella gente, sarebbero state come sempre parole di disprezzo irridente. Non una più dello stretto necessario, come sapeva fare lei. E per rispetto - ed omaggio vero - a lei, farò altrettanto.
Basta dire una cosa sola. Quando ancora ho il coraggio e la voglia di avventurarmi in questa città che non riconosco più, che non è più la mia, io so di percorrere sempre e comunque le strade di Oriana.
C'é una intera città che porterà il ricordo di lei per i tempi a venire. La stessa città che non serberà memoria - se non nella deturpazione - di coloro che tardivamente si son ricordati di salire sul suo carro, dopo averla a lungo oltraggiata così come hanno oltraggiato la città stessa dov'era nata e dov'é morta.
Chiudo con un ricordo. Il giorno del suo funerale, in segno di protesta alla città di Firenze che da sempre aveva negato a Oriana il Fiorino d'oro, massima onorificenza della città, Franco Zeffirelli depose sulla tomba quello che lui stesso aveva ricevuto. "Firenze è ingrata, il resto di Firenze fa veramente schifo", disse Zeffirelli ai giornalisti presenti.
Oriana, di lassù, da allora ci guarda e ride.

mercoledì 14 settembre 2016

Dio ti vede, Obama no



Le dichiarazioni dell’ambasciatore americano a Roma circa le conseguenze per gli italiani di una vittoria del NO al prossimo referendum sulle riforme costituzionali sembrano fatte apposta per rinfocolare vecchie polemiche e per rimettere sale su vecchie ferite non rimarginate.
John Philips, ambasciatore americano a Roma
A due mesi dalla scadenza del suo mandato, Barack Obama non smentisce la pessima impronta data alla sua amministrazione esponendosi di nuovo con prese di posizione che oltre ad essere impopolari comunque e da qualunque parte le si valutino è lecito dubitare che siano per lo meno produttive. Per gli stessi Stati Uniti e per il resto del mondo.
Dopo otto anni di amministrazione Obama, sarebbe facile fare il conto degli amici persi e delle posizioni di vantaggio non mantenute per tutti quei paesi, non solo gli U.S.A. che comunque tra due mesi hanno l’occasione di voltare comunque pagina, che fanno capo al Trattato del Nord Atlantico stipulato nel 1949. A tutt’oggi l’unica organizzazione effettiva – molto più in ogni caso delle Nazioni Unite – che abbia trattenuto il mondo dal precipitare più volte in un nuovo baratro.
L’ambasciatore Philips parla per conto di un datore di lavoro in scadenza. Tra due mesi la politica estera americana potrebbe essere completamente ripensata, rielaborata. Sicuramente nel caso della vittoria di Donald Trump, ma anche probabilmente anche in quello di un successo di Hillary Clinton, che non può non essersi resa conto di certi guasti e di tante sconfitte ottenuti e messi in fila da colui che le passerebbe il testimone e nella cui amministrazione lei stessa ha lavorato.
Philips con Renzi, ai tempi in cui era Sindaco di Firenze
John Philips quindi è un burocrate con l’istruzione di lasciar partire un ultimo colpo di coda. Le reazioni suscitate in casa nostra da quel suo minacciare un rischio per gli investimenti stranieri in Italia, comunque, non sono meno fuori luogo. Sono due mondi, due schieramenti invecchiati che si confrontano su un palcoscenico che nel frattempo gli operai stanno smontando, per allestire nuove scenografie.
Lo scenario che tenta di non essere abbattuto è quello determinato da abitudini culturali maturate in settant’anni e più. Da una parte gli U.S.A., emersi vincitori dalla Seconda Guerra Mondiale e capofila dello schieramento che poco dopo si apprestava in Occidente a combattere la Terza. La grande vittoria e la grande responsabilità catapultarono un paese che forse in quanto a maturità politica e a consapevolezza strategica non aveva fatto ancora tutto il necessario percorso su quel palcoscenico dove invece sarebbe stata richiesta abilità pari alle risorse che  aveva da mettere in campo.
In altre parole, le intenzioni erano buone, il fine giustificava i mezzi più che abbondantemente, ma le amministrazioni U.S.A. che si successero dal 1949 in poi scontarono inevitabilmente una certa rozzezza psicologica e culturale e una rigidezza eccessiva di stampo puritano con le quali più di una volta mortificarono e depressero senza motivo alleati almeno in maggioranza ben disposti nei confronti loro e dei valori che difendevano.
Dall’altro canto, l’approccio comunista ai problemi del dopoguerra costituì una lente di distorsione determinante per tutta quella parte di opinione pubblica che ereditò il 25 aprile del 1945 dal fascismo l’odio ed il revanchismo frustrato nei confronti del mondo anglosassone. Come abbiamo scritto più volte, molti cambiarono soltanto la camicia da nera a rossa, mentre il bagaglio culturale post fascista e proto comunista rimase lo stesso.
Così, gli Stati uniti d’America divennero una specie di Grande Satana nostrano a prescindere per tutti coloro che non si posizionavano, diciamo così, politicamente nell’area di governo. Ed i paesi alleati divennero in questo immaginario tanti Cile, i loro governi tanti Pinochet, noialtri tanti grandi e piccoli Salvador Allende.
De Gasperi parla a Parigi prima della firma del trattato di pace, 1947
Non c’era possibilità di dialogo tra questi schieramenti. Solo, prima o poi, di superamento. Ci sta provando faticosamente la Terza Repubblica di cui si discute, spesso impropriamente, anche al prossimo referendum, a superare questo passato che ormai cammina come un morto. Con molte battute d’arresto. Ad un John Philips che agita lo spauracchio degli investimenti stranieri in fuga così come settant’anni fa i suoi predecessori parlavano di bambini mangiati dai comunisti, rispondono personaggi altrettanto improbabili.
Luigi Di Maio, come se in questi giorni non ne avesse abbastanza in quel di Roma, fa ridere il web paragonando Matteo Renzi ad Augusto Pinochet e collocando il tutto per di più non in Cile ma in Venezuela. Come dire, so tutto anche se non ho studiato nulla. Anche se non ero neanche nato.
Poi c’è Pierluigi Bersani, che ormai non è più nemmeno veterocomunista, ma soltanto vetero - se stesso. Sbotta come Peppone di Guareschi: «Per chi ci prendono?»
La risposta che salirebbe alle labbra sarebbe poco gratificante, per lui e per noi tutti: per dei cretini che siamo, a mantenere una classe politica come questa.
Proviamo invece una risposta più articolata, al vecchio arnese della Cosa Rossa e ai tanti che brancolano nel buio ideologico delle varie zone d’ombra che la crisi del sistema dei partiti ha lasciato dietro di sé.
Hillary Clinton e Barack Obama
Abbiamo seppellito pochi giorni fa Ennio Di Nolfo. Il professore emerito non ci manca mai tanto quanto in questi casi. Quando ci avrebbe spiegato – così come faceva tanti anni fa allorché da ragazzi frequentavamo le sue splendide lezioni – che un sistema si chiama appunto sistema perché tutte le sue componenti, dalle più grosse, importanti e potenti a quelle apparentemente meno significative e influenti, dipendono l’una dall’altra senza possibilità di sottrarsi a questa interdipendenza. A pena del caos, irreparabile.
Perché un sistema internazionale funzioni, ci vuole la superpotenza (gli U.S.A.) ma ci vuole anche la periferia dell’Impero (l’Italia, in questo caso). E il sistema deve funzionare in qualche misura e modo per tutte e due. Ciò lascia spazio tra l’altro per una componente di secondo piano quale può essere il nostro paese per avere dei margini di tornaconto su cui giocare, degli obbiettivi grandi o piccoli da conseguire. Qualcosa da portare a casa, insomma.
A condizione di avere una classe politica adeguata. Si può e si deve convenire che negli ultimi dieci anni, per stare all’attualità, una simile classe politica non ce l’hanno avuta gli U.S.A. ma non ce l’abbiamo avuta soprattutto noi.
Siamo il paese che ha perso ignominiosamente l’ultima guerra combattuta sul suolo europeo, risolta da una potenza extracontinentale che come prezzo per averci liberati da noi stessi ha preteso (tutto sommato accontentandosi di un buon mercato) porzioni di territorio che una volta era nazionale, nostro, e porzioni della nostra sovranità politica. Quello eravamo e quello siamo rimasti.
Luigi Di Maio
Alla luce di questa considerazione storica, di questo dato incontrovertibile, si possono liquidare senza approfondimento tutte le sciocchezze che invece provengono dal centrodestra, da Altero Matteoli, a Renato Brunetta a Maurizio Gasparri e così via. Lasciamo perdere – è il caso di dire -  la Costituzione, che tra l’altro non si sa più bene nemmeno qual è, di sicuro non quella che si riscopre soltanto quando fa comodo.
Non siamo in grado verosimilmente di mutare lo stato di cose, l’assetto politico internazionale. E a ben guardare, è da chiedersi se comunque varrebbe la pena di farlo, viste le alternative a disposizione adesso come settant’anni fa.
Forse vale la pena sopportare le esternazioni del burocrate Philips, che comunque tra due mesi torna a casa sua, senza aggiungere sciocchezze a sciocchezze esacerbando un clima che per motivi storici e caratteriali, anche e soprattutto nostri, è sempre comunque sospeso sopra una fiamma del gas moderata ma costante.
Tra due mesi, comunque vada, si parlerà di altre cose. E chissà che scenario avranno allestito gli operai al lavoro sul palcoscenico, con Bersani, Di Maio, Brunetta, Gasparri, Philips e quant’altri nel mezzo ad intralciarli con le loro sciocchezze ed i loro movimenti scomposti.