domenica 1 luglio 2012

Storia delle Olimpiadi: I nostri giorni (2008 - 2012)



Dice un antico proverbio cinese, se una disputa va per le lunghe, significa che tutti e due i contendenti hanno torto. Nel 2001, dopo aver deliberato di pagare il debito assunto con Atene per la mancata assegnazione delle Olimpiadi del Centenario, il Comitato Olimpico Internazionale – alla cui presidenza si era appena insediato il belga Jacques Rogge in sostituzione dello spagnolo Samaranch, dimissionario – prese la decisione di pagare anche quello contratto successivamente  con Pechino, alla quale era stata preferita Sidney per l’assegnazione dei primi Giochi del terzo secolo delle Olimpiadi moderne.
Pur arrivato con otto anni di ritardo, il governo della Repubblica Popolare Cinese accettò di buon grado il risarcimento, maturato addirittura al secondo turno di votazione (fatto senza precedenti, mai una candidata aveva raggiunto così presto la maggioranza assoluta). «La vincita dell'offerta olimpica del 2008 è un esempio internazionale della Cina, di stabilità sociale, del progresso economico e della vita in buona salute per il popolo cinese». Al di là della prosa involuta, ciò che il vice-premier cinese Li Lanqing intendeva dire era che questo benedetto ventunesimo secolo sembrava finalmente avviarsi a poter essere considerato il secolo cinese, così come il precedente era stato considerato il secolo americano.
Negli stessi giorni, l’Organizzazione Mondiale del Commercio (W.T.O.) aveva ammesso nel suo consesso la stessa Cina, aprendole le porte principali della poderosa espansione economica che stava comunque già prendendo il via. I giochi della XXIX^ Olimpiade erano un grandioso spot pubblicitario per questa nazione di oltre un miliardo di abitanti (senza contare i suoi figli sparsi per il globo) che aveva dichiarata chiusa nei fatti l’esperienza comunista e aveva cominciato a comprarsi quel mondo verso cui una volta aveva provato tanta ostilità, peraltro ricambiata.
La macchina organizzativa che si mise in moto all’indomani della decisione del C.I.O. ha dell’incredibile, se considerata senza tener conto delle capacità direttive di uno stato che affondava le proprie origini nella notte dei tempi e che poteva vantare un passato imperiale prima e comunista poi durante i quali era stato realizzato più di un miracolo, nonché delle capacità di risposta di un corpo sociale dalle infinite doti di sopportazione da un lato e di produzione in senso lato dall’altro.
Le Olimpiadi del 2008 costarono alla collettività cinese 40 miliardi di dollari per la costruzione di impianti, infrastrutture, energia, trasporti e approvvigionamenti di risorse varie. I due miliardi necessari alla costruzione degli impianti furono finanziati da imprese americane in cambio della partecipazione ai diritti di proprietà post-olimpici. Furono realizzati dal nulla in soli due anni impianti come lo Stadio Nazionale di Pechino e lo Stadio Nazionale Indoor, l’Olympic Green o Parco Olimpico, il Wukesong Baseball Field.
Un ulteriore sforzo prodigioso fu sopportato dalla Cina nel reperimento del personale necessario al funzionamento delle strutture olimpiche, circa 11.000 volontari. La Cina inoltre forzò se stessa, per la prima e forse unica volta finora, al rispetto degli standard internazionali in materia sia di inquinamento che di qualità alimentare. Di più, funzionari governativi percorsero il paese in lungo e in largo, come avevano fatto i vecchi funzionari imperiali in altre epoche, per selezionare e reclutare tutti quei bambini e ragazzi che minimamente promettevano nelle discipline sportive che sarebbero andate in gara nel 2008. Attraverso un processo di selezione durissimo, i migliori venivano iscritti alla squadra olimpica, gli altri tornavano ad un oblio inimmaginabile.
Difficile spiegare, se non con l’intervento di una pianificazione ultradeterminata o addirittura spietata, il boom della Cina anche in termini di successi sportivi. Fino ad Atene, la RPC era stata una potenza olimpica al massimo da quarto posto nel Medagliere, quando le era andata più che bene. A Pechino, la squadra di casa stravinse, con 51 medaglie d’oro, 21 d’argento e 28 di bronzo. Un risultato che non aveva precedenti nemmeno ai tempi delle superpotenze dopate della Guerra Fredda. Una presenza cinese ai vertici di tutte le discipline olimpiche che non aveva riscontro né spiegazioni plausibili, a non voler credere alle storie di magia.
La fiamma olimpica arrivò a Pechino girando i quattro angoli del mondo, ma evitando accuratamente Taipei, con cui la Cina che continuava a definirsi comunista non aveva trovato pace malgrado né Mao Tze TungChang Kai Shek fossero più di questo mondo. Altri simboli di un passato restio a morire, le due Coree illusero tutti di volersi presentare come una Squadra Unificata, rinunciandovi quando ormai il braciere stava per essere acceso. Si discusse a lungo anche dell’opportunità di portare la fiaccola sulla vetta dell’Everest. Dalla cima della montagna più alta del mondo si vede il Tibet. E la Cina vuole che il mondo si dimentichi del Tibet, e della sorte che ha avuto per sua mano. Per solidarietà sempre con il Tibet, una quantità di personalità – da Carlo Principe di Galles a Pietro Mennea – finirono per disertare i Giochi di Pechino.
La cerimonia d'apertura allo Stadio Nazionale di Pechino
La suggestiva cerimonia di apertura, orchestrata dal regista Zhang Yimou come se fosse uno dei suoi film evocativi del passato e della cultura cinesi, riepilogò la strada millenaria che quel paese aveva percorso per presentarsi finalmente ad un mondo colto assolutamente di sorpresa come la probabile superpotenza del futuro. Steven Spielberg, a cui era stata offerta l’organizzazione sia di quella cerimonia che di quella di chiusura, aveva rifiutato per protesta contro la politica cinese in un altro angolo sofferente del mondo, il Darfur sudanese.
Ma ormai era tempo di Giochi, di gare e di medaglie. E Olimpia rinnovò la sua magia anche in terra cinese. L’Italia si confermò nei primi dieci del Medagliere, con otto ori, nove argenti e 10 bronzi. Sul gradino più alto finirono una Valentina Vezzali all’apice della sua leggenda nel Fioretto, una Federica Pellegrini che aveva appena cominciato la sua nel Nuoto, un Alex Schwarzer che non aveva ancora iniziato il suo controverso rapporto con il doping, un Roberto Cammarelle che rinnovava la prestigiosa storia della Boxe azzurra olimpica, altri campioni come Matteo Tagliariol nella Spada, Giulia Quintavalle nel Judo, Chiara Cainero nel Tiro a Volo, Andrea Minguzzi nella Lotta Greco-Romana. Leggende che si prolungavano erano inoltre quelle scritte sugli argenti di Alessandra Sensini e di Josefa Idem.
Federica Pellegrini con l'Oro di Pechino
Michael Phelps compì l’impossibile: superare quel mostro che era stato Mark Spitz a Monaco 72, con otto medaglie d’oro. Gli Stati Uniti fecero incetta in quasi tutti gli sport di squadra. Le sorelle Williams aggiunsero la medaglia d’oro olimpica al loro palmares tennistico nel Doppio. Nel Calcio, l’Argentina bissò Atene, prendendosi la rivincita del 1996 sulla Nigeria. Al quarto posto del Medagliere complessivo sorprese la Gran Bretagna, che aveva preparato per tempo evidentemente l’Olimpiade successiva. Quella che si sarebbe svolta a casa sua.
Please Stay, Guests from Afar, cantava un coro di 56 cantanti in rappresentanza di tutte le etnie cinesi nella cerimonia di chiusura. Restate, ospiti che venite da lontano, alla fine anche la superba Cina si era commossa a contatto con le nazioni ed i popoli del resto del mondo, rimpiangendo la fine di quei quindici giorni dell’agosto 2008.
Wellcome to London! concluse la sua esibizione Paul McCartney, il più prestigioso e carismatico degli ospiti saliti sul palco dell’Olympic Stadium di Londra per la cerimonia di apertura della XXX^ Olimpiade, il 27 luglio 2012. Dal Fiume Giallo al Ponte di Londra, tanta acqua era scorsa da quando Boris Johnson, sindaco della capitale britannica, aveva ricevuto la bandiera olimpica dal suo omologo pechinese Guo Jinlong.
Paul McCartney: "Wellcome to London!"
Tanta acqua, tante polemiche, tanto astio. Londra aveva superato la concorrenza di altre capitali, come Parigi, Madrid, New York e Mosca. Soprattutto con l’amica-nemica dirimpettaia francese il gioco si era fatto pesante. Alla vigilia dello spareggio tra Londra e Parigi, il presidente francese Jacques Chirac se n’era uscito con un “non si può confidare in gente che mangia un cibo così cattivo (gli inglesi, n.d.r.), peggio di loro ci sono soltanto i finlandesi”. Finlandesi erano giustappunto due dei membri del C.I.O., quelli che espressero i due voti che fecero la differenza.
Polemiche a parte, i Giochi tornavano a Londra per la terza volta nella storia, dopo l’edizione del 1908 che li aveva configurati per il ventesimo secolo, e quella del 1948 che si era svolta sulle macerie causate dai blitz e dalle V2 di Hitler. L’unica città al mondo che avrebbe potuto vantare, in caso di nomination, un simile tris prestigioso era appunto Parigi. Inevitabile che i francesi prendessero male la sconfitta.
Elisabetta II scortata allo Stadio Olimpico da james Bond
Londra comunque fece da par suo. Nella cerimonia di apertura furono celebrate, un po’ troppo ampollosamente forse, tante cose appartenenti alla nostra civiltà occidentale e che avevano trovato origine nelle Isole Britanniche, a cominciare dalla maggior parte degli sport in cui si sarebbe gareggiato sotto i Cinque Cerchi. Gli spot olimpici prima e durante la cerimonia si erano avvalsi del Globe Theatre shakespeariano con Joseph Fiennes, di una gloria olimpica come Sebastian Coe, di una gloria calcistica come David Beckham, di una gloria cinematografica come Roger Moore, vecchio 007 in pensione. Con il suo attuale successore Daniel Craig paracadutato nella fiction su Buckingham Palace, dove era incaricato di prelevare nientemeno che Sua Maestà la regina Elisabetta, per scortarla allo Stadio Olimpico dove era attesa per l’apertura dei Giochi.
Nello stadio, un’altra regina, J.K.Rowlings aveva nel frattempo immerso tutti in mondovisione nell’atmosfera magica del suo Harry Potter, mentre un’altra magia era stata poi compiuta da Mohamed Alì, che sedici anni dopo Atlanta era sceso nuovamente su una pista olimpica, stavolta per portare a destinazione la Bandiera dei Cinque Cerchi. Per gli ultra-nostalgici, il comitato organizzatore aveva inoltre stabilito che le cerimonie di premiazione di ogni competizione fossero accompagnate da Chariots of Fire, la colonna sonora realizzata nel 1981 da Vangelis per l’omonimo suggestivo film sulle Olimpiadi del 1924.
C’era di che struggere il cuore del mondo intero, prima ancora che gli atleti scendessero in pista. In particolar modo, per la generazione che aveva vissuto la swinging London degli anni Sessanta, il richiamo era forte. Le Olimpiadi più rock e glamour della storia avrebbero dovuto avere come inno ufficiale addirittura un monumento musicale come London calling dei Clash. Poi, in ragione delle perplessità sollevate dal testo della canzone (uno scenario post-atomico che in effetti ha poco a che fare con la materia olimpica), il Comitato Organizzatore ripiegò sulla più rassicurante ma assai meno suggestiva Survival dei Muse.
Valentina Vezzali
La XXX^ Olimpiade vide scritte le sue belle storie di vita e di sport al livello delle migliori edizioni. La Cina a Londra tornò sul Pianeta Terra, riprendendo il suo posto nel Medagliere alle spalle degli Stati Uniti. La Gran Bretagna scalò un’altra posizione finendo terza, miglior risultato di sempre. Cannibali come Michael Phelps e Usain Bolt furono capaci di allungare di altri quattro anni la loro leggenda. Niente comunque in confronto all’impresa delle donne americane e cinesi, capaci nel loro complesso di superare i maschi nel numero di medaglie conquistate per i loro paesi. O di superare ostacoli ancora più grandi emergendo in paesi e in realtà sociali dove la condizione femminile è ancora problematica, se non drammatica. Un nome su tutti, quello di Sarah Attar, la judoka saudita prima donna della storia qualificata alle Olimpiadi per il suo paese. L’eco della standing ovation che ricevette entrando nella Wembley Arena non si spegnerà tanto presto nelle  orecchie di chi vi assistette.
L’Italia. Storie di sempre, quelle di ragazzi che per quattro anni lottano e si sacrificano per pochi giorni di notorietà, in un paese dove gli impianti sportivi latitano, le federazioni servono ormai da anticamera della politica, la stampa stessa si ricorda di loro solo per riempire pagine che d’estate sarebbe difficile riempire altrimenti. E il tutto finisce con un ricevimento al Quirinale, poi di nuovo l’oblio.
Belle storie  comunque, appassionanti. Il passo d’addio di alcune grandi signore dello sport italiano. Valentina Vezzali (capace di portare ancora il punto decisivo per l’oro della squadra di Fioretto femminile) e Josefa Idem, mentre Federica Pellegrini avrebbe deciso di ritentare la sorte a Rio. Lacrime di gioia di squadre che si ritrovarono (come la Pallavolo, terza, e la Pallanuoto, seconda), e quelle di rabbia di altre che si persero (come il Calcio ed il Basket, neanche qualificate ai rispettivi tornei). Medaglie italiane conquistate all’ultima freccia (come quella d’oro di Frangilli, Galiazzo e Nespoli), e pugni inglesi immaginari contro volti italiani che avevano già l’espressione d’orgoglio per un nuovo trionfo, come quello di Cammarelle (già oro a Pechino) sconfitto dalla giuria ma non dall’avversario, l’inglese Anthony Joshua.
Annalisa Minetti medaglia di bronzo alle Paralimpiadi
28 medaglie complessive, come quelle conquistate un mese dopo dai colleghi atleti paralimpici sempre a Londra nelle Olimpiadi di categoria. Un risultato che definire storico é dire poco, considerato che l’Italia normodotata a Londra si confermò al nono posto del Medagliere, in un contesto senza più boicottaggi e che aveva preso a lottare seriamente contro il doping. Lo storico pareggio fu tutto merito dunque del movimento sportivo paralimpico, salito finalmente in alto non solo in Italia ma in tutto il mondo, come avrebbe orgogliosamente rilevato un Oscar Pistorius, l’atleta più veloce senza gambe, finalmente ammesso dal C.I.O. anche alle Olimpiadi oltre che alle Paralimpiadi, e non ancora sotto giudizio da parte di ben altro tribunale per le sue note vicende private.
Quando fu il momento si salutare i Cinque Cerchi, Sebastian Coe a nome della nazione ospitante poté a buon diritto dichiarare: When came Great Britain’s time, we did it right. E gli Who superstiti intonarono una struggente e travolgente (come sempre) My generation che sembrò un saluto ad un’epoca, piuttosto che ad un evento o ad una città.
Un bel testimone da passare a Rio de Janeiro. Con l’intermezzo invernale di Sochi, prima volta della Russia post-sovietica dopo Mosca 1980, che non ha saputo mantenersi all’altezza, tra le polemiche per i diritti umani e le accuse di doping che hanno indotto il C.I.O. a prendere in considerazione per gli imminenti Giochi brasiliani l’esclusione dell’intera squadra russa, poi forse scongiurata.
Il pianto di Alex Schwarzer
Di sicuro starà fermo Alex Schwarzer, nuovamente positivo ai controlli antidoping. Mentre Oscar Pistorius sconta a Pretoria una condanna a sei anni di prigione per l’omicidio della compagna Reeva Steenkamp. Vecchi eroi del passato caduti. Altri ne cadranno, o semplicemente scopriranno di doversi fare da parte. E’ la legge dello sport e della vita, quattro anni sono tanti e per bene che ti vada lasciano comunque il segno, finché alla fine trovi qualcuno che ha più fame, come una volta l’avevi tu.
Ma la fanfara olimpica suona di nuovo, e allora tutti si affrettano allo stadio. Questa volta, al Maracanà di Rio de Janeiro. La curiosità è troppa, di vedere all’opera i nuovi eroi. Di sentirci una volta di più ragazzi come loro, e come una volta eravamo anche noi. Come saremo sempre, ogni volta che il braciere di Olimpia verrà riacceso e la bandiera dei Cinque Cerchi salirà di nuovo sul pennone. Fino alla fine del tempo.


Storia delle Olimpiadi: Torino, la passione vive qui (2006)



Si può. Organizzare un evento sportivo internazionale come una Olimpiade e non soccombere sotto i debiti, gli sprechi, le corruzioni grandi e piccole. Nel 1999, quando ottenne la nomination ad ospitare i Giochi Invernali del 2006, l’Italia era ancora sotto shock per l’eredità pesante – economicamente parlando, ma non solo – di Italia 90. Neanche a metà del percorso di autotassazione necessario ad ammortizzare le ingenti voci di bilancio passive, con una serie di cattedrali nel deserto ed infrastrutture non terminate o non servibili da far paura.
Il mondiale italiano del 90 è rimasto come paradigma di tutto ciò che non si deve fare organizzando una simile kermesse sportiva. I precedenti di Cortina 1956 e di Roma 1960 erano così lontani da raffigurare e riferirsi a un altro mondo, un’altra vita. Torino 2006 è rimasta invece come il paradigma di tutto ciò che si può e si deve fare, per continuare a dare vita al sogno olimpico (e a qualunque sogno di segno positivo) nella nostra società contemporanea diventata così complessa.
Con 3, 5 miliardi di Euro di spesa complessiva, la Città di Torino dotò prima le Olimpiadi e poi se stessa ed il proprio circondario alpino di strutture moderne, dallo Stadio Comunale restaurato come Stadio Olimpico al Palasport, al Palazzo del Ghiaccio in cui ebbero sede le prove indoor dal 10 al 19 febbraio 2006. Fino all’ammodernamento tutti gli impianti delle località sciistiche circostanti, come Pragelato, Sauze d’Oulz, Pinerolo, Torre Pellice, Sestriere, Bardonecchia e Cesana di Susa. Con la ciliegina sulla torta del primo tratto della metropolitana cittadina che il capoluogo piemontese aspettava da almeno settant’anni.
Torino – e dietro di lei tutta la nazione italiana ancora non devastata dalla successiva crisi epocale – riuscì a dimostrare che il modello Lillehammer (Giochi da organizzare in centri abitati di non più di 20.000 abitanti) era superato, e che le grandi città se oculatamente amministrate potevano riuscire in inverno là dove riuscivano in estate, se prossime a località sciistiche di prestigio. Dopo Torino, sarebbe venuta Vancouver, poi Sochi, in attesa del turno di Pechino. Il mondo cambia, e a detta del C.I.O. ha cominciato a farlo – sulla neve – proprio a Torino, che organizzò nel 2006 i Giochi Invernali migliori di sempre.
La XX^ Olimpiade d’Inverno fu aperta da una tedofora d’eccezione, la leggendaria Stefania Belmondo. Il braciere da lei acceso, disegnato appositamente da Pininfarina era il più alto della storia olimpica, con i suoi 57 metri.
Per la prima volta, anche la Bandiera Olimpica fece il suo ingresso nello Stadio portata solo da donne, dai nomi eccellenti come Sophia Loren, Isabel Allende, Susan Sarandon, Nawal El Moutawakel (la prima donna musulmana medagliata d’oro in Atletica), Wangari Maathai (la Premio Nobel ambientalista keniota poi scomparsa nel 2011), Manuela Di Centa, Maria de Lourdes Mutola (la mezzofondista mozambicana medaglia d’oro a Sidney) e Somaly Mam (l’avvocatessa cambogiana impegnata contro il turismo sessuale e la tratta delle bambine nel sud-est asiatico).
A Torino erano presenti 80 paesi, praticamente tutti quelli che avevano Federazioni Sportive Invernali affiliate ai rispettivi Comitati Olimpici nazionali. Non fu l’unico record extrasportivo dell’Olimpiade 2006. Per effetto della seria ed intensa lotta intrapresa in quegli anni dal C.I.O. contro il doping, il frutto raccolto in Piemonte fu che di tutti i controlli effettuati dopo le gare un solo caso risultò positivo: quello della russa Olga Medvedceva medaglia d’argento (poi revocata) nel Biathlon.
Davanti a tanto splendore organizzativo, non potevano mancare i risultati sportivi di prestigio. Per la squadra di casa, furono Olimpiadi epiche, nel bene e nel male. Armin Zoeggler continuò la sua striscia leggendaria, aggiungendo al bronzo di Lillehammer, all’argento di Nagano ed all’oro di Salt Lake City quello vinto a Cesana Pariol in Val di Susa. Enrico Fabris vinse l’oro nel pattinaggio di velocità sulla distanza dei 1.500 metri e si ripeté con un bronzo nei 5.000, per poi dare un contributo decisivo all’oro nell’inseguimento a squadre (introdotto nel programma per la prima volta) a fianco di Matteo Anesi, Stefano Donagrandi e Ippolito Sanfratello.
Stefania Belmondo
Giorgio Di Centa, Fulvio Valbusa, Pietro Piller Cottrer e Cristian Zorzi riportarono lo sci di fondo azzurro indietro di dodici anni, ripetendo l’impresa di Lillehammer di Fauner & soci. Ma per il fratello di Manuela, c’era un altro appuntamento con la storia in attesa. Le ultime Olimpiadi, ad Atene due anni prima, si erano chiuse con un trionfo italiano proprio nell’ultima gara, la più prestigiosa del programma, tanto più perché quella volta si correva sul tracciato originario di Filippide. Stefano Baldini era entrato nella storia arrivando primo ad Atene. Nei Giochi Invernali, la 50 km di Fondo a tecnica libera aveva lo stesso prestigio e la stessa collocazione della maratona in quelli estivi. E Giorgio Di Centa non volle essere da meno di Baldini, arrivando primo sul traguardo di Pragelato per ritrovarsi praticamente tra le braccia della sorella Manuela, a cui il Comitato organizzatore aveva affidato quel giorno l’onore e l’onere della premiazione.
Carolina Kostner portacolori italiana
A contraltare di tanta gioia, ci fu la tristezza di Carolina Kostner, predestinata allora promessa del nostro pattinaggio artistico che era attesa sul podio del Palavela di Torino, ed alla quale invece l’emozione giocò un brutto scherzo relegandola soltanto al nono posto. Altrettanto successe a Barbara Fusar Poli e Maurizio Margaglio, il cui sogno dorato si infranse su una caduta rovinosa nell’ultimo esercizio che trasformò una sicura medaglia in un sesto posto. Anche la coppia cinese Han e Dao Zhang ebbe la stessa sorte, rialzandosi però con una determinazione ed una rabbia agonistica tali che le consentì di recuperare fino al secondo posto.
Furono le Olimpiadi in cui il Curling ebbe la sua definitiva consacrazione tra le discipline olimpiche. L’austriaco Benjamin Raich ripeté l’accoppiata Slalom Gigante – Speciale riuscita fino a quel momento soltanto ad Ingemar Stenmark ed Alberto Tomba. Kietil Andre Aamodt, vincendo il Supergigante, mise in fila il quarto oro olimpico quattordici anni dopo il primo di Albertville e quattro dopo i due di Salt Lake City, in SuperG e Combinata. La bolzanina Gerda Weissensteiger diventa la prima donna a vincere medaglie in due discipline diverse, bronzo nel Bob a 2 con Jennifer Isacco dodici anni dopo l’oro in slittino di Lillehammer.
Luciano Pavarotti
Furono le Olimpiadi del passo d’addio del maestro Luciano Pavarotti, che impreziosì con la sua voce all’ultima esibizione pubblica la Cerimonia d’Apertura. Così come Andrea Bocelli, Elisa, Ricky Martin fecero altrettanto in quella di Chiusura, insieme alla canadese Avril Lavigne che rappresentò il paese che avrebbe raccolto la bandiera olimpica dall’Italia e da Torino. La bandiera dei Cinque Cerchi si arrotolava per essere dispiegata nuovamente a Vancouver nel 2010.
La nazione italiana, grazie a quella città che era stata una delle sue capitali storiche, aveva dato al mondo la misura di cosa si può fare quando tutte le energie sane di un paese vengono incanalate in un percorso positivo. Diversamente da quanto era successo per Italia 90, restavano alla popolazione ed al territorio strutture efficienti, conti da pagare non esorbitanti e soprattutto non destinati alle tasche sbagliate, ed un cumulo di sensazioni positive come viatico per il futuro quantomeno immediato.
Carla Bruni consegna la bandiera italiana ad un Carabiniere
Nessuno poteva immaginare che, in un ambito più generale, si trattava invece di un canto del cigno. Che da quell’esperienza non avrebbe tratto purtroppo nuovo impulso un boom economico come era successo a Roma nel 1960. Ma subito dopo avrebbe preso il via una crisi, nazionale e mondiale, da cui non siamo ancora venuti fuori. Il modello Torino comunque resta lì, in attesa di un mondo che sia capace di riprenderlo e rimetterlo in pratica.


Il braciere olimpico di Pininfarina

Piazza San Carlo in festa

10 febbraio 2006 Stadio Olimpico di Torino

Storia delle Olimpiadi: Il nuovo secolo (2000 – 2004)

Deborah Compagnoni in azione a Nagano
A Nagano, nell’isola giapponese di Honshu, nel febbraio 1998 Deborah Compagnoni vinse la sua terza medaglia d’oro in altrettante Olimpiadi. Ancora in Gigante, come a Lillehammer. Niente SuperG, a differenza di Albertville, ma in compenso in Speciale finì a soli sei centesimi da Hilde Gerg. Un bellissimo argento a conclusione di una bellissima carriera, per quanto sfortunata. Furono, insieme all’oro di Huber e Tartaglia nel Bob a due, le ultime medaglie olimpiche dell’Italia nel ventesimo secolo. Bjorn Daelie vendicò Lillehammer portando a dodici le sue medaglie complessive. Herminator  Hermann Maier per poco non si ammazzò in Discesa Libera, per poi andare a vincere SuperG e Gigante in scioltezza.
Due anni dopo, il braciere olimpico doveva accendersi nuovamente nel Pacifico. Le Olimpiadi moderne entrarono nel loro terzo secolo di vita a Sidney, in Australia. I Giochi tornavano nel Quinto Continente per la seconda volta dopo Melbourne, nel 1956.
La scelta del C.I.O. era suggestiva. Non soltanto perché, come ha raccontato il compianto professor Umberto Eco in uno dei suoi romanzi più fortunati, da quelle parti il sole sorge un giorno prima. E in quell’anno Duemila era lì che cominciavano – prima che altrove, appunto - un nuovo secolo, un nuovo millennio, e la fragile illusione che questa sarebbe stata un’era di pace e di prosperità. Sembrava giusto che l’evento sportivo internazionale dai connotati simbolici più potenti ed evocativi andasse in scena laggiù, lungo il meridiano zero, dove si festeggia per primo il Capodanno. L’ultimo dei mondi nuovi scoperti dall’uomo. Down Under, il continente australiano, la terra più a sud del globo.
Il porto di Sidney durante la cerimonia d'apertura
In realtà, la scelta del C.I.O. era motivata dalla necessità di mandare in scena un’edizione esente da polemiche e dove tutto funzionasse alla perfezione. Il precedente di Melbourne era incoraggiante. Il paese dei canguri si sarebbe rivelato da questo punto di vista un’ottima scelta, tanto da far dire al segretario dimissionario del C.I.O. Juan Antonio Samaranch (che lasciò la carica proprio dopo Sidney 2000) che quelle australiane erano state le migliori Olimpiadi di sempre.
Per la verità, anche in questo caso – come per il precedente tra Atene ed Atlanta – si era trattato di una scelta spinosa, foriera di polemiche e di scontentezze. Sidney aveva superato di stretta misura la forte candidatura di Pechino. Il governo cinese aveva deciso di aprire la Repubblica Popolare al mondo moderno. Dopo aver recuperato Hong Kong dalla Gran Bretagna, dopo aver lanciato la sua campagna per il capitalismo di stato (crescete ed arricchitevi), la corsa alla candidatura olimpica era un altro veicolo pubblicitario del nuovo corso adottato dall’ultima grande potenza nominalmente comunista.
A Pechino, la notizia della sconfitta nella nomination olimpica sembrò provocare disordini. Gli studenti furono trattenuti a stento dal manifestare pesantemente di fronte all’ambasciata americana. I servizi segreti americani riportarono l’intenzione del governo cinese, per effetto di quella sconfitta diplomatica, di riprendere i test nucleari in violazione della moratoria internazionale. Pare inoltre che il boicottaggio cinese della XXVII^ Olimpiade fosse scongiurato per poco.
Alla fine, il mondo fu ben felice di ritrovarsi nella città più moderna e importante di quella grande isola del giorno prima che avrebbe accompagnato le Olimpiadi nel nuovo secolo, rimandando la questione pechinese a data da destinarsi assieme a quella ateniese. La New York australiana dette il benvenuto a ben 199 nazioni, segno della ormai larghissima dimensione che aveva raggiunto il movimento olimpico a livello planetario. La cifra avrebbe potuto essere tonda se l’Afghanistan non fosse stato bandito dai Giochi a causa – tra le altre cose - della politica discriminatoria verso le donne adottata dal governo dei Talebani.
Il 15 settembre 2000 il governatore William Deane dichiarò aperti i Giochi della XXVII^ Olimpiade. L’anziana regina Elisabetta II non ripeté questa volta il viaggio fatto in Canada nel 1976 in ottemperanza delle sue prerogative reali in quanto sovrana di quel Commonwealth di cui l’Australia faceva parte. Ma una regina fu comunque presente alla inaugurazione di Olimpia.
Cathy Freeman era un’atleta australiana tra le più promettenti. Era di origine aborigena, cioè appartenente a quella etnia verso cui il subcontinente in cui è nata sente di dover pagare un debito storico e morale pari a quello che gli Stati Uniti d’America hanno con gli Indiani. Fu lei a portare la fiaccola nell’ANZ Stadium di Sidney e ad accendere il braciere come ultimo tedoforo. Fu lei, con la sua successiva vittoria nei 400 metri femminili, a passare alla storia di quelle Olimpiadi come il miglior spot contro il razzismo.
Non fu l’unico grande personaggio, dentro e fuori il campo di gara, di quelle due settimane australiane. Sidney 2000 portò all’Italia le prime storiche medaglie d’oro nel Nuoto. Domenico Fioravanti nei 100 e 200 rana e Massimiliano Rosolino nei 200 misti cancellarono uno zero in quella casella che durava da troppo tempo per un paese circondato dall’acqua per tre quarti dei suoi confini. Paola Pezzo ripeté il successo di Atlanta nella Mountain Bike, così come Antonella Bellutti nel Ciclismo, Antonio Rossi nel K2 stavolta con Beniamino BonomiJosefa Idem arrivò all’oro nel K1 femminile, Agostino Abbagnale vinse con il Quattro di coppia nel Canottaggio prolungando la leggenda di famiglia, Giuseppe Maddaloni nel Judo e Antonella Sensini nella Vela Classe Mistral furono le piacevoli sorprese. La conferma, grandissima, venne dalla nostra scuola di Scherma. Il Fioretto femminile dove Valentina Vezzali aveva raccolto il testimone da Giovanna Trillini, e la Spada a Squadre maschile. Ancora argento Fiona May nel Lungo, e tanti altri che non possiamo ricordare per ragioni di spazio. Bene la Pallavolo con la medaglia di bronzo dietro Russia e Jugoslavia. Malino Basket e Pallanuoto, relegate a finali di consolazione.
Cathy Freeman
Furono le Olimpiadi dell’addio di Michael Johnson, con l’ultima medaglia d’oro nei 400. Maurice Greene vinse i 100 e la staffetta 4x100, preludio a una carriera che sembrava brillante e durante la quale invece avrebbe lottato più che altro con la sfortuna. Marion Jones, tra le donne, sembrava destinata ad analoghi orizzonti di gloria. Le sue cinque medaglie di Sidney (tre d’oro: 100, 200 e staffetta 4x400; due di bronzo: Lungo e staffetta 4x100) sarebbero state però in seguito revocate dal C.I.O. a seguito della sua ammissione di aver fatto uso di doping. La carriera della Jones si concluse nel 2008 con l’affidamento al servizio sociale disposto dal tribunale penale americano sempre per la stessa vicenda.
Gli Stati Uniti, comunque, vinsero il Medagliere anche senza l’apporto della Jones, davanti a Russia e Cina. Le superpotenze sportive si erano schierate ai blocchi di partenza del ventunesimo secolo. Quarta l’Australia, sesta l’Italia che aveva ripetuto l’ottimo risultato di Atlanta con 13 ori e 34 medaglie complessive.
Nel 2002, l’intermezzo invernale a Salt Lake City confermò che l’Italia aveva ritrovato feeling con gli sport della neve e del ghiaccio. Stefania Belmondo ripeté l’impresa di Albertville a dieci anni di distanza, oro, argento e bronzo. Gabriella Paruzzi riuscì a starle davanti nella 30 km di Fondo, vincendo l’oro. Daniela Ceccarelli non fece rimpiangere Deborah compagnoni vincendo il SuperG, mentre nello Slittino singolo Armin Zoeggler cominciò la sua leggendaria carriera. 13 medaglie complessive azzurre, un’ottima annata.
Due anni dopo, le Olimpiadi tornavano a casa. Il C.I.O. aveva pagato il suo debito principale con l’opinione pubblica internazionale, assegnando alla Grecia la XXVIII^ Olimpiade. Nella votazione finale, Atene batté la forte candidatura di Roma, ma nessuno se la sentì di recriminare più di tanto. Il torto del 1996 perpetrato dalla Coca Cola ai danni di Olimpia era ancora ben presente nella mente di tutti.
La fiaccola tornava al Pireo, il percorso più breve per i tedofori, sulle strade di casa. Ma quanta differenza con la volta precedente, 108 anni prima. Allo Stadio Panathinaikos si erano ritrovate nel 1896 14 nazioni rappresentate da 241 atleti, tutti maschi e tutti dilettanti. Stavolta, nel nuovo Stadio Olimpico dedicato a Spiridion Louis (lo storico vincitore della prima maratona moderna) a Maroussi erano presenti 201 nazioni (praticamente tutte quelle che avevano un comitato olimpico nazionale) con 10.625 atleti, dei quali oltre il 40% erano donne e tutti più o meno professionisti dichiarati.
Massimiliano Rosolino
La Cerimonia d’apertura allo Spyros Louis fu sapientemente evocativa delle ragioni del perché il mondo si era ritrovato lì, il 13 agosto 2004. La Grecia celebrò degnamente se stessa, la nascita e la diffusione di quella civiltà che a partire dall’Impero Romano aveva trasmesso al resto del mondo. Nello stadio era stato ricavato un enorme bacino idrico, simboleggiante quel Mar Egeo su cui erano salpate le navi greche per diffondere la fiaccola della civiltà presso i feros victores sulle sponde del Mediterraneo prima e del resto dei mari poi.
Tra i paesi di nuova accessione, Timor Est sopravvissuta ad una spaventosa guerra civile, l’Afghanistan finalmente liberato dalla dittatura sanguinosa dei Talebani, la Serbia riammessa (come Serbia e non più come Jugoslavia, essendo il Montenegro diventato indipendente) dopo la guerra del 1999 che aveva concluso la lunga tragedia balcanica.
La partecipazione italiana ai Giochi greci fu ottima, sul trend delle ultime Olimpiadi. 32 medaglie con 10 ori, e la consacrazione di vecchi e nuovi personaggi. Igor Cassina si impose al mondo nella Ginnastica Artistica alla Sbarra, brevettando il celebre movimento Cassina che molti avrebbero poi cercato di imitare. Paolo Bettini riportò in auge il Ciclismo toscano vincendo la corsa in linea su strada. Andrea Benelli sparò per l’oro nel Tiro a Segno SkeetIvano Brugnetti si laureò degno erede di Maurizio Damilano nella 20 km di Marcia. Marco GaliazzoAldo Montano e Valentina Vezzali tirarono di Scherma da par loro e nella tradizione della scuola italiana, che si confermò anche nel Fioretto maschile a squadre. Sempre in tema di squadre, la Pallanuoto femminile vinse il primo oro della sua storia. Altrettanto arrivarono ad un passo dal fare la squadra maschile di Basket, che rinverdì l’argento di Mosca, e quella di Pallavolo, che rinverdì quello di Atlanta. Argenti a conferma di Josefa Idem, Rossi e Bonomi, Giovanna Trillini e tanti altri.
Tra gli eventi epocali di quei Giochi, la sconfitta della staffetta 4x100 U.S.A. di Greene e Gatlin (vincitore dei 100) per mano di quella della Gran Bretagna e la prima vittoria di un cinese in Atletica, Liu Xiang nei 110 ostacoli. Nel Calcio, prima vittoria e prima medaglia d’oro assoluta nella storia olimpica per l’Argentina, con l’Italia al terzo posto. Tra le donne, vittoria degli U.S.A. a conferma della bontà della scuola del Women’s Soccer. Il secondo oro olimpico argentino arrivò a sorpresa dal Basket, dove i biancocelesti superarono nientemeno che i favoriti gringos nordamericani, per poi battere in finale i nostri PozzeccoMyers & C.
Nel nuoto, si affacciò al medagliere olimpico con il suo primo argento una campionessa che avrebbe fatto in seguito la storia di questo sport. Federica Pellegrini arrivò seconda nei 200 stile libero dopo aver condotto quasi interamente la gara e aver subito nell’ultima frazione il recupero della rumena Camelia Potec, che le finì davanti per soli 19 centesimi. La nostra portacolori a Rio2016 aveva iniziato così una carriera che ancora non vede la fine.
Tutto questo era molto, per un’Italia che aveva nobilitato un’Olimpiade storica ma senza grandi acuti. Era molto, ma non era tutto. Restava l’ultima gara. Quella che per tradizione concludeva il programma olimpico, e che quella volta si sarebbe corsa sul tracciato originario, quello su cui Filippide aveva corso a perdifiato per portare al senato ateniese la notizia della vittoria a Maratona.
Stefano Baldini come Filippide
Il 29 agosto la XXVIII^ Olimpiade aspettava dunque la maratona per chiudere i Giochi, spegnere il braciere e consegnare la bandiera dei Cinque Cerchi alla città che l’avrebbe riacceso nel 2008. Era la maratona più prestigiosa di sempre, quella che – a vincerla – avrebbe avuto per sempre un gusto ed un significato particolare nella memoria. Quando il brasiliano Vanderlei De Lima al 36° km subì un infortunio a causa di un tifoso che lo mise fuori gara per la vittoria mentre era ancora in testa, dietro rimasero un americano, Mebrahtom Keflezighi, e un italiano, Stefano Baldini da Castelnovo di Sotto (RE), undicesimo di undici fratelli, con la passione per la maratona di cui era già recordman italiano.

Fu lui ad entrare nello stadio Spyros Louis nella posizione che tutti sognavano. Per primo, con l’americano staccato di 36 secondi ed il brasiliano di un minuto e mezzo. 2 ore, 10 minuti e 55 secondi per ripetere le imprese di Flippide, Dorando Pietri e Gelindo Bordin. Ancora una volta, toccava all’Italia togliersi all’ultimo tuffo la soddisfazione più grande.

Storia delle Olimpiadi: Il mondo nuovo (1992 - 1996)



All’indomani del crollo del Muro di Berlino, qualcuno si affrettò a dire che il mondo era giunto nientemeno che alla Fine della Storia. Se Hegel aveva avuto ragione, il progressivo alternarsi di tesi, antitesi e sintesi nelle idee e nelle vicende umane sembrava aver raggiunto un prodotto definitivo, non più migliorabile, emendabile. Il venir meno del Comunismo aveva lasciato sul campo un Capitalismo finalmente costretto a prendere in considerazione le cosiddette istanze sociali, e senza più alibi per continuare a non farlo. Il mondo ideale insomma che soltanto i più fervidi utopisti avevano saputo sognare, fino a quel momento.
L'Anello Olimpico di Calatrava a Barcellona
Nel 1992, quando le nazioni si radunarono sotto i Cinque Cerchi a Barcellona, questa illusione idealista era già abbondantemente in crisi. Il Blocco Sovietico si era sbriciolato dall’oggi al domani come una fetta biscottata maneggiata con poca cura. Ma la Prima Guerra del Golfo aveva già chiarito a tutti che la Storia continuava, eccome. Ed era la solita storia. Quella che aveva costretto gli Antichi Greci ad immaginarsi almeno un periodo di tregua, all’ombra del più celebre dei templi dedicati a Dei che di costringere altrimenti la razza umana a progredire realmente ed a rinunciare ai propri istinti più feroci non sembravano interessati granché.
Fatto sta, comunque, che l’8 febbraio di quell’anno, quando Michel Platini accese la fiamma olimpica ad Albertville, in Alta Savoia, e Francois Mitterand dichiarò aperti i XVI^ Giochi Olimpici Invernali, i vecchi atlanti geografici erano già finiti tutti nella spazzatura, al pari di tante vecchie certezze. Il mondo era irrimediabilmente cambiato. La prova più eclatante era quella bandiera sotto cui sfilava la squadra di quella federazione che una volta si era chiamata Unione Sovietica. Dal 1° gennaio 1992 si chiamava Comunità degli Stati Indipendenti, ed era diretta da Boris Eltsin, l’eroe dello sventato golpe di Mosca contro il riformatore Gorbaciov.
Il C.I.O. aveva ammesso la C.S.I. sotto la dizione di Squadra Unificata, con la bandiera dei Cinque Cerchi in luogo della vecchia bandiera rossa con la falce ed il martello. In quei giorni, si cominciava inoltre a sparare anche in Jugoslavia per spartirsi l’eredita di Tito e Milosevic. La questione avrebbe richiesto molti più anni e molto più sangue rispetto all’U.R.S.S. per essere risolta. Più di una Olimpiade, e non solo, ne sarebbe stata influenzata.
Ad Albertville, l’Italia festeggiò il suo momento di grazia negli Sport Invernali con Alberto Tomba che bissò la vittoria in Gigante di Calgary mettendo in fila i migliori del mondo, da Aamodt a Girardelli, mentre in Speciale si fermò – si fa per dire – all’argento dietro al norvegese Finn Christian Jagge. Ma in compenso altre buone notizie vennero dalle donne.
Debora Compagnoni da Bormio si impose all’attenzione del Circus dello Sci Alpino come la Tomba al femminile, dominando il Supergigante. Il giorno dopo, in Gigante, sembrava lanciata verso una splendida conferma quando il ginocchio le cedette in occasione del primo dei gravi infortuni che avrebbero condizionato la sua altrimenti leggendaria carriera.
A impinguare il medagliere ci pensarono Josef Polig, vincitore in Combinata, e soprattutto la piemontese Stefania Belmondo con una splendida tripletta nel Fondo: oro nei 30 km, argento nei 15 km e bronzo in staffetta, dove si mise in luce per la prima volta anche la promettente Manuela Di Centa.
Cinque mesi dopo, la fiamma olimpica arrivò sulle Ramblas. Sulle note di Barcelona, l’ultimo regalo del compianto Freddy Mercury al mondo cantata assieme alla soprano catalana Montserrat Caballé, un tedoforo paralimpico, l’arciere iberico Antonio Rebollo, accese il braciere mentre Re Juan Carlos dichiarava aperti los Juegos de la XXV Olimpiada.
Freddy Mercury e Montserrat Caballé cantano Barcelona
La Spagna li attendeva da tempo, e con ragione. Barcellona 1992 fu per la nazione iberica che stava riacquistando il proprio posto nel consesso delle nazioni più avanzate a grandi balzi, quello che Roma 1960 era stato per una nazione italiana a quel tempo in condizioni non dissimili. Il motore ed insieme il simbolo di un boom economico e sociale con pochi eguali nella storia.
La capitale della Catalogna, alla cui designazione non era stata secondaria l’influenza del concittadino illustre Juan Antonio Samaranch allora presidente del C.I.O., fu rimessa a nuovo per l’occasione grazie all’opera di architetti di fama mondiale come Calatrava e Isozaki, che lasciarono in eredità post-olimpica alla città capolavori come l’Anello Olimpico del Montjuic, il Palau San Jordi, l’Estadi Olìmpic, la Torre de telecomunicaciones.
A Barcellona, il mondo festeggiò la fine dei Blocchi anche in ambito sportivo. Non soltanto la Spagna, che con i suoi 13 ori e 22 medaglie complessive registrò il miglior risultato di sempre, e la Germania riunificata due anni prima, che si attestò al terzo posto del Medagliere dietro Squadra Unificata e U.S.A., beneficiarono di un clima apparentemente nuovo e meno dopato in tutti i sensi.
Carl Lewis non era più il Figlio del Vento nei 100 e 200, ma era ancora il migliore nel Salto in Lungo (terzo oro consecutivo) e con lui nei ranghi la staffetta americana 4 x 100 tornò a volare. Nei 100 metri, si mise in luce invece il britannico Linford Christie, mentre nei 200 una intossicazione alimentare mise fuori gioco l’astro nascente Michael Johnson, che lasciò via libera al connazionale Michael Marsh.
Nel nuoto, Alexander Popov cominciò la sua splendida carriera olimpica, che avrebbe continuato come atleta della Russia dopo la dissoluzione definitiva della federazione. Tra le donne, si misero in luce per la prima volta a sorpresa le cinesi, che consentirono al loro paese un quarto posto finale nel Medagliere. Altri personaggi in luce, il leggendario canottiere britannico Steve Redgrave alla terza conferma olimpica, l’algerina Hassiba Boulmerka nei 1.500.
Il Dream Team americano di Basket
La Spagna vinse il torneo di Calcio, che presentò una innovazione significativa. Per rimediare ad un equivoco storico ormai non più sostenibile, il C.I.O. aveva messo definitivamente da parte il dilettantismo obbligatorio aprendo in tutti gli sport ai professionisti. Nel Calcio, ciò avrebbe significato però creare un doppione o un pericoloso concorrente dei Mondiali, e fu stabilito pertanto di porre ai partecipanti un limite di età. In pratica, finirono per partecipare ai Giochi Olimpici a partire dal 1992 le Nazionali Under 21 di ciascun paese. L’Italia era campione europea in carica, ma nei quarti lasciò via libera ai padroni di casa concedendo loro proprio la rivincita dell’Europeo di categoria.
L’apertura al professionismo portò conseguenze epocali soprattutto in un altro torneo. Le Olimpiadi del 1992 si ricordano principalmente per il Dream Team. Gli Stati Uniti poterono finalmente schierare una selezione allestita impiegando i migliori giocatori dell’N.B.A., e non più ricorrendo a studenti universitari per quanto promettenti. Michael Jordan, Magic Johnson, Larry Bird, Scottie Pippen sono nomi che non hanno bisogno di commento e che tutti gli appassionati di Basket hanno impressi nella memoria. Come per il Brasile di Pelé nel calcio, probabilmente nella Pallacanestro non sarà dato di rivedere all’opera una squadra dei sogni come questa. In finale, la Croazia che rappresentava la prestigiosa scuola jugoslava fu scherzata dagli americani, finendo sotto di ben 30 punti.
Nella Pallavolo, il Dream Team sarebbe stato quello italiano, la generazione di fenomeni che a quel tempo mieteva un successo dietro l’altro con facilità apparentemente irrisoria. Nei quarti di finale di un torneo olimpico che sembrava non poterle sfuggire, l’Italia incontrò però per la prima volta la sua bestia nera, quella Olanda che le avrebbe sbarrato la strada anche in seguito. Il torneo fu vinto dal Brasile proprio sull’Olanda.
La finale di Pallanuoto Italia - Spagna
Per l’Italia, si confermò nel Medagliere una posizione a ridosso del decimo posto con 19 medaglie complessive di cui sei ori. L’ultimo dei quali, come a Seul, arrivò nelle battute finali, grazie al Settebello. Nella Pallanuoto, gli azzurri non vincevano da Roma 60 e prima ancora da Londra 48. In finale, nella nuovissima piscina Bernat Picornell, avevano la Spagna favoritissima e tradizionale avversaria, ma riuscirono a prevalere in una partita drammatica conclusasi al terzo tempo supplementare per 9-8. Da Canoa, Ciclismo (con la partecipazione straordinaria del povero Fabio Casartelli, che avrebbe incontrato un tragico destino al Tour de France due anni dopo) e Scherma le altre soddisfazioni azzurre.
Quando si spense il braciere olimpico il 9 agosto 1992, il sipario calò su una delle più belle edizioni dei Giochi. Il vecchio mondo era andato in mille pezzi e alle gare avevano partecipato ben 169 nazioni, tra vecchie e nuove. 9.356 atleti, di cui 6.652 uomini e 2.704 donne.
I tempi del barone de Coubertin sembravano ormai lontanissimi, come se risalissero alla preistoria. E tuttavia, in occasione del primo centenario delle Olimpiadi moderne che cadeva nel 1996, la cosa più giusta da fare sembrava proprio quella di omaggiare la figura del loro inventore assegnando ad Atene la ventiseiesima edizione dei Giochi. Quella appunto del Centenario, una scelta che il barone avrebbe sicuramente approvato. Sul tavolo del C.I.O. c’erano due candidature: quella di Atene, appunto, forte della suggestione della Storia, e quella di Atlanta, forte del peso economico della Coca Cola, la bevanda che dagli inizi del secolo era diventata lo sponsor principale delle Olimpiadi e la cui fabbrica aveva appunto sede nella capitale della Georgia.
Inutile dire che gli Dei di Atlanta risultarono meno suggestivi ma più potenti di quelli di Olimpia, rimontandoli all’ultima votazione. L’opinione pubblica internazionale stigmatizzò il torto fatto ad Atene, ma lo fece comunque tenendo in mano la consueta lattina di coke.
L’antipasto invernale degli ultimi Giochi del ventesimo secolo aveva avuto luogo nel 1994. Il C.I.O. aveva infatti deciso di sfalsare le due sessioni olimpiche per riempire un vuoto nel calendario degli anni pari. A Lillehammer in Norvegia, due anni dopo Albertville, Alberto Tomba aveva confermato l’argento dello Speciale a pochi secondi dal vincitore Stangassinger. Manuela Di Centa era esplosa nel Fondo femminile vincendo tutte e cinque le gare in cui era iscritta.
Ma l’evento che rimase memorabile di quelle Olimpiadi fu l’arrivo della Staffetta 4x10 km maschile. La Norvegia del fuoriclasse Bjorn Daelie sembrava strafavorita, ma De Zolt, Albarello e Vanzetta tennero fino all’ultima frazione, permettendo a Silvio Fauner da Sappada di ingaggiare uno spettacolare testa a testa con Daelie nel rush finale. Davanti a 120.000 scandinavi ammutoliti, Fauner vinse quel leggendario sprint entrando nella storia del suo sport.
Mohamed Alì accende il braciere olimpico
Il 19 luglio 1996 al Centennial Olympic Stadium di Atlanta il presidente Bill Clinton aprì i Giochi della XXVI^ Olimpiade, mentre il braciere veniva acceso da un tedoforo d’eccezione. Mohamed Alì sapeva dal 1984 di soffrire di morbo di Parkinson, ma vederne i segni progressivi sul suo volto e su quel corpo che una volta aveva rivaleggiato con le farfalle nello sport più violento che esista commosse il mondo più di quanto avessero fatto le più grandi delle sue vittorie. Alì affrontò la prova con il consueto coraggio. Il C.I.O. lo premiò restituendogli quella Medaglia d’Oro vinta a  Roma, che lui aveva gettato per rabbia nel fiume Ohio a Louisville, dove viveva ed era tornato dopo la vittoria soltanto per scoprire che il razzismo era ancora tutto da affrontare e sconfiggere.
Atlanta passò alla storia come un capolavoro di disorganizzazione, che acuì il rimpianto per la mancata designazione di Atene. Ma dal punto di vista dei risultati fu una buona Olimpiade. Non solo per l’Italia, che eguagliò quasi il successo di Los Angeles con 13 medaglie d’oro (mancò la quattordicesima la nazionale di Volley che sbatté per la seconda volta contro l’Olanda, in finale). In compenso, Yuri Chechi si riprese ciò che la sorte gli aveva negato a Barcellona. Paola Pezzo impose la sua classe ed il suo decolleté nella Mountain Bike, che esordiva ai giochi. Agostino Abbagnale rinverdì i fasti di Giuseppe e Carmine nel Canottaggio, mentre Antonio Rossi insieme a Daniele Scarpa si prese la Canoa per la prima volta.
Yuri Chechi
Poi, la solita messe di medaglie da Ciclismo, Scherma, Tiro. In Atletica, l’attesissima Fiona May – l’inglese che aveva scelto l’Italia per amore – si fermò all’argento nel Salto in Lungo. Dove tra i maschi, Carl Lewis entro nella ulteriore leggenda sportiva come uno dei tre che erano riusciti a trionfare in quattro Olimpiadi diverse, dopo il discobolo Al Oerter e il velista Paul Elvstrom. Josefa Idem, tedesca naturalizzata italiana anche lei per amore, si fermò al bronzo nella Canoa.
Michael Johnson aveva già superato nei Trials pre-olimpici lo storico e longevo record del mondo del nostro Pietro Mennea, ottenuto nel 1979 a Città del Messico in altura. Ad Atlanta, Johnson disintegrò ulteriormente il proprio limite portandolo ad uno strepitoso 19’’32. Dopodiché si aggiudicò anche i 400 metri. La francese Marie-José Perec fece la stessa doppietta tra le donne, stabilendo anch’essa un primato (sui 400) che avrebbe resistito a lungo, 48’’25.
Nel torneo di Basket, nuova vittoria statunitense stavolta sulla Jugoslavia (ovverosia le superstiti della vecchia federazione, Serbia e Montenegro), ma il Dream Team non era stato rimesso in campo. Nel calcio, vittoria della sorprendente Nigeria sulla favorita Argentina. Nel Tennis, vittoria del superfavorito André Agassi su Sergi Bruguera. Avrebbe potuto benissimo essere la finale di un torneo da Grand Slam. Anche questo era un segno dei tempi. Lo sport professionistico aveva conquistato definitivamente Olimpia. Bevendo Coca Cola.
Michael Johnson