lunedì 30 maggio 2016

CONTROCORRENTE. Premiata Ditta Cialtroni dal 1921



E’ una sindrome incurabile, che proviene da lontano. A “compagni” e “post-compagni” adesso rode enormemente il fegato e brucia consistentemente il fondoschiena alla vista di Latorre e Girone che tornano a casa. Ogni pretesto è buono per criticare: ma la Pinotti non doveva abbracciarlo, ma lui non doveva fare quel gesto, ma perché non c’era anche Latorre, ma perché non c’era Renzi, ma perché c’era Renzi, ma perché il processo non si fa in India, ma perché non si fa la Coppa UEFA…..
Negli anni settanta, la polizia era fascista per definizione. I compagni avevano sempre ragione anche quando sbagliavano. E magari, sbagliando, uccidevano. All cops are bastards, l’unico poliziotto buono è quello morto, e via dicendo. In quarant’anni, la premiata ditta fondata nel 1921 a Livorno non è cambiata. Non può cambiare (aveva ragione Eltsin e torto Gorbaciov). Non cambierà.
Per quella ditta, valeva la pena che un funzionario dello stato si facesse ammazzare per liberare un personaggio francamente equivoco e sordido come Giuliana Sgrena, una doppiogiochista senz’altra patria che il suo immondo partito e le sue oscene amicizie. Mai sentita una parola di cordoglio su Callipari, dai suoi amici. Tanto ci sono gli americani a cui dare la colpa di tutto, dal Buco dell’Ozono alla eliminazione della Fiorentina al primo turno della Coppa Italia. E’ un altro must, americani ed ebrei sono altre bestie nere storiche, lasciate in eredità dal fascismo al comunismo senza soluzione di continuità (ma del resto il 25 aprile molti avevano la camicia rossa già pronta sotto quella nera).
Per quella ditta, l’ideale sarebbe stato che Latorre e Girone fossero stati trucidati sul posto dai pirati del Kerhala. Come facevano i tagliatori di teste Dayakhi di Salgari con le giubbe rosse della Compagnia delle Indie. Altro che giusto processo, sono gli stessi che se non ti fermi ad un posto di blocco ed il poliziotto (giustamente) ti spara come da consegna chiedono l’incriminazione del poliziotto. Per questi pirati della Malesia nostrani e moderni, i compagni indiani hanno ragione a prescindere e Latorre e Girone sono due bastardi assassini, per i quali era accettabile far sì che non rivedessero mai più la loro casa e le loro famiglie.
L’ho detto tante volte, lo ripeto a costo di venire a noia. Chi ha fatto il servizio militare con un minimo di presenza di spirito, sa che cosa è successo ai due marò quella mattina sulla Enrica Lexie. Sa che sbagliarono in tanti, dal comandante al ministro della difesa, ma non loro due. Un militare in regolare servizio in quel momento ha una consegna e delle regole di ingaggio da rispettare. Nient’altro.
La signora ministro Pinotti che abbraccia Salvatore Girone sulla pista di Ciampino è un politico che per una volta rappresenta tutto un popolo, in questo disgraziato paese. Io mi sono commosso, e avrei voluto abbracciare personalmente Salvatore. Sono contento che l’abbia fatto la signora ministro, al posto mio. Come fui contento – si fa per dire in quel caso – che il presidente Ciampi appoggiasse le sue mani sulle bare di quei poveri morti a Nasyriya, sulla stessa pista di Ciampino.
Magari anche allora la premiata ditta Cialtroni dal 1921 era contenta di quei morti, una grande vittoria dei compagni combattenti irakeni, ora e sempre resistenza, sul sentiero di Ho Chi Mihn. Io no, mi onoro di appartenere a quella – credo – maggioranza del popolo italiano che vorrebbe ancora stringersi attorno ai propri ragazzi in divisa, quando tornano vivi e quando tornano morti. Che magari si arrabbiano come belve quando la polizia commette un sopruso (perché quando ha una pistola al fianco una mela marcia può fare danni irreparabili), ma che comunque stanno con lo Stato perché non possono fare altro. Perché fuori, non c’è altro. Right or wrong, my country.
Credo che per una volta il MIO Stato abbia fatto il SUO dovere riportando a casa i Fucilieri della NOSTRA Marina. Gliene sono grato.
Da domani si ricomincia, ma oggi a questo governo mi sento soltanto di dire grazie.

domenica 29 maggio 2016

Un uomo solo al comando

Un uomo solo al comando. Credevamo che fosse ormai sport e letteratura d’altri tempi. Altro ciclismo, altri campioni, ammantati di quell’aura di leggenda che pervadeva qualsiasi impresa ai tempi in cui era la radio il nostro unico legame con il mondo, e che si era dissolta irrimediabilmente, inesorabilmente quando la televisione era giunta a portarci in casa tutto il mondo minuto per minuto, nei più infinitesimali dettagli.
Il suo nome era Fausto Coppi. La leggenda sembrava finita con lui e con Gino Bartali. Per sempre. E invece no. L’eroe è tornato. E’ un uomo sempre più solo, in questo ciclismo – in questo sport – fatto sempre di più di personaggi costruiti in laboratorio, che devono alla chimica quello che non possono più chiedere al cuore ed alle gambe. Ed è di nuovo al comando, sessant’anni dopo. Il suo nome è Vincenzo Nibali.
Chissà quanto tempo dovrà passare prima che qualcuno delle prossime generazioni possa raccontare un’impresa simile a quella che il corridore messinese ha messo a segno ieri, a conclusione di una due giorni di quelle che sconvolgono il mondo. Domenica scorsa, la rottura della bicicletta di Vincenzo aveva fatto il paio – un paio mestissimo – con quella della moto di Valentino. Per gli appassionati italiani che cercano nello sport quegli eroi, quegli esempi che ormai non trovano più da nessun’altra parte, era stato un segno degli Dei. Non c’è strada per il paradiso, non per il tricolore.
Tre o quattro giorni fa, Nibali meditava il ritiro, per non dover sfilare oggi a Torino da sconfitto, lui che secondo pronostico questo Giro se lo doveva mangiare, come lo squalo di cui porta il soprannome. Alla partenza da Pinerolo per la terzultima tappa, due giorni fa, soltanto il suo smisurato orgoglio – pari esclusivamente alla sua classe -  lo tenevano in corsa, almeno teoricamente. Sul colle dell’Agnello, quando il destino ha deciso di risarcirlo tutto insieme, la sua buona scorza siciliana l’ha fatto trovare più che pronto. Risorto in un attimo, dal nulla.
Kruijsvijk va lungo nella neve, e lascia in terra la maglia rosa. La raccoglie Chaves, ma Nibali che alla partenza aveva quasi cinque minuti di distacco si ritrova a soli quaranta secondi dal nuovo leader. Vincenzo si mangia sia la Cima Coppi (la vetta più alta di questo 99° Giro d’Italia) che l’arrivo a Risoul. All’arrivo il siciliano di granito scoppia in un pianto liberatorio. L’aveva fatto anche alla tappa decisiva del Tour 2014. Anche questi sono segni del destino. La crisi è come se non ci fosse mai stata.
Il giorno dopo, alla partenza da Guillestre tutti sanno che è solo questione di sfruttare il momento e l’occasione giusta. La tappa è la penultima, e la più dura del Giro. E’ oggi o mai più. Quarantaquattro secondi sono tutto e sono niente. Sulla salita della Lombarda, l’uomo si stacca e torna solo al comando. Da quel momento pedala sulle ali della leggenda. Nei 4 km che lo separano dal Gp della Montagna la maglia rosa passa sulle sue spalle. Adesso va soltanto difesa.
Nella discesa della Lombarda, Nibali è uno stukas che plana in picchiata. Al Santuario di Sant’Anna ha già un minuto e mezzo di vantaggio. Per il povero Chaves non c’è più niente da fare. Non contro la leggenda che gli pedala davanti. Al traguardo di Sant’Anna di Vinadio e del 99° Giro d’Italia, il distacco definitivo tra primo e secondo è 1’36”.
Su quel traguardo accade l’incredibile. Questo ciclismo malato di doping e business estremo forse ha ancora qualche speranza di tornare quello che più di ogni altro sport ci affascinava da ragazzini. Ai tempi della radio e di una televisione che essendo ancora in bianco e nero ci nascondeva tante brutture. Appena Vincenzo taglia il traguardo, i primi ad abbracciarlo sono i genitori di Chaves, che erano lì per festeggiare il figlio e con il loro gesto invece riscattano non solo questo sport ma tutto lo sport in generale. Chapeau, signori Chaves, e i migliori auguri che la prossima volta tocchi a vostro figlio.
Oggi passerella a Torino. Ieri a Sant’Anna è stata apoteosi, come al fischio finale di una finale mondiale. Oggi sarà la sfilata del pullman che porta in giro la Coppa del Mondo. Ma forse, più che alle metafore calcistiche, conviene ricorrere alla vecchia letteratura radiofonica. L’uomo oggi sfila in gruppo, assieme a compagni ed avversari. Ma rimarrà per sempre da solo, al comando. Con i suoi due Giri vinti, il suo Tour, la sua Vuelta e quel Mondiale perso a Firenze per una scivolata sul bagnato. Con i suoi due giorni, le sue otto ore e poco più di pedalata che hanno sconvolto il ciclismo mondiale.

Marco Pantani, ci sia consentito dirlo, è abbondantemente vendicato.

Come vi piace

Se n’è andato all’età di novantadue anni. Non possiamo dire “l’ultimo dei giganti del teatro fiorentino ed italiano”, perché il maestro Franco Zeffirelli è ancora vivo e vegeto. Ma Firenze e l’Italia piangono oggi una perdita che va ben oltre la vicenda umana terrena di Giorgio Albertazzi.
Con l’estremo saluto a quest’uomo che si è spento ieri a Roccastrada, nella Villa Tolomei di proprietà dell’ultima compagna della sua vita, si chiudono varie epoche della nostra storia. Albertazzi ha attraversato il ventesimo secolo con tutte le sue luci e le sue ombre. Le stesse luci ed ombre che hanno dovuto attraversare tutti coloro che hanno voluto seguirne ed apprezzarne l’opera.
Giorgio Albertazzi, in un paese in cui l’egemonia della cultura è dal dopoguerra appannaggio di una certa sinistra, non si era mai liberato dell’etichetta di “fascista” incollatagli addosso in gioventù a causa delle sue scelte. Nel 1943, in piena guerra civile successiva all’8 settembre, aveva scelto di aderire alla Repubblica Sociale Italiana. Come molti giovani di allora, si era trovato a vivere in un’epoca che non ammetteva di chiamarsi fuori da una scelta drammatica. Lui aveva scelto la parte che la storia aveva dichiarato poi essere sbagliata.
I suoi motivi ideali – aveva poi raccontato dopo essere stato amnistiato dal Ministro della Giustizia Togliatti nel 1947 (era stato accusato di aver fatto fucilare dei partigiani, ma lui si era sempre dichiarato innocente da quella accusa) – erano quelli di un fascismo eroico, delle origini. Ettore Muti, Italo Balbo, la Folgore ad El Alamein. Fosse nato vent’anni prima, sarebbe stato un giovane futurista. Una specie di fascista di sinistra, come lo erano stati tanti altri, che non a caso dopo la Liberazione erano confluiti nelle forze politiche che si richiamavano al socialismo, all’anticlericalismo, al repubblicanesimo quando non addirittura all’anarchismo.
Giorgio Albertazzi nella maturità si era scoperto anarchico prima e radicale poi, tanto da avvicinarsi all’altro grande scomparso di questi giorni, Marco Pannella, e da sposarne le più famose ed importanti battaglie di civiltà. Ma per l’intellighenzia dominante, “fascista” era stato e “fascista” rimaneva. E con lui chiunque avesse inteso poterne ammirare l’arte di recitazione in santa pace, e invece si ritrovava magari a dover affrontare durissime contestazioni di strada. Chi scrive, ricorda perfettamente una sera in cui da ragazzo – si era nel pieno dei roventi anni settanta – per entrare al teatro Niccolini a vederlo recitare per poco non rischiò le botte.
Ma Giorgio Albertazzi valeva la pena. Con le sue maschere variopinte che ne hanno fatto uno degli autori shakespeariani per eccellenza. Era solito dire che Shakespeare, il suo autore preferito, era il genio del teatro che sapeva saltare dalla commedia alla tragedia alla farsa a qualsiasi altro genere con estrema facilità e versatilità. In quel Globe ideale che contiene ed ospita tutti coloro che si sono cimentati con le rappresentazioni sceniche dei capolavori del grande drammaturgo inglese, Albertazzi occupava un posto d'onore.
Nel 1964, in occasione del 400º anniversario della nascita di Shakespeare, aveva debuttato al teatro Old Vic di Londra con Amleto, diretto da Franco Zeffirelli e con protagoniste femminili la sua compagna Anna Proclemer e Anna Maria Guarnieri. Lo spettacolo era rimasto in cartellone per due mesi, e lo stesso attore era stato premiato con una foto nella galleria dei grandi interpreti shakespeariani del Royal National Theatre, unico attore non di lingua inglese. Mentre qui in Italia si discuteva se Albertazzi era stato un feroce fascista o meno, all’estero già gli tributavano onori degni di un Lawrence Olivier.
Dr, Jekyll e Mr. Hyde
Albertazzi aveva tenuto a battesimo anche la televisione, che nei suoi primi anni di vita dava grande importanza nei palinsesti alle riduzioni ed alle sceneggiature di grandi opere letterarie. Nel 1969 era stato un magistrale dottor Jekyll nella trasposizione televisiva del celebre romanzo di Robert Louis Stevenson, lo strano caso del dottor Jekyll e mr. Hyde. Chi meglio di lui, maschera teatrale per eccellenza, poteva incarnare l’uomo bipolare che si sdoppia per effetto della droga trasformandosi da perfetto gentiluomo ed intellettuale vittoriano in energumeno bestiale criminale che sguazza nei sordidi bassifondi di Londra?
Perde molto Firenze, ora che si mette in fila per tributare le onoranze funebri a quest’ultimo esponente di un primato culturale che ormai non esiste più. La città in cui lui non viveva più da tanto tempo non ha più nulla di quella che poteva vantarsi, dalle Giubbe Rosse alla Pergola al Comunale a ogni circolo culturale anche di periferia, di ospitare ed allevare quanto di meglio la razza italiana producesse in ambito culturale. Ormai è una città che procede per stereotipi, secondo una moda inaugurata proprio quarant’anni fa, quando per assistere alle rappresentazioni del maestro Albertazzi si rischiava il linciaggio secondo le parole d’ordine di una sinistra che allora come ora non era neanche capace di scriverle senza errori ortografici.
Ciò che frana nel sottosuolo a due passi dal Ponte Vecchio, frana anche nelle nostre coscienze non più nutrite da quell’humus in cui una volta germogliava il Genio. Le sia lieve la terra, maestro. Lei non era credente, ma qualunque cosa sia successa quando era giovane, lassù l’aspettano per far pace. E godersi in tranquillità la sua splendida, unica, irripetibile recitazione.

Ad aprirle i cancelli del cielo, troverà nientemeno che William Shakespeare.

Tornando a casa

Il lungo abbraccio con la signora Ministro per la Difesa Roberta Pinotti è uno di quei momenti in cui un governo può dirsi veramente rappresentativo del suo popolo. E’ anche la fine di un incubo interminabile, per quel popolo ma soprattutto per Salvatore Girone e per la sua famiglia.
Sono le 18 circa quando l’aereo che riporta in patria, a casa, il fuciliere di marina Salvatore Girone atterra a Ciampino. L’India è lontana, un bruttissimo sogno lasciato dietro le spalle. Ma prima di riabbracciare l’Italia – o perlomeno quell’Italia che non ha mai smesso di sperare e di chiedere la sua liberazione – c’è da riabbracciare la famiglia. La moglie, i due figli ed il padre di Girone salgono a bordo. Questo primo momento sul suolo italiano è solo per loro, com’è giusto che sia.
Poi, l’abbraccio con la Pinotti e la stretta di mano al ministro degli esteri Gentiloni ed a tutte le altre autorità presenti. Nessuno rilascia dichiarazioni, tutti sono consapevoli che il momento che stanno vivendo è stato reso possibile da un lavoro delicatissimo svolto sul filo di un rasoio affilatissimo. Non è il caso di urtare suscettibilità a malapena sopite. Ma per un breve istante il marò Salvatore alza le braccia al cielo. “Ce l’ho fatta”, sembra dire. Sì, ce l’ha fatta. Ce l’abbiamo fatta. I nostri soldati sono a casa.
Massimiliano Latorre è da tempo convalescente dall’ictus che lo colpì mentre era agli arresti nell’ambasciata italiana a Nuova Delhi. Quando sembrava che il suo permesso speciale fosse al termine, è giunta a maturazione la complessa opera diplomatica svolta con brillante successo dalla Farnesina, che si è sostanziata nella sentenza del tribunale internazionale di arbitrato. Una sentenza, c’è da credere scritta più a Roma che all’Aja, ma che sostenuta opportunamente e finalmente con adeguata forza dalla comunità internazionale con le proprie istituzioni, ha obbligato la Corte Suprema Indiana a concedere ai due marò italiani di attendere a casa loro le risultanze di un processo che comunque è ben lontano dal potersi celebrare.
Tecnicamente, la vicenda non può dirsi conclusa. Moralmente, politicamente, sostanzialmente, si tratta della svolta che non solo in Italia si auspicava ma che toglie dalle mani dell’India il principale strumento di pressione in ordine a questa questione internazionale che era andata ben oltre i fatti specifici. Crediamo di non dire niente di scandaloso ritenendo che l’attuale o il prossimo governo italiano si comporteranno in maniera assai diversa da quel governo Monti che acconsentì all’ordine di rientro in India per i due marò in occasione della prima licenza per il Natale 2012.
La soluzione è stata trovata brillantemente nelle stanze del corpo diplomatico italiano ed europeo. E probabilmente non verrà mai scritta in tutta la sua interezza sui libri di storia. Ci basta l’abbraccio tra la ministro Pinotti ed il fuciliere di Marina Girone, sulla pista di Ciampino. E’ stato – finalmente – un bel vedere.

L’incubo è finito. Bentornati a casa, ragazzi.

giovedì 26 maggio 2016

CONTROCORRENTE: BUCA TORRIGIANI, CHI PAGA



Da vecchio navigatore della pubblica amministrazione, faccio una previsione su come andrà a finire questa vicenda del Lungarno Torrigiani. Ricapitoliamo, nessun morto o ferito, ma cinque milioni di danni stimati, a pochissimi passi da un Ponte Vecchio alla cui destabilizzazione nessuno vuole neanche pensare. Il sindaco Nardella tuona: “Errore umano, chi ha sbagliato pagherà!
Ecco, appunto. Caro sindaco, non pagherà nessuno. In questo sistema, che l’ha promossa ai vertici della politica e che la ricomprende, non paga mai nessuno. E’ un sistema autoreferenziato, si sale e si scende (rarissimamente, e mai di stipendio) non per meriti personali reali, ma per logiche d’altro genere. Di partito, di loggia, di consorteria o corporazione.
In Italia, è così. In Toscana, a Firenze, più che altrove. Sappiamo quanto contino da queste parti logge, corporazioni, e partiti. O per meglio dire, partito. Perché qui da vent’anni a questa parte ce n’è uno solo.
Chi è funzionale a questo sistema, non paga mai. Al massimo, come l’arrocco negli scacchi, viene spostato ad altro incarico, da Publiacqua all’ARPAT, all’ATAF, all’ANAS, all’AISCAT, alla Società Autostrade, da qualche altra parte dove potrà continuare a fare danni imperterrito, mentre i suoi vecchi danni saranno continuati – al vecchio posto – da qualcun altro. Sicuramente altrettanto inqualificato e inqualificabile di lui.
Funziona così. Lo sa Nardella, lo sa chiunque lavori nel “pubblico”, lo sa chiunque stamattina si affanni, a vario titolo, ad arrampicarsi sugli specchi per fornire una versione di comodo, per archivio. Un qualcosa che acquieti il momentaneo bisogno del popolino di veder impiccato, squartato e bruciato qualche “colpevole”. Bisogno che peraltro dura poco, tra una settimana al massimo sarà crollato o sventrato qualcos’altro. Qualcuno avrà fatto qualche altra cazzata madornale. E della Buca Torrigiani non se ne parlerà più.
In un paese normale, stamattina Publiacqua e gli altri soggetti implicati nella vicenda avrebbero un bel da fare per arrampicarsi su quegli specchi, con i loro addetti stampa ed i loro funzionari indignati ma nello stesso tempo non in grado di rispondere all’opinione pubblica perché c’è un disturbo nell’audio, un ritorno in cuffia.
Ma noi un paese normale non lo siamo mai stato. Ora meno che mai. Sono almeno quindici anni che il sistema governativo nazionale e regionale e quello delle autonomie locali non fanno più nulla per mantenere il ben di dio che le passate generazioni ci hanno lasciato in eredità. E che noi vorremmo passare intatto ai nostri figli e nipoti. Sarà dura, perché il tempo passato nell’incuria, nella negligenza quando non nello spreco, nell’abuso, nell’omissione e nel furto è stato tanto e i segni che ha lasciato sono profondi. E chissà se reversibili.
Genova non ha più la sua Lanterna, Pompei perde pezzi quotidianamente in mondovisione. Non vogliamo neanche pensare ad una certa eventualità per i nostri monumenti più cari, quel Ponte attraversato da Lorenzo il Magnifico per andare da “casa” a “ufficio”, quel Battistero dove Dante aveva ricevuto i sacramenti. Non vogliamo pensarci, c’è un limite all’orrore immaginabile. Ma purtroppo sappiamo almeno a livello inconscio che è nel novero delle possibilità. Un dysaster movie anni 70 ambientato nella nostra città ormai è più che verosimile.
Mi rendo conto che parlo come un vecchio, di quelli che scuotono la testa sconsolati appena mettono il naso fuori di casa, al solo vedere che cosa è diventato il “loro” mondo. Quando lo facevano il mio nonno, il mio babbo, non capivo. Ero un ragazzo, mi sembrava il migliore dei mondi possibili. Il nonno aveva ritirato su il paese dalle macerie della Guerra, il babbo da quelle dell’Alluvione. E il mondo che stavano vedendo cambiare mentre invecchiavano non piaceva più loro. Ora che sto raggiungendo anch’io quella fase della vita, dico che il babbo ed il nonno non avevano ancora visto nulla.
Caro Nardella, non pagherà nessuno. Quanto all’errore umano, sono sempre gli elettori i primi a commetterlo. La volta scorsa furono il sessanta per cento. La prossima volta, chissà. Ma almeno gli elettori, i cittadini, pagano. Sulla loro pelle. Sempre.

mercoledì 25 maggio 2016

CONTROCORRENTE: Firenze anno zero




Il giornalista stamani ha scritto (pubblicato su www.bloogger.it)

E’ un’ora maledetta per Firenze. Alle sei di mattina circa la spalletta dell’Arno agli Uffizi cedette lasciando passare l’acqua il 4 novembre 1966. Alle sei e trenta di stamane, la terra ha tremato sul Lungarno Torrigiani, franando e inghiottendo circa 20 auto parcheggiate in sosta nel tratto in prossimità del Ponte Vecchio. Nessun ferito o peggio, data soprattutto l’ora. Solo danni pesantissimi, come hanno già potuto constatare le autorità. E un’immagine della città nuovamente sfigurata, senza possibilità forse di ripristino.
Una delle zone più suggestive d’Italia, il tratto di lungarno che corre attraverso Oltrarno tra Ponte alle Grazie e Ponte Vecchio, dall’altro lato degli Uffizi, è diventato nel giro di pochi istanti un altro emblema di un’Italia che ormai sta franando.
Già avviata, contestualmente all’intervento di Vigili del Fuoco, Polizia Municipale e Protezione Civile, la ricerca delle responsabilità. A provocare il cedimento sarebbe stata la rottura della dorsale dell'acquedotto fiorentino sulla riva sinistra dell'Arno, la conduttura principale a servizio dello stesso Oltrarno.
In conseguenza del guasto, verificatosi intorno alla mezzanotte precedente, i vigili urbani avevano chiuso il lungarno chiedendo l’intervento di Publiacqua, la società che gestisce l'acquedotto fiorentino. La chiusura dell’afflusso dell’acqua da parte del gestore avrebbe causato una sovrappressione su altre tubature, il cosiddetto colpo d'ariete, con conseguente rottura della tubazione principale. In attesa della ricostruzione dei fatti da parte delle autorità competenti, preferiamo sospendere ogni commento.
Stamattina il Lungarno Torrigiani si presentava sconvolto da una voragine di circa duecento metri per sette di larghezza. A destare ulteriore preoccupazione, in mattinata una porzione della strada del lungarno è crollata dentro la voragine apertasi precedentemente. Altri dieci metri di manto stradale precipitatovi dentro. Due palazzi antistanti sono stati evacuati a scopo precauzionale, come provvedimento cautelativo e per effettuare al meglio i controlli: dai rilievi di Vigili del Fuoco e Genio Civile non risultano al momento infiltrazioni nelle cantine dei due palazzi.
I Vigili del Fuoco, la Polizia Municipale e la Protezione Civile sono tutt’ora al lavoro per evitare possibili altri crolli della strada e anche della spalletta nel tratto di lungarno a Firenze interessato dal disastro. Il problema, spiegano i Vigili del Fuoco, è l'acqua che fuoriesce dalla tubatura provocando il dilavamento del terreno e quindi l'erosione. Al lavoro c'è già un'idrovora ed un'altra è in arrivo da Prato. I pompieri a bordo di un gommone stanno compiendo verifiche in Arno.
Il Dipartimento di ingegneria e di geologia sta sistemando in loco un'apparecchiatura radar, come quella utilizzata per la Concordia all'Isola del Giglio per verificare gli eventuali movimenti della spalletta e del muro del Lungarno Torrigiani. Le apparecchiature vengono sistemate sula sponda opposta, sul Lungarno Archibusieri, che corre a fianco della Galleria degli Uffizi.
«Nessun ferito, ma solo danni: danni pesantissimi» - ha commentato il sindaco di Firenze Dario Nardella  accorso sul posto – «è  una voragine molto seria». Il sindaco ha inoltre informato la popolazione con il sistema del Florence System Alert telefonico (messaggi registrati diramati alla cittadinanza in automatico) delle possibili ripercussioni negative sul servizio di erogazione dell’acqua nella zone limitrofe a quella dell’evento.

più di così non si poteva pubblicare, l'opinionista (rompicoglioni) ha poi commentato sul suo profilo facebook:
Io vorrei sapere se per qualcuno è verosimile che frani un lungarno per la rottura di una tubatura. Perché in tal caso si può chiudere bottega. La prossima è credere che l'effetto serra sia colpa degli alieni.
Quello che è certo è che Publiacqua si prenderà tutte le colpe, il che vuol dire che qualche dirigente sarà spostato altrove, come l'arrocco negli scacchi.
P.S. Vediamo il lato positivo: i telefoni funzionano. Nardella ha già telefonato a mezza Firenze che resterà probabilmente senz'acqua.



 

sabato 7 maggio 2016

Emanuela, che avrà trentatre anni a giugno

Il rigetto del ricorso contro l'archiviazione dell'indagine sulla scomparsa di Emanuela Orlandi disposta dalla Procura di Roma da parte della Corte di Cassazione è una delle pagine più vergognose della storia della Repubblica.
Gli indagati - ricordiamo - erano sei, tra i quali un'alta personalità del Vaticano ed alcuni personaggi legati in vario modo alla famigerata Banda della Magliana.
Non sapremo mai dove avrebbe portato l'indagine, peraltro in ritardo di trent'anni, se fosse stata seriamente condotta dalle autorità italiane. Ma è facile pensare che avrebbe condotto nei paraggi di "luoghi" e "persone" di cui abbiamo sospettato fin dall'inizio. Le due ragazze erano cittadine dello Stato del Vaticano, il padre di Emanuela era un dipendente del Vaticano stesso. Il Vaticano non ha mai mosso un dito per dare una mano a ritrovarle. Lo Stato Italiano, che - ricordiamo - è vincolato dal Concordato vigente ad agire come autorità di pubblica sicurezza anche nel territorio dello stato pontificio, ha pensato bene di fare altrettanto, per 33 anni. Cioé niente.
Emanuela, ricordiamo, sparì il 22 giugno 1983, poche settimane dopo Mirella Gregori. Abbiamo sempre pensato tutti che i colpevoli fossero da ricercare nelle alte sfere vaticane, che anche Roma avesse i suoi mostri così come nello stesso periodo li aveva Firenze. Abbiamo sempre pensato che la Banda della Magliana c'entrasse qualcosa, come braccio armato di una Chiesa Cattolica a cui le guardie svizzere evidentemente non bastavano più.
Dietro il giudizio di inammissibilità del ricorso Orlandi - Gregori da parte dei PM del Palazzaccio di Roma è inevitabile pensare che si celino ben altre motivazioni. Personalmente alla buona fede della Magistratura italiana non credo in assoluto più da tempo, come del resto a quella della Chiesa Cattolica. Ma c'é dell'altro, di peggio. L'asservimento del nostro Stato alla Chiesa ormai è totale ed evidente. Il principio di Cavour "libera chiesa in libero stato" ormai è il più disatteso della storia dell'Italia Unita.
E' triste, più che vergognoso, che nel 2016 esista nel cuore dell'Europa uno stato confessionale come l'Italia. Uno stato dove il Presidente, quello vero, si affaccia tutte le domeniche alle 11,00 circa da una finestra di Piazza San Pietro ad arringare folle che non ricordano nemmeno più a quale ammasso hanno lasciato il cervello.
Da quella stessa finestra, tra l'altro, neanche una parola sul caso di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori. In compenso tante parole, ogni giorno, sulla "necessità" che lo stato italiano si faccia carico di problemi di accoglienza che la  Chiesa, se volesse, con il ricorso alle sue finanze non sempre pulite, a volte provenienti da località decisamente sinistre come la suddetta Magliana, risolverebbe in un attimo.
Difficile pensare che, se l'Isis stabilisse il famoso Califfato a Roma, da certi punti di vista la situazione potrebbe essere peggiore di adesso.


P.S. Emanuela Orlandi era nata il 14 gennaio 1968. Il titolo è un evidente artificio retorico, riferito all'anniversario della sua scomparsa



venerdì 6 maggio 2016

Friuli, 6 maggio 1976 ore 21: arriva l'Orcolat

6 maggio 1976, la terra trema in Friuli. L'orcolat, l'essere mostruoso e maledetto che secondo la leggenda popolare vive rinchiuso nelle montagne della Carnia e che ogni tanto si agita per liberarsi, ha provocato uno spaventoso terremoto. Interi paesi distrutti nel giro di pochi istanti.....chi non ricorda il nome di Gemona?
Il Friuli commosse il mondo. Non solo per la tragedia che una volta di più tornava a colpire il martoriato (già allora) territorio della nostra Penisola, dilagando in mondovisione come pochi altri eventi erano riusciti a fare. Ma anche e soprattutto per la reazione dei friulani, che pochi minuti dopo le scosse terribili e fatali erano già a rimboccarsi le maniche, prima per contare morti, feriti e danni, poi per ricostruire tutto com'era e dov'era, secondo un celebre motto che si diffuse in quei giorni tra la gente del posto.
E così fu. Mentre Giuseppe Zamberletti muoveva per la prima volta la farraginosa macchina dello Stato a soccorso del nord-est martoriato come nemmeno durante le guerre mondiali (e proprio a Gemona e dintorni gli maturava in testa l'idea che poi avrebbe messo a punto definitivamente cinque anni dopo in Irpinia, della necessità di un Dipartimento Nazionale Protezione Civile), i friulani intanto fecero da sé. Come i fiorentini di dieci anni prima, come la gente del Polesine venticinque anni prima, quando lo Stato arrivò il Friuli si era già rialzato in piedi. Da solo.
A settembre la terra tremava ancora, ostacolando l'opera di ricostruzione. Ma la Regione Friuli - Venezia Giulia ormai era determinata a riavere quella sua terra e quei suoi paesi così com'erano e dov'erano stati, il prima possibile. L'opera di ripristino fu dichiarata conclusa a metà anni 80, allorché gli ultimi abitanti dei 40.000 sfollati dopo il sisma poterono fare rientro nelle loro case non più lesionate.
In dieci anni gli effetti di uno dei peggiori terremoti della storia d'Italia erano stati cancellati. Un tempo record, come record fu il costo: soltanto ventinove miliardi di lire di allora, metà stanziati dallo Stato, metà dalla Regione a Statuto Speciale.
Quella del Friuli fu l'ultima epopea popolare italiana, nella secolare lotta contro una natura ostile in un paese dove miseria e incuria dei governanti rendevano precarie le condizioni di vita da tempo immemorabile. La gente, in Friuli, si rimboccò le maniche per l'ultima volta.
Già in Irpinia, nel 1981, la storia sarebbe andata diversamente. Per non parlare di Umbria e Marche, nel 1997, fino alla gestione scandalosa del terremoto all'Aquila nel 2009.
Dov'era e com'era la gente, adesso c'é lo Stato. Uno Stato i cui danni non esiste scala, né RichterMercalli, in grado di misurarli.

martedì 3 maggio 2016

I Marò tornano a casa



Quattro anni. Tanti ce ne sono volute affinché lo strano caso dell’Erica Lexie e della detenzione in India dei due fucilieri di marina italiani Massimiliano Latorre e Salvatore Girone al di fuori di ogni garanzia di diritto internazionale arrivasse a soluzione.
La notizia che tutta l’Italia (o almeno quella parte della sua popolazione che può a buon diritto ancora riferirsi a se stessa con il nome di Italia) attendeva assieme alle famiglie Latorre e Girone è finalmente arrivata ieri all’ora di pranzo dall’Aja, la città olandese dove ha sede il Tribunale Internazionale arbitrale.
Il governo italiano, il terzo in ordine di tempo ad occuparsi della più grave crisi internazionale coinvolgente il nostro paese almeno fino all’omicidio di Giulio Regeni, aveva intrapreso la strada del ricorso all’organismo di giustizia internazionale nel luglio 2015, riprendendo un’idea a suo tempo avanzata dalla diplomazia italiana ai tempi in cui essa era diretta da Emma Bonino.
La strada, per quanto lunga sia nel tratto già percorso che in quello da percorrere, si è dimostrata peraltro quella giusta. L’unica forse possibile. Scrive il tribunale dell’Aja nella sua sentenza di ieri: «Italia e India devono cooperare, anche davanti alla Corte Suprema indiana, per ottenere un allentamento delle condizioni cautelari del sergente Girone così che possa, in base a considerazioni di umanità, tornare in Italia, mentre rimane sotto l'autorità della Corte Suprema indiana durante il periodo dell'arbitrato».
In pratica, dopo Massimiliano Latorre che si trova già da tempo nel nostro paese in regime di permesso speciale (prorogato di recente) per rimettersi dai postumi dell’ictus che l’aveva colpito durante la detenzione in India, anche Salvatore Girone può fare finalmente ritorno a casa in famiglia, pur rimanendo sotto «l'autorità della Corte Suprema indiana durante l'arbitrato internazionale».
Nella nota con la quale la Farnesina ha dato notizia con legittima soddisfazione del pronunciamento della Corte dell’Aja e della svolta della vicenda nel senso auspicato, si va addirittura oltre. «Il Governo ha lavorato per sottoporre l'intera vicenda all'arbitrato internazionale e, in questo quadro, riportare a casa i due Fucilieri di Marina. L'ordinanza annunciata apre la strada a questo risultato. Si tratta quindi di una buona notizia per i due Fucilieri, le loro famiglie e per le ragioni sostenute dal Governo e dai nostri legali. Il Governo conta su un atteggiamento costruttivo dell'India anche nelle fasi successive e di merito della controversia».
In sostanza, il Ministero degli Esteri italiano ipoteca anche l’esito del successivo dibattimento, sottolineando come l’organo arbitrale internazionale non potrà non riconoscere le buone ragioni del nostro paese e dei suoi militari in servizio, nell’ambito di una vicenda in cui le autorità indiane si sono comportate fin da subito in modo da lasciare numerose e gravi perplessità nell’opinione pubblica non solo di parte, ma anche internazionale.
Al di là delle dichiarazioni, chi conosce un po’ delle segrete cose di cui si nutre la diplomazia, non può non cogliere il senso più importante di questa svolta. I Marò tornano a casa dopo quattro anni, grazie ad una sentenza che è stata scritta nelle cancellerie diplomatiche prima ancora che nelle aule di tribunale internazionale. Una sentenza magistralmente redatta in modo da salvare capra e cavoli, faccia ed orgoglio indiani insieme alle ragioni italiane.
A questo punto, è la parte non scritta tra le righe di questa sentenza storica, qualunque cosa succeda Latorre e Girone la vivranno qui, tra i loro connazionali ed i loro familiari. E la sensazione è che non potrà succedere altro che una conclusione la più indolore possibile per una crisi che è durata anche troppo ed i cui contorni ed ambiti reali restano comunque da definire.
Il clima in questi quattro anni è tra l’altro assai mutato, ed è da auspicare che non si verifichi una ripetizione della tragicomica gaffe del governo Monti che in occasione delle vacanze di Natale 2012 e del permesso speciale concesso dagli indiani ai due Marò di trascorrerlo in famiglia, non colse al volo l’opportunità di chiudere allora d’autorità una vicenda che con il diritto aveva poco o nulla a che fare.
La sensazione, ribadiamo, è che stavolta le circostanze consentano – a prescindere da qualsiasi valutazione si voglia dare della vicenda complessiva – di chiuderla diversamente, e con soddisfazione di tutti. In questo senso, concediamo al governo Renzi di dare grande risonanza all’evento ed al proprio ruolo svolto nel determinarlo. Di sicuro, la diplomazia italiana ha fatto il suo dovere in modo egregio.

Momenti di gloria



Chi osa vince. E’ il motto dello Special Air Service, l’unità d’elite dell’esercito inglese alla quale vengono affidate le missions impossibile, le questioni più delicate e pericolose da sbrogliare. Una specie di berretti verdi britannici.
E’ un motto che piace agli inglesi, da sempre, da quando salivano sulle navi pirata di Francis Drake a quando reinventarono un gioco che aveva fatto la sua comparsa nella Firenze del Cinquecento, per poi essere definitivamente codificato (più o meno come lo conosciamo adesso) alla metà dell’Ottocento nei colleges di Sua Maestà Britannica.
Sono le 22,30 circa ora italiana quando il referee fischia la fine del match tra Tottenham Hotspurs e Chelsea che chiude la 36sima giornata della Premier League. Lo score è 2-2, i punti che separano gli Spurs dalla vetta restano sette, con due turni da giocare. A Leicester, capoluogo delle Midlands, esplode incontenibile la gioia. Le Volpi, così i propri tifosi chiamano affettuosamente i propri beniamini in maglia blu, sono campioni d’Inghilterra, per la prima volta nei loro 132 anni di storia.
La favola bella è finita. Adesso comincia la leggenda. L’atto conclusivo si consuma in luoghi dai nomi mitologici: stadi che si chiamano Old Trafford (dove il Leicester resiste all’ultimo assalto, quello condotto dal Manchester United) e Stanford Bridge (dove il Tottenham fallisce il suo ultimo assalto al Chelsea, lasciando via libera alle Volpi).
Gli outsiders, rimasti in testa dall’inizio della stagione, entrano di diritto nella storia del loro calcio e non solo, bissando a distanza di quasi quarant’anni l’impresa del Nottingham Forest di Brian Clough, capace di vincere nel 1978 lo scudetto dopo appena un anno dalla sua promozione dalla seconda divisione. Parlare di leggenda è poco. Parlarne senza un brivido di emozione, qui dall’Italia, è impossibile. Alla guida di questi corsari che hanno issato la loro bandiera blu sulla vetta della Premier League c’è un signore italiano. Si chiama Claudio Ranieri, vecchia conoscenza di un campionato che una volta era il più bello del mondo e che adesso non può non guardare con invidia la più spettacolare e competitiva versione britannica.
Claudio Ranieri, romano de Roma, è uno di quei casi di talento italiano costretto ad emigrare all’estero per avere fortuna, riconoscimento delle proprie qualità. Tutti d’accordo su di lui fino a poco fa, dalle nostre parti: un signore, appunto (chissà se Sua Maestà Elisabetta II conferirà a questo gentiluomo italiano il titolo di Sir elargito più volte a chi ha conseguito onore e gloria in Albione per sé e in definitiva anche per la stessa Union Jack), ma non un vincente.
A Firenze questo gentiluomo è ben conosciuto. Allenò una delle migliori Fiorentine di sempre, quella che schierava tra gli altri Batistuta. Che fu fermata nella sua corsa verso la vittoria in Italia da un Milan stellare più altre Sette Sorelle ed in Europa da un Barcellona che non aveva nulla da invidiare a quello con cui adesso tutti si riempiono la bocca.
I mancati successi in riva all’Arno furono imputati ovviamente alla colpa sua. Dieci anni dopo, gli capitò alle mani la Juventus del dopo Calciopoli, non la migliore della sua storia. Tornato in A dopo l’anno sabbatico giudiziario, non gli riuscì il miracolo di vincere subito, e in una Torino affamata (come si è visto) di immediata ed ingente rivalsa questo non fu perdonato. Capitato a Valencia e a Londra, sponda Chelsea, in anni che non erano ancora quelli delle vacche supergrasse, aveva collezionato piazzamenti e coppe di Lega, mai la grande vittoria. A Londra l’avevano soprannominato tinkerman, che in inglese sta per omino che si arrabatta, rabbercia, esegue riparazioni alla meglio. Il contrario di skillful, abile e vincente.
Era diventato un paria, un transfuga, un nemo propheta in patria che – non più giovane, ma per il resto assolutamente in linea con tanti nostri giovani – aveva alla fine ripreso la strada dell’Inghilterra per cercare un rilancio, o almeno un futuro. A lui aveva pensato la cordata Asian Football Investments, (capofila la King Power Group diventata improvvisamente uno degli sponsor più celebri del calcio) che detiene dal 2010 la proprietà della società, per affidargli la panchina della squadra. Senza che nessuno dei due immaginasse che la storia era sul punto di bussare ai cancelli del King Power Stadium.
Leicester è in festa. L’antico Legercastrum romano diventato nei secoli uno dei capoluoghi della caccia alla volpe, che fino a pochi anni fa rivaleggiava con il football ed il rugby come sport simbolo di quest’isola, se la ride adesso dei pronostici interessati degli addetti ai lavori e delle Bet Houses, le agenzie di scommesse.«Più facile che Elvis sia vivo che il Leicester vinca la Premier League». Adesso hanno da pagare qualcosa come 14 milioni di sterline a chi ci ha creduto un po’ più di loro.


La gente delle Midlands stringe in mano il proprio boccale di ottima birra inglese, ed attende di portare in trionfo il suo condottiero italiano, che ha trascorso la sera più importante della sua vita professionale a casa a Roma dalla mamma. Quando all’ottantatreesimo Hazard ha messo dentro il pareggio definitivo del Chelsea, quello che lo ha catapultato dentro la leggenda del football, chissà se e quanto si è commosso, se ha ripensato agli anni in cui per il grande calcio che conta non era più buono ad allenare nemmeno una squadra Primavera.

«Sapevo che un giorno avrei vinto uno scudetto», dice adesso Sir Claudio. L’ha fatto nel paese dove chi osa vince. Dove il coraggio e l’abilità fanno ancora premio su tatticismi e furbizie. Dove lo sport moderno è nato, ed ogni tanto si ricorda di tornare a casa. Britannia Felix, quella di oggi è anche la festa di una Premier League che noi ormai possiamo soltanto invidiare.

We have a great pleasure in awarding you this, Sir Claudio Ranieri. Sei nella storia. Goditela.