mercoledì 6 luglio 2022

Il mio babbo

Era nato in Via Sallustio Bandini al numero 1, nell’Imperiale Contrada della Giraffa, vicino alla Chiesa intitolata alla Madonna di Provenzano in onore della quale a Siena si corre il Palio del 2 luglio. Il suo babbo a quell’epoca, dopo aver cambiato già diversi lavori, credo facesse il barista dal Nannini, nel primo storico locale di quella proprietà all’angolo di Banchi di Sopra con via Pianigiani, di fronte a Piazza Salimbeni dove allora come ora, come da sempre, ha sede il Monte dei Paschi.
Lì aveva conosciuto la sua mamma, che faceva la cuoca nel vicino Hotel Continental e ogni tanto si fermava a prendere il caffè. Si erano sposati nel 1933, l’anno dopo era nato il piccolo Mario, il 6 luglio, segno del Cancro. Neanche un mese prima il babbo Angelo aveva lasciato moglie e figlio nascituro per montare su un treno e andare a Roma, allo stadio Flaminio, a vedere l’Italia vincere il suo primo titolo mondiale di calcio. Ne raccontavano tutti con divertimento di questo fatto. Il piccolo Mario era cresciuto appassionato di calcio come il padre. Tutti e due tifosi della Fiorentina, mosche bianche, bianchissime nella Siena bianconera.
Le elementari Mario le aveva fatte durante la guerra mondiale. L’anno scolastico 1943-44 era “andato in cavalleria”, come si dice a Siena, cioè saltato a pié pari, per ovvi motivi. Quell’anno passò il fronte, il suo babbo era sul tetto ad evitare i rastrellamenti dei tedeschi, e quando scendeva attraversava con il figlio piccolo le linee per andare in campagna a procurarsi di che mangiare al mercato nero dei contadini. Non avrebbe mai accettato che 30 anni dopo suo nipote Simone si tirasse la farina per gioco con i compagni fuori di scuola.
Siccome Mario cresceva allo sbando, per strada, come tutti i ragazzi di quegli anni, i genitori lo misero in collegio dai preti. A casa non c’erano mai, la nonna Giulia da sola non ce la faceva a tenere a bada lo scavezzacollo. Una volta rischiò di accecarsi, un'’altra di restare muto, un’altra ancora di saltare per aria con una bomba a mano. Erano i giochi di quell’estate del 1944, in compenso c’erano la cioccolata e le sigarette degli americani. Cominciò a fumare a 10 anni, come molti in Italia a quei tempi.
Dal collegio passò al Liceo Classico Enea Silvio Piccolomini, dove scoprì che la sua testa notevole lo rendeva adattissimo allo studio. Si laureò in giurisprudenza brillantemente, il primo nella storia della sua famiglia. Scoprì ben presto di non essere adatto a fare la carriera di magistrato o di avvocato (“la notte voglio dormire tranquillo, con la coscienza a posto”, si sarebbe giustificato in seguito). Scoprì poco dopo di essere invece un grand commis, come dicono i francesi, un grande servitore dello Stato.
La famiglia che mise su di lì a poco si trasferì a Firenze, dove Mario divenne funzionario del Provveditorato alle Opere Pubbliche. Di lì a poco gli nacque il primo figlio, il primo fiorentino della famiglia. L’alluvione del 1966 lo colse in prima linea tra coloro che ebbero la responsabilità di far rialzare la testa a Firenze. La sua carriera partì di lì, 30 anni dopo – quando andò in pensione – era diventato uno dei massimi dirigenti della Regione.
Nel 1972 era stata data finalmente attuazione all’art. 117 della Costituzione. L’Amministrazione si era decentrata, il personale dello Stato aveva scelto se restare con quella centrale o passare a quella locale. Mario scelse la Regione. Ancora lo ricordano come uno dei Padri Fondatori, anche se di quell’epoca pionieristica, di quel primo ordinamento che lui e altri avevano messo in piedi non rimane più nulla, spazzato via dalla cialtroneria della generazione successiva.
Nel 1967 gli era nata un’altra figlia, nel 1969 la Fiorentina gli aveva vinto uno scudetto. Nel 1978 la famiglia non gli aveva retto. Nel 1988 avevano cominciato a sposarglisi i figli e nel 1992 a nascergli i nipoti. Nel 1996 aveva sognato di potersi finalmente godere la pensione e quei nipoti, ma il destino aveva deciso diversamente. Il male se lo portò via dopo quattro anni, due mesi dopo essersi subdolamente annunciato. Era un 7 marzo. Sempre il 7, come la sua mamma, tanto tempo prima. Sono tutti al Cimitero della Misericordia, a Siena.
Aveva fatto in tempo soltanto a lasciare un vuoto incolmabile, nei figli che avevano già capito di aver ricevuto un’eredità preziosa, fatta di un esempio che vale più di ogni patrimonio, e in tutti coloro che l’hanno conosciuto, per lavoro o per amicizia, e che ne ricordano sempre l’umanità e le capacità.
Ho cercato per tutta la vita di assomigliargli più che potevo, consapevole che non era possibile. Ma soltanto l’averci provato ha fatto di me un uomo migliore. Ne sono sicuro.

Era mio padre.


giovedì 23 febbraio 2017

CONTROCORRENTE: Rivoltosi con il tassametro




Su una cosa devo dare ragione a Matteo Renzi. Mentre noi stiamo qui a trastullarci con seghe mentali che risalgono al ventesimo secolo, il mondo al di fuori di questo paese va avanti. E lo fa correndo.
Ecco qua, i tassisti hanno messo a ferro e fuoco Roma, e puntuale il governo di turno cala le brache e concede loro quello che vogliono. Con il beneplacito dei Cinque Stelle, che avallano il sacco della capitale schierandosi dalla parte dei fuorilegge con il tassametro. I tifosi della Roma , a questo punto, se vogliono lo stadio nuovo sanno come fare.
Le corporazioni medioevali le abbiamo inventate noi, e all’epoca fu una grande invenzione. Ora sarebbe il caso di andare avanti, di tuffarci in quel mondo moderno che ormai ci circonda, ci accerchia, e invece facciamo di tutto per qualificarci come lo stato più a nord del continente africano. Milano, capitale morale da sempre di questo Stato, ha dato l’esempio: piantati stanotte i banani a fianco delle palme, i migranti non potranno dire di non sentirsi a casa.
No, a noi le corporazioni piacciono. E’ il libero mercato che ci fa paura. Lì bisognerebbe competere, sul serio, e noi italiani ormai siamo capaci di competere soltanto a sciocchezze. Viva i tassisti, dunque, che secondo la parte più progressista di questa opinione pubblica difendono la parte più sana del lavoro e dell’imprenditoria nazionale. Nel resto del mondo civile, Uber è il progresso, andare dal centro di Londra all’aeroporto di Stansted con poco più di 10 sterline, come è successo a mio figlio di recente, questo è il progresso. Da noi, il progresso è consentire che una persona che deve andare dalla stazione di Firenze al suo aeroporto (3 km. scarsi di strada) debba essere taglieggiata in modo tale che il taxi costa più dell’aereo che va a prendere, dovunque sia diretto o quasi. O che una signora anziana, mia madre, paghi più di taxi per andare dalla casa di riposo a Porta Romana al laboratorio di analisi convenzionato in Piazza Indipendenza (altri 3 km. scarsi) che di ticket, e dire che i ticket della sanità di Enrico Rossi non scherzano.
Il progresso è sempre ciò che fa comodo a noi. Gli altri sono “fascisti”, sempre gli altri, che salutino romanamente o no. Dice: la licenza comunale costa cara, le tariffe elevate dei taxi di casa nostra devono tenere conto di questo investimento iniziale. Sarebbe come dire che siccome il pizzo alla mafia costa, i negozianti delle zone di mafia sono autorizzati a tenerne conto nei prezzi. Non solo, ma siccome l’investimento del pizzo va salvaguardato, non è giusto combattere la mafia! Chi risarcirebbe in tal caso i negozianti del pizzo pagato?
E’ la logica di Aldo Rizzo, e di tutti coloro che nel 21° secolo inneggiano ancora al comunismo – o al limite al “progressismo” -  e non si peritano di schierarsi a fianco di una banda di lanzichenecchi scatenati peggio che nel 1527, contro “i miliardari di Uber”. Credo che Karl Marx si stia rivoltando nella tomba, al pensiero della moltitudine di mentecatti che ha sdoganato.
E’ la logica di Enrico Rossi, che si batteva contro l’apertura domenicale dei negozi, in nome dei diritti dei lavoratori (ovviamente pagati da qualcun altro, i suoi possono schiantare).
Ma a noi del mondo moderno non ce ne po’ frega’ de meno. I veri diritti dei lavoratori li sappiamo noi quali sono. Comprendono anche quelli di sfasciare le vetrine dei negozi di altri lavoratori, di rivoltarsi a mano armata contro la polizia, e di ritrovarsi – al posto del provvedimento di arresto ed al ritiro della licenza come sarebbe giusto e doveroso – a fine giornata con la pacca sulla spalla del governo, e con i complimenti dell’opposizione che si prepara a governare.
Ho sempre invidiato tante cose all’Inghilterra. Una di queste è quel sentimento nazionale e di legalità democratica che ha prodotto a suo tempo, nel momento forse più difficile di quella nazione nel dopoguerra, una Margaret Thatcher. Maggie non avrebbe dato pacche sulle spalle ai rivoltosi con il tassametro. Li avrebbe lasciati scioperare sei mesi, non sei giorni. Li avrebbe fatti schiantare, come fece con le Trade Unions o con i Provisionals dell’Irish Republican Army. Il sindacato più potente del mondo e il gruppo terrorista all’epoca più organizzato del mondo.
Negli stessi anni noi avevamo De Mita. Poi Prodi. Adesso Gentiloni.
Forza Roma. #famostostadio #moavetevistocomesefa

mercoledì 22 febbraio 2017

Gli ultimi giorni del PD



Michele Emiliano resta, Enrico Rossi va. Alla fine lo Scisma si consuma, ma ha ben poco di drammatico e molto di farsesco. I protagonisti aspirerebbero forse a recitare un ruolo tragico, shakespeariano, in questa vicenda. Il Governatore della Toscana probabilmente si sente un novello Macbeth, quello della Puglia un Amleto dei giorni nostri. Pierluigi Bersani, uno dei numi tutelari di questa fine ingloriosa di un partito che era finora sopravvissuto a ben altri drammi e scissioni, probabilmente vaga sconsolato per i meandri della propria mente sconvolta come un Riccardo III  Duca di York. E chissà, a proposito di menti, se quella di Massimo D’Alema ormai è tormentata dagli stessi incubi di un Re Lear.
Ma Shakespeare è lontano dalla sede del PD, non siamo sull’Avon ma sul Tevere le cui acque hanno visto scorrere anche questa, mentre fuori della sede di quello che era il partito di maggioranza urlano i tassisti inferociti contro la legge Bersani e il Milleproroghe di Gentiloni, qualcuno alza il braccio destro in un saluto romano che da queste parti è sempre fortemente evocativo, ed i Cinque Stelle di lotta e di governo non trovano di meglio che cavalcare questa tigre inaspettata, trattenendo a stento il grido di carica! e l’irruzione nella sede dello psicodramma del partito democratico.
Shakespeare, dicevamo, non abita qui. I personaggi in cerca di riposizionamento, più che di autore, assomigliano più a quelli della commedia goldoniana o dei pupi siciliani. Baruffe chiozzotte e finte mazzate,  scene da consultorio di igiene mentale alternate a sussulti di straordinaria lucidità e autoconsapevolezza sul letto di morte.
Già, perché l’unico dato certo è che il partito che una volta si chiamava comunista e adesso democratico non riuscirà quasi certamente a bissare la ricorrenza del centenario che riuscì di celebrare al partito socialista, poco prima di dissolversi nella bufera di Mani Pulite. Il 21 febbraio, giorno in cui ricorre il 169° anniversario della pubblicazione a Londra da parte di Karl Marx e Friedrich Engels del Manifesto del partito comunista, il PCI – PDS – DS – PD vede certificata la sua entrata in coma irreversibile e si appresta a lasciare la scena che ha calcato per tutto il dopoguerra nel nostro paese.
A differenza di Craxi, bersaniani e/o renziani non riusciranno a soffiare sulle cento candeline che avrebbero dovuto essere accese il 21 gennaio 2021, e chissà in che condizioni arriveranno alla ricorrenza della rivoluzione d’ottobre, il 7 novembre prossimo, secolare anniversario del suo evento fondante principale, la rivoluzione bolscevica russa.
Ma per quanto lunga, più o meno drammatica (è dal 1956 all'incirca che il principale avversario degli esponenti e dei militanti di questo partito è la coscienza, prima ancora che l’intelligenza), più o meno condivisibile o esecrabile, la lunga storia della cosa rossa finisce appunto in farsa, in tragicommedia.
E’ lo stesso segretario uscente Matteo Renzi a confermarlo: «Fuori di qui, ci prendono per matti». E meno male, viene da aggiungere, non a selciate, come è toccato a tanti malcapitati che ieri a Roma si sono imbattuti o trovati sulla strada dei manifestanti anti-Uber. O a monetine, come toccò a Craxi all’uscita dell’Hotel Rafael quando Mani Pulite lo detronizzò togliendogli il partito socialista, dimenticando poi di fare la stessa cosa con i dirimpettai comunisti.
C’è la sensazione appunto che questo appuntamento con la storia sia stato ritardato - con quali danni per l’Italia chissà quando finiremo di apprezzarlo e di quantificarlo - di venticinque anni circa. E che alla fine si ritorni comunque al celebre aforisma di Karl Marx, secondo cui la storia si ripete sempre due volte, la prima in tragedia, la seconda in farsa. O magari, nell’accezione di Indro Montanelli, secondo cui in Italia si riesce sempre a trasformare la tragedia direttamente in farsa, saltando – è sottinteso – il primo passaggio.
E così, mentre chi sogna un’Italia senza PD dovrà rassegnarsi a ringraziare paradossalmente Matteo Renzi, l’uomo che ce la sta facendo a distruggerlo, restano sul palco, o a terra, le comparse. Michele Emiliano fa un dribbling degno di Lionel Messi e scarta tutti, compagni ed avversari. «Questa è casa mia», dice, annunciando la candidatura anti-renziana. «Se vinco, riunirò di nuovo il PD». Più facile annullare lo Scisma del 1054 con la Chiesa Ortodossa o la Riforma Protestante, ma non è questo che interessa al funambolico fantasista pugliese. Emiliano è il vero erede di Walter Veltroni, con i suoi ma anche. Sto fuori, ma anche dentro. Provate a prendermi, se vi riesce.
Bersani si aggira sconsolato per la landa desertica dei suoi collegi elettorali, una volta orgogliosamente bulgari nelle loro percentuali, farneticando di recupero di posizioni tra i giovani e scrivendo sonetti in vernacolo ad Elsa Fornero. D’Alema si è imbarcato sul suo brigantino, e veleggia verso chissà quale porto. Forse il suo destino è quello dell’Olandese Volante, tra Capalbio e Gallipoli le sue urla e le sue maledizioni risuoneranno terrorizzando gli scismatici fino alla notte dei tempi.
Ma il destino più incerto, per gli amanti del genere thriller, è quello di Enrico Rossi. Malgrado schiere di legulei e di filosofi del diritto siano già all’opera per dimostrare il contrario, da ieri sera il transfuga convinto di essere l’unica e ultima speranza dei lavoratori italiani non ha più maggioranza in Consiglio Regionale. La sua Giunta reggerà fino al 15 marzo, data in cui il congresso del suo ex partito sancirà verosimilmente la riconferma di Renzi a segretario e, tra le altre cose, il passaggio dei suoi 28 consiglieri ad altro referente. Da quel momento (che peccato aver riformato lo Statuto e la legge elettorale giusto qualche anno fa......), decorrono sei mesi oltre i quali – a prescindere da come avranno luogo le doverose dimissioni di presidente ed assessori – c’è soltanto la conclusione anticipata (per la prima volta dal 1970) della legislatura regionale, dopodiché  nuove elezioni.
A quel punto, una candidatura al parlamento europeo, sdegnata da Rossi due anni fa e adesso agognata come unica ancora di salvezza della sua carriera politica, sarà assai improbabile, se conosciamo Matteo Renzi come abbiamo imparato a conoscerlo in questi anni.
Poi resterà un uomo solo al comando. Fino alle elezioni politiche. La storia cominciata a Livorno finisce a Rignano.

giovedì 16 febbraio 2017

CONTROCORRENTE si può andare, contro l'ignoranza no



La tentazione sarebbe quella di smettere. Cercare di fare cultura e informazione oggi in Italia, e forse anche in parte del resto del mondo, è una battaglia persa. Le generazioni più vecchie non riescono a liberarsi di ideologie ormai morte e sepolte. Quelle nuove sono un abisso spaventoso di ignoranza, sul quale la scuola è passata lasciandolo assolutamente indenne ed in compenso le propaggini imputridite di quelle ideologie vi si sono infilate indisturbate, riempiendo il vuoto culturale istituzionale con una fila di sciocchezze da far impallidire tradizionali boiate sistemiche come il veganesimo, le scie chimiche, il complottismo, l’avvistamento degli alieni e compagnia bella.
Pubblico articoli nel Giorno del Ricordo pensando che ormai siano pagine di storia acquisite, un rituale della memoria comunque utile alla commemorazione doverosa di tante povere vittime della bestialità umana mai estinta, ma che comunque abbia poco ormai da aggiungere all’accertamento della verità storica. Mal me ne incoglie. Fascisti e Comunisti risorgono dalle tombe come mummie per prendermi a male parole da ambo i lati della stupidità umana elevata a sistema. I vecchi, quando va bene, mi danno del fazioso (!): “eh, ma te racconti solo metà della storia, non dici cosa avevano fatto prima i fascisti!
Oltraggio, che consapevolmente o meno, si aggiunge alla tragedia. Nelle Foibe ci finirono semplicemente italiani, non fascisti. Quella fu l’autogiustificazione che si dettero gli Jugoslavi, che si trovarono per combinazione dalla parte vittoriosa della guerra mondiale, e poterono coronare un sogno plurisecolare: quello di mettere le mani su terre da sempre condivise con la comunità italiana che – dai tempi della Repubblica di Venezia e poi dell’Impero Austro-Ungarico – era la parte più sviluppata e civile della popolazione di Venezia Giulia, Istria, Dalmazia, fino giù a tutto l’Adriatico. Gli Slavi, che bestie erano stati – tanto per cambiare – durante tutta la guerra l’un contro l’altro, bestie si dimostrarono nel massacrare italiani inermi (colpevoli solo di aver svolto il servizio militare o civile come loro dovere) soltanto per mettere le mani sui loro beni. La verità è questa, il fascismo ed il comunismo furono le sovrastrutture filosofico-politiche di cui si dotarono emeriti figli di puttana da ambo le parti. Peccato che del fascismo si sa tutto, del comunismo ancora si negano le atrocità. A costo di equiparare i nostri poveri connazionali, gettati ancora vivi nelle Foibe, alle Camice Nere, come fecero – in ossequio ai loro abbietti appetiti – i membri dell’esercito del popolo di Tito. Ho sempre istintivamente disprezzato gli Jugoslavi e la loro prosopopea, anche se ormai è acqua passata. Non credevo di dovermi ritrovare a disprezzare tanti miei connazionali che hanno consegnato il cervello a ideologie ed interessi che non esistono nemmeno più, ma che come la terra avvelenata di Chernobyl continuano ad esalare i loro velenosi miasmi.
I giovani, poi, sono peggio di tutti. Parlano come avanguardisti di Mussolini o come picchiatori del Movimento Studentesco. Hanno studiato storia sui manga giapponesi, quando è andata bene. In compenso sono pronti a bruciare qualsiasi libro che – sopravvissuto ai tempi e alla desuetudine – tenti di spiegare loro com’è andata veramente.
Pubblico un commento a Focus Storia, a proposito della Battaglia di Cassino dove gli Alleati sacrificarono l’Abbazia di San Benedetto alla necessità di aprirsi la strada per Roma, sperando di accorciare la guerra. I commenti medi – di giovani e meno giovani – sono che i “conquistatori amerikani” fecero scempio del nostro patrimonio per umiliarci e sottometterci. Qualcuno addirittura paragona a loro la signorilità dei tedeschi che imballarono e portarono via le opere d’arte. Ovviamente per salvaguardarle, come Siviero ha dimostrato. Gli Ameri-Cani – cito ancora testualmente – preferirono distruggere. Sottomettere. Conquistare. Piegare. Assoggettare.
Cosa gli vuoi spiegare a queste vecchie e nuove teste di cazzo malnutrite culturalmente da una vecchia e nuova scuola dove ai miserrimi maestrini e gli indegni professori fascisti della riforma Gentile si sono succeduti i miserrimi maestrini e gli indegni professori comunisti delle riforme Berlinguer e seguenti? Gli vuoi tentare di far capire che Mussolini entrò in guerra attaccando una Francia già in ginocchio nel giugno 1940 e mandando i suoi aerei a partecipare al bombardamento di Londra a fianco della Luftwaffe di Hitler, quando tutto il mondo libero lo scongiurava di restarne fuori, almeno fuori come aveva fatto la Spagna di Franco?
Cosa gli vuoi spiegare a queste teste di cazzo? Che gli Inglesi, dopo di ciò, e i Francesi non potevano certo amarci alla follia? Che ci siamo salvati proprio grazie alle nostre opere d’arte, altrimenti ci avrebbero spianati volentieri, ed a ragione? Che fu proprio grazie alla benevolenza americana se ce la siamo cavata con un trattato di pace che ci ha tolto (ahimé) solo l’Istria e parte della Venezia Giulia, oltre alle Colonie, e se la ricostruzione italiana fu tutto sommato a buon mercato grazie al Piano Marshall che ci ricomprese anche a noi, malgrado Inglesi e Francesi pensassero che non ce lo meritavamo? Che fu grazie a Baffone Stalin se il dopoguerra durò solo un anno e mezzo, e dal 1947 eravamo di nuovo a piede libero? Libero soprattutto di rompere i coglioni con il nostro revanscismo parolaio agli Americani ed agli Alleati che ci avevano graziati?
Cosa gli vuoi spiegare alla sezione locale del Fascio di Montecassino, o alla sezione locale della Casa del Popolo di Vattelappesca, o ai collezionisti di Pokemon cresciuti nel vuoto culturale assoluto e che improvvisamente si ritrovano elettori e il voto di queste testine di cazzo allevate in provetta finisce che vale come il mio e il tuo?
Mi ricordo che all’esame di Maturità portavo storia. La professoressa in commissione era una comunista di quelle toste, una berlingueriana di ferro. Riuscii a fare un buon esame mantenendomi su posizioni liberal. Il mio diritto di voto sostanziale me lo conquistai a caro prezzo, non presi 60/sessantesimi, ma da allora non ho più avuto paura di sostenere alcuna discussione, con nessuno. Alle Superiori adesso, è tanto se hanno letto due o tre capitoli del No Logo della Klein o sanno i testi in lingua originale di due o tre canzoni di Manu Chao, e giusto perché qualche vecchio rottame sopravvissuto al Sessantotto gliele ha fatte imparare a forza. Voteranno prima o poi il prossimo Hitler, e a differenza che i tedeschi a Weimar non se ne accorgeranno neanche.
Mi scuso per il linguaggio crudo, ma forse la misura è colma. Continuare a pubblicare articoli che poi alimentano – quando va bene – gare di rutti e di insulti forse non è più il caso. La storia ormai la fanno i Pokemon, quelli “rossi” e quelli “neri”, e le loro “evoluzioni”.
Buon divertimento, io ne ho le scatole piene.

martedì 14 febbraio 2017

La resa dei conti

Si apre il Direttorio del PD, e si rinnova il fenomeno Renzi. Lo vedi su quel palco in abbigliamento simil Marchionne, in tono apparentemente dimesso, e ti chiedi come abbia fatto questo omino che all’apparenza ha tutto meno che carisma e predestinazione a impadronirsi di un partito che si era magnato e digerito senza bruciori di stomaco eccessivi tutta una fila di leaders storici che veniva da assai lontano, molto più lontano di questo ragazzotto che nel curriculum aveva una comparsata da Mike Bongiorno e poco altro. Ad impadronirsi poi, tramite quel partito e le sue grandi e piccole manovre, di un paese intero, andando vicinissimo a cambiarlo, o per meglio dire a stravolgerlo, per sempre, irrimediabilmente.
Matteo Renzi sembra l’Uomo Qualunque. Un fenotipo, un mito a rovescio che esiste dal dopoguerra, da quando il giornalista Guglielmo Giannini fondò l’omonimo movimento, destinato ad un successo ben più sostanzioso di quanto non gli tributassero le sue fortune immediate ed effimere. Il segretario del PD, che potrebbe essere l’ultimo anche se Nostradamus non l’ha predetto, sembra proprio qualunque, che più qualunque non si può. Un ragazzotto fiorentino, il cui eloquio è ricolmo dei luoghi comuni, dei pettegolezzi, dei becerumi, degli intercalari di tanti ragazzotti fiorentini.
Diciamo la verità, Matteo Renzi dice poco di sinistra, per dirla con Nanni Moretti, ma dice poco in assoluto. Rimastica idee e programmi altrui, come quando nel 2009 fece propri quelli di Giovanni Galli nella corsa alla poltrona di Sindaco di Firenze, scippandogliela con gesto abile e premonitore. O come quando seppe indubbiamente interpretare il malpancismo della base PD prima e del paese intero poi, ai quali le uscite di Pierluigi Bersani, novello Don Peppone, non facevano più neanche ridere, come ai tempi di Giovanni Guareschi e Gino Cervi. Ci voleva poco a vincere le primarie nel 2013, bastava non essere della vecchia guardia PD, quella che si era consegnata mani e piedi ai Napolitano, ai Monti, alle Fornero, alle Merkel.
E allora come te lo spieghi? Non è simpatico, non è intelligente (o almeno fa tutto per non esserlo), si circonda di Marie Elene Boschi, non ti propone niente che ti possa cambiare la vita in meglio, eppure dalla prima apparizione alla Leopolda fino al referendum del 4 dicembre scorso, post comunisti e post democristiani gli sono andati dietro compatti manco fosse la reincarnazione di Togliatti e De Gasperi messi insieme. Il paese si è lasciato abbindolare come i topi dietro al Pifferaio di Hamelin, manco avessimo trovato anche noi il nostro Tony Blair.
Matteo Renzi è un fenomeno difficile da comprendere. Le sue vicende personali l’hanno convinto di essere un uomo della provvidenza. Ogni tanto si affacciano nella storia d’Italia. Lui si è sentito tale, e per di più arrivato nel più giusto dei momenti giusti. E avendo la faccia tosta che ha, è riuscito – con linguaggio semplice, mimica ad effetto, improntitudine e mano lesta dal punto di vista della spregiudicatezza nel far proprio politicamente tutto ed il contrario di tutto, nonché, last but not least, l’appoggio di alcuni poteri forti che più forti non si può – a tirarsi dietro molti di più dei cittadini che risultano in quota al PD. Che non l’hanno mai potuto votare, grazie al suo mentore Napolitano, ma che per un certo periodo, una certa luna di miele, l’avrebbero sicuramente fatto. Prima che la bancarotta di stato, il Jobs Act e la costituzione cambiata con i punti del supermercato dispiegassero i loro effetti.
Gli uomini della provvidenza, comunque, non si fanno da parte, non rimettono il mandato, non tornano come Cincinnato a coltivare l’orto, se ce l’hanno, o a mandare avanti l’azienda di famiglia, se ne sono capaci. Matteo Renzi pare dimesso e casual come un Marchionne qualsiasi, mentre arringa il direttorio PD dal palco. E ti viene subito fatto di commettere il più grave degli errori: sottovalutarlo.
Come sempre, non ha nulla da dire, ma sa come dirlo. E soprattutto sa cosa fare. Del resto, non ci vogliono Metternich  o Bismarck, il gioco è semplice. Se si dimette, e poi il congresso gli rinnova la fiducia, ha stravinto ed è libero di condurre il partito ad uno scontro frontale con il resto del paese che l’aspetta al varco, ma che ancora non ha trovato un leader di caratura sufficiente da contrapporgli. Se si dimette, e poi dal congresso esce un partito spaccato in due come successe 96 anni fa a Livorno dove tutta questa storia è cominciata, ha vinto comunque, perché la minoranza PD non va da nessuna parte e al massimo può dedicarsi come Gianfranco Fini a coltivare proprie fondazioni più o meno cultural – nostalgiche. Lui invece screma il partito dagli avversari e può tentare di ripresentarlo come il partito della patria, Matteo Renzi per salvare l’Italia. E ritentare la sorte al cospetto dell’italiano medio, che su certi carri ha sempre la tentazione di saltarci. Confidando che nel frattempo la magistratura alta e bassa gli abbia reso il servizio di sbarazzarlo di Cinque Stelle, leggi elettorali a questo punto scomode, e quant’altro la società civile ha faticosamente elaborato in termini di anticorpi all’unico vero populismo che si è affacciato alla ribalta negli ultimi anni: il suo. E confidando anche in un panorama dei mass media quasi completamente arruolato o asservito, e pronto a ridipingere il suo carro come quello del vincitore, appena gira il vento.
E mentre tutti si chiedono se era giusto che vincesse Fiorella Mannoia al Festival di Sanremo, se c’era il rigore per la Juventus domenica scorsa, o si distraggono dietro la patata bollente della Raggi o la ipotetica candidatura di Laura Boldrini alla guida della sinistra unita (non siamo così fortunati, purtroppo, almeno non coloro di noi che vorrebbero vedere un’Italia senza PD prima di morire), lui si presenta dimesso, ferito e pronto al passo indietro. Che come tutti sanno, è il primo passo della rincorsa in avanti.

La provvidenza segue percorsi strani, tortuosi a volte, e imperscrutabili. E i suoi uomini non si fanno mai da parte, non rimettono mandati. La Storia finisce sempre con loro.

venerdì 10 febbraio 2017

Il Giorno del Ricordo secondo Laura Boldrini

Questa volta, Sergio Mattarella fa sapere per tempo che non ci sarà. Precedenti e superiori impegni. Lo Stato italiano, alla commemorazione dei Martiri delle Foibe, non ci sarà. La prima carica di quello Stato ha di meglio da fare. Del resto, dopo nove anni di presidenza del comunista Napolitano, ci siamo in qualche modo abituati: i morti giuliani e istriani della metà degli anni Quaranta sono morti di serie B.
Recupero di cadaveri alla Foiba di Vines
Sapevamo di dovercelo aspettare dall’uomo che aveva cominciato la sua carriera inneggiando ai carri armati sovietici a Budapest nel 1956, e che l’ha conclusa dando una robusta spallata alla democrazia nel suo paese, nel 2011. Non sapevamo ancora bene cosa aspettarci dal suo successore, il democristiano Mattarella. Adesso è chiaro, stessa retorica a vuoto, stesso assenteismo istituzionale, quando non peggio.
La seconda carica del medesimo Stato, il presidente del Senato Pietro Grasso, si accoda volentieri, come suo solito. Non ci sarà nemmeno lui. Da Grasso, sapevamo di dovercelo aspettare, punto e basta.
Con la terza carica, la presidentessa della Camera Laura Boldrini, non siamo così fortunati, è il caso di dire. La donna che si è fatta un dovere di insultare quasi quotidianamente il popolo che rappresenta (e per di più, a sue spese) ha tirato fuori dal cilindro l’ennesimo coniglio prodigioso. Ecco dunque invitata a tenere una conferenza stampa alla Camera dei Deputati la storica (si fa per dire) negazionista Alessandra Kersevan, le cui tesi sono riassunte esaurientemente in questo estratto: Commemorare i morti nelle Foibe significa sostanzialmente commemorare rastrellatori fascisti e collaborazionisti del nazismo. Per gli altri morti, quelli vittime di rese dei conti o vendette personali, c’è il 2 novembre.
Non c’è che dire, sostituire il Giorno del Ricordo (stabilito con legge della Repubblica 30 marzo 2004 n. 92, che recita tra l’altro:  al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale) con il Giorno dell’Insulto rappresenta veramente l’ultima frontiera per l’ineffabile presidentessa della Camera, che veramente non si pone più limiti.
La donna che vorrebbe mettere sotto controllo tutto il web non riesce più a tenere sotto controllo la propria brama distruttiva del sentimento nazionale e dei valori fondanti di questo paese, affermatisi tra l’altro nel bagno di sangue che questo paese stesso come il resto del mondo affrontò negli anni tra il 1940 ed il 1945.
Quello che salta agli occhi, oltre al già ricordato silenzio delle istituzioni, è il parallelo silenzio della comunità civile, eccezion fatta per i sopravvissuti ed i discendenti di quei poveri martiri di cui la signora Kersevan ha così brillantemente concionato nelle stanze di Montecitorio. Quando si fa avanti il negazionismo dell’Olocausto del popolo ebraico, le comunità e le istituzioni interessate si fanno subito sentire, stigmatizzando giustamente questa pratica incentivata dall’analfabetismo popolare di ritorno, non soltanto sul piano storico. Per gli istriani ed i giuliani non si fa sentire nessuno, se non quei pochi che hanno avuto la ventura di conoscere la loro tragica vicenda, o per retaggio familiare o per fortunosa acquisizione sui banchi di una scuola che è sempre stata vergognosamente acquiescente alle ragioni della parte comunista e di chi con essa voleva più o meno storicamente compromettersi, nelle varie epoche fino al 1992.
L’Istria è persa ormai per la nostra comunità nazionale, e nessuno vi andrà mai a scavare per riportare alla luce quelle fosse comuni, quelle foibe piene di cadaveri giustiziati in modo atroce, bestiale, che smentirebbero in cinque minuti la cialtroneria storica della signora Kersevan e svergognerebbero i motivi non meno abbietti di chi l’ha ospitata a tenere la sua vergognosa conferenza. Ma Trieste è tornata all’Italia, nel 1954, dopo i 40 giorni di terrore assoluto vissuti sotto la scorribanda e la razzia dell’esercito del popolo di Tito nel 1945 e dopo i quasi dieci anni di purgatorio sotto l’amministrazione e la (provvidenziale) difesa dei Blue Devils americani installati nel Castello di Miramare. A Trieste chiunque può raccontare la verità storica sulle Foibe, e basta fare pochi chilometri e salire sull’altopiano carsico, dove il Sacrario di Basovizza parla più di qualsiasi parola.
Un altro Giorno del Ricordo trascorrerà nel doloroso silenzio a cui le vittime sono abituate da settant’anni, così come i superstiti. Lo Stato italiano ha dimenticato, quando non ha sbeffeggiato come stavolta. Il popolo italiano, per il suo stesso bene, è il caso però che non dimentichi.

Il sangue dei giuliani, degli istriani, degli italiani del nord-est riposi in pace, finalmente, se può.