mercoledì 29 giugno 2016

DIARIO AZZURRO - Cahiers de Paris: Souvenir d'Italie, aspettando l'Allemagne



La Tour Eiffel illuminata di bianco, rosso e verde, nella notte della vittoria sull’Armada spagnola, ci toglie il fiato. Ci commuove. Diciamo la verità, non è facile avere di questi omaggi dai cugini francesi. Anzi, è praticamente impossibile. Qualcosa, di questa Italie che ha lasciato il più clamoroso dei souvenir a questo Europeo 2016 (almeno fino alla vittoria epocale dei vichinghi islandesi sugli anglosassoni, la prima dai tempi di Re Alfredo del Wessex), deve averli colpiti – e forse anche un po’ preoccupati – tanto da spingerli al più plateale degli chapeau.
Viene da sentirsi un po’ in colpa, a ripensare a quei fischi dispensati dallo Stadio Meazza di Milano alla Marsigliese nel 2007. D’accordo, a San Siro fluttuavano nell’aria ancora i veleni rilasciati a Berlino da Zidane e Materazzi, dai calci di rigore che ci avevano risarcito del famigerato golden gol di Trezeguet a Rotterdam, da un match d’andata in cui gli svogliati reduci di Berlino si erano offerti alla vendetta transalpina. Ma tra adulti maturi e vaccinati, per di più parenti, certe cose non dovrebbero succedere.
Come con la Spagna, con la Francia ne abbiamo viste tante insieme che ormai dovremmo abbracciarci e basta ogni volta che ci troviamo. Come disse qualcuno, la Marsigliese non si fischia mai, a prescindere. E il souvenir francese all’Italie di lunedi notte è qualcosa che ci resterà nel cuore, a prescindere da come andrà a finire. Merci beaucoup.
Il calcio affratella, o dovrebbe farlo. Con un’unica eccezione ammessa addirittura dalla Carta Olimpica. Quella che andrà in scena sabato prossimo alle 21,00. Come diceva qualcun altro, con la Germania non c’è, e non ci sarà mai, sentimento possibile.
Italia-Germania non è una partita di calcio, è una condizione dell'essere, un tratto distintivo generazionale, un debito kharmico. La colonna sonora e le immagini di sottofondo della nostra vita, l'evento epocale che fa da pietra miliare, da spartiacque, da post-it dei nostri ricordi.
Azteca, 17 giugno 1970, Gianni Rivera esulta per il 4-3
Generazioni. Quella del 4-3 di Rivera, in fuga da Albertosi infuriato e giusto in tempo per raccogliere il traversone di Domenghini e fulminare Sepp Maier. Vencido y vencidor, siempre con honor. L'Azteca dove rinacque non soltanto una nazionale di calcio ma anche un intero popolo. Schnellinger illuse i panzer nel recupero, Rombo di Tuono e il Golden Boy dettero inizio alla leggenda. Quella dell'Italia che farà acqua sotto tanti punti di vista, ma che a calcio con i tedeschi vince sempre. Loro sono primi in tutto, ma quando e dove conta, dove preme di più a loro come a noi, con noi sono sempre secondi.
Santiago Bernabeu, 11 luglio 1982, l'urlo di Tardelli
Poi quella del 3-1 al Santiago Bernabeu. RossiTardelli - Altobelli. L'urlo di Marco Tardelli che diventa più famoso di quello di Munch. I tedeschi che schiumano rabbia e gli azzurri che spumeggiano calcio. Lo spareggio per agguantare il tricampeon Brasile vinto dall'Italia. Il vecchio Presidente che con la sua gioia contagia il giovane Re, sbatte la pipa in testa al cancelliere tedesco e gioca a carte con Causio, Zoff e il vecio Bearzot sull'aereo che riporta a Roma la Coppa del Mondo.
Poi quella dello 0-2 a Dortmund. I panzer giocano in casa, sentono di avere già vinto, i ragazzi tedeschi allo stadio con i volti dipinti dai colori di guerra della loro bandiera, alla fine il loro trucco si scioglie sotto le lacrime. Qualcuno non vede la magia di Del Piero perché è ancora alla finestra ad urlare per il gol di Grosso. Vendicata Italia 90, a Roma vinse la Germania Ovest, per l'ultima volta, a Berlino vince l'Italia. Quadricampeones, siamo più forti noi, ormai è storia.
Dortmund, 4 luglio 2006, l'urlo di Fabio Grosso
Poi è cronaca recente, ci mettiamo al televisore quattro anni fa convinti che prima o poi i crucchi dovranno pur vincere, e che forse quella è volta buona. A Varsavia in semifinale europea la Germania terza in Sudafrica ha troppi più favori del pronostico rispetto alla disastrata Italia rimessa in piedi da Prandelli dopo il disastro del Lippi-bis. L'uomo che aveva rifatto grande la Fiorentina ha tirato fuori una squadra da un'Armata Brancaleone, come già Fulvio Bernardini dopo la débacle dei mondiali del 1974, ma i tedeschi fanno paura, stavolta sembrano troppo più forti. E invece il grande motivatore ha creato Supermario, l'eroe che in campionato fa spesso e volentieri soltanto casino, ma che in maglia azzurra si trasforma. Dopo venti minuti ha già schiantato la Wehrmacht con due gol dei suoi, segnati con una facilità irrisoria. Tedeschi a casa, per l'ennesima volta. Noi in finale, stavolta a Kiev, a prenderne quattro più per stanchezza che per inferiorità dalla Spagna di Iniesta come già a Mexico City dal Brasile di Pelé.
Varsavia, 28 giugno 2012, la singolare esultanza di Mario Balotelli
Immagini che scorrono, prima in bianco e nero e poi a colori. Il film della nostra vita. Dove eravate voi quando Rivera, Tardelli, Del Piero, Balotelli... Tedeschi che piangono, italiani che ridono e saltano di gioia. Ci hanno fatto piangere tante volte loro, nella vita di tutti i giorni, e quanto ci fanno piangere e tribolare ancora adesso, con lo spread, l’austerity e la Cancelliera di Ferro, che ci riprova dove fallirono il Kaiser ed il Fuhrer. E' bello prendersi queste rivincite sul campo, e non saranno mai abbastanza.

lunedì 27 giugno 2016

DIARIO AZZURRO: Rulli di tamburo per la Roja

Rispetto, è la Spagna. Quattro anni dopo Kiev, arriva la rivincita azzurra, ed è il momento migliore per ricordarsi le parole di Iker Casillas, che invitò i compagni a non infierire su un’Italia allora in difficoltà. La Furia Roja arriva stanca all’appuntamento con la storia, l’ennesimo di questo ciclo avviato ormai più di dieci anni fa, che adesso il quotidiano di informazione sportivo iberico Marca definisce concluso.
Antonio Conte festeggia con la moglie Elisabetta Muscarello in tribuna
Sulla faccia stremata di Chiellini, sul viso di Antonio Conte che ancora non riesce a distendersi nella gioia e ancora mostra i segni dell’incredibile tensione di questo ottavo di finale, c’è tutta la verità a proposito della reale condizione dei campioni uscenti. La verità è che l’Italia ha fatto una grande partita, la partita della vita. Ma la Spagna, pur arrivata a questo Europeo con la stanchezza di chi ha portato quattro squadre agli atti conclusivi della Champion’s e della Europa League e di chi è costretto sempre e comunque ad essere all’altezza di se stesso e del proprio grande passato, ha messo in campo orgoglio, hombria, e negli ultimi minuti – quando è toccato agli azzurri avvertire la stanchezza – qualche sprazzo di quel gioco che da Vienna a Johannesburg a Kiev aveva incantato il mondo. E allora c’è stata gloria anche per Gigi Buffon.
Il ciclo spagnolo è tutt’altro che finito. Ma è singolare che a poche ore di distanza e migliaia di chilometri scenda il crepuscolo sul sogno di Leo Messi di vincere anche con la sua Nazionale ed anche su quello delle Furie Rosse di fermare il tempo ed allungare un glorioso palmares. Lo squadrone catalano che ha nascosto il pallone al mondo scopre che il mondo non è rimasto fermo. E soprattutto non lo è rimasto, appunto, il tempo.
La smorfia finale di Andres Iniesta ricorda quella di Andrea Pirlo a Kiev quattro anni fa. C’è la consapevolezza che quel tempo maledetto è l’unico avversario che non si può dribblare. C’è anche la sensazione che il vento soffi al contrario, e quello che in passato filava dritto e finiva nella porta avversaria adesso finisca fuori o tra le braccia del portiere. Quel portiere che quattro anni fa si era chinato quattro volte a raccogliere il pallone in fondo alla rete e che stasera sembrava tornato quello dei vent’anni.
La gioia dei tifosi italiani a Saint Denis
Vent’anni. Tanti ne sono passati dall’ultima vittoria italiana in gara ufficiale contro i cugini spagnoli. In campo c’era un’altra generazione. Antonio Conte allora giocava, e nemmeno da titolare, era agli esordi. Giocava Roberto Baggio, quello che portò le notti magiche negli U.S.A., e che portò la partita dalla parte dell’Italia all’ultimo istante, dopo una fuga per la vittoria che oggi Darmian e Pellé sono quasi riusciti ad imitare.
La follia di chi ha sorteggiato i gironi a questo Euro 2016 ha fatto sì che si incontrassero negli ottavi due squadre che avevano disputato l’ultima finale. Due squadre che oggi hanno dimostrato di essere – ci sia consentito dirlo –una spanna sopra tutte le altre, con l’unica possibile eccezione della Germania. E se così è, lo vedremo subito, perché al prossimo turno si rinnova un altro scontro epocale. Nei quarti sarà Italia-Germania. Non c’è bisogno di aggiungere altro.
Italia-Spagna, avevamo scritto presentandola, è la storia del calcio. Italia-Spagna a Saint Denis, stadio dove gli azzurri non hanno mai vinto e gli spagnoli sì, una volta, sembra una partita di un altro Europeo. Uno di quelli del passato dove si giocava ancora gran calcio. Partita da dentro o fuori. Partita che prevedeva comunque un addio, alla fine. Quello di Antonio Conte, se avesse perso. Quello della Roja, almeno a questo torneo in cui era imbattuta dal 2004.
Conte non ha voglia di vedere ancora la fine di questa avventura azzurra. Per il Chelsea c’è tempo. Conte ha il fiuto dell’uomo di campo di razza. Sente che il vento stavolta soffia lievemente dalla parte degli azzurri. Che di sicuro hanno più fame e meno acido lattico nelle gambe di questa Spagna, carica di gloria ma anche di ferite. Sente che può ritagliarsi un posto nella storia battendo chi ha fatto la storia recente.
Il primo gol di Chiellini
Vicente Del Bosque, nominato marchese da Re Juan Carlos dopo la vittoria mondiale del 2010, ha invece il problema di tutti i grandi conducadores, non soltanto spagnoli. Il problema di Bearzot, di Lippi, noi lo conosciamo bene. Gestire il crepuscolo dei suoi campioni, e trovar loro dei sostituti all’altezza. Adesso nessuno in patria gli perdonerà di aver tenuto fuori gente come IscoSaul Niguez. La verità è che Iniesta, XaviFabregasPiquéSergio Ramos non li sostituisci. Li tieni in campo finché ce la fanno. E poi esci dal campo con loro, quando non ce la fanno più. A testa comunque alta, e con l’onore delle armi.
L’Italia che gli si para davanti ha la fame dei ragazzi che si affacciano ora al grande calcio e di un tecnico che vuole essere ricordato come vincente. Unita a ciò, l’esperienza della vecchia guardia dei legionari Buffon, Chiellini, BonucciBarzagli. Gente che aveva quasi messo sotto il Barcellona, la scorsa Champion’s League, se l’arbitro turco Cakir, lo stesso di oggi, non avesse arbitrato addirittura peggio di oggi. Gente che aveva fatto fuori il Bayern quest’anno, se solo il fiato avesse retto altri cinque minuti.
La gioia di Chiellini
Antonio Conte deve rinunciare a Candreva. Il destino gli offre un De Sciglio finalmente all’altezza delle sue promesse. Gli mantiene un Giaccherini in formato spaziale, un De Rossi in formato Berlino, un Parolo e un Florenzi che non si pongono più limiti, un Eder in formato Sampdoria e un Pellé che si carica sulle spalle da solo l’attacco e ne tira fuori un reparto. Prende botte, si rialza, ne dà, prende il cartellino a sproposito di Cakir, prende un valium e si dispone ad una partitaccia di sacrificio e di pazienza. Col Belgio arrivò alla fine il suo momento. Anche oggi sarà così.
Primo tempo da stropicciarsi gli occhi. Gli spagnoli vorrebbero riprodurre il proverbiale tiki taka, ma gli italiani si avventano su tutti i portatori palla e li travolgono in velocità. Sono almeno due le occasioni clamorose azzurre per passare, compresa una rovesciata alla Pelé di Giaccherini ingiustamente annullata dall’arbitro per gioco pericoloso. Dall’altra parte, de Sciglio salva su Fabregas, e per la Spagna è tutto.
Quando al ’31 Pellé viene atterrato appena fuori l’area spagnola, il pensiero corre ad Andrea Pirlo. Lungo conciliabolo azzurro, le gerarchie non sono stabilite. Alla fine la spunta Eder, e gli dei mostrano di non avere l’Italia in dispetto quest’oggi. Il tiro del brasiliano naturalizzato è un missile su cui de Gea non trattiene. Sulla palla Giaccherini, e soprattutto Chiellini. 1-0, e non solo i tifosi azzurri cominciano a stropicciarsi gli occhi.
A fine tempo Florenzi e Giaccherini potrebbero addirittura raddoppiare, ma l’erede di Casillas fa miracoli. Nella ripresa, Del Bosque cambia Nolito con Aduriz. Ma è la musica a non cambiare, anche se la Spagna comincia a prevalere nel possesso palla, che a fine primo tempo era sorprendentemente in parità. Combina poco Morata, mentre De Rossi accusa la fatica e obbliga Conte ad inserire Thiago Motta.
Al ’55 fuga di Eder, ma il miracolo riuscitogli contro la Svezia non si ripete. Si resta sul filo dell’1-0, mentre la Spagna lentamente chiude gli azzurri nella loro metà campo. Due percussioni italiane al ’60 però potrebbero chiudere il discorso. Manca un po’ di cinismo in area, e Giaccherini comincia a mostrarsi in debito di ossigeno. Ma Conte sorprendentemente non cambia fino ai minuti finali.
Esce Morata per Vazquez. Al ’71 Iniesta costringe Buffon alla prodezza salva-patria con un tiro dal limite. Poi Piqué, murato ancora dal portiere azzurro. Gli azzurri sono costretti indietro, Conte toglie Eder per Insigne e Florenzi per Darmian. I minuti non passano, anche se è Insigne il più pericoloso all’85 con una fuga in perfetto stile Eder. De Gea risponde alla Buffon.
La gioia di Pellé al raddoppio
Al ’90, Cakir concede quattro minuti di recupero, e sembrano un’enormità per gli italiani stremati dalla fatica. Ci vorrebbe una prodezza come quella nella prima partita. Oppure come quella che – proprio al ’90 – ci dette l’ultima vittoria contro la Spagna più di vent’anni fa. Roberto Baggio ormai è un signore brizzolato che guarda le partite della Nazionale alla TV. Tocca ad uno dei suoi eredi. Tocca a Darmian trovarsi in area sulla ripartenza dopo l’ennesimo calcio d’angolo spagnolo. La difesa iberica è scoperta, anche se mura il tiro dell’ex torinista. Ma la palla rimbalza a centro area e lì c’è Graziano Pellé. Che ricorderà questo gol, in tutto simile a quello segnato al Belgio, finché campa.

La gioia finale del clan italiano è quella travolgente delle grandi imprese. Stavolta Conte riesce a scatenarsi senza farsi male. A ringraziare Xavi, la storia del calcio spagnolo, per i complimenti appena ricevuti. E a far capire alla Germania che quella che l’aspetta adesso è la peggiore delle partite possibili, per lei. Come sempre, da sempre.

Cahiers de Paris (y de Buenos Aires): Las manos de Diòs



Piange (di nuovo) l’Argentina. Parla sommessamente la Pulce, in un angolo: «La Nazionale per me è finita. Ci sono state quattro finali. E non mi sono bastate. Ci ho provato. Era la cosa che desideravo di più, ma non ci sono riuscito, quindi penso che sia finita».
Messi ancora una volta con la medaglia d'argento, l'ultima?
Il Cile vince ai rigori l’edizione straordinaria del Centenario de la Copa America, bissando il successo ottenuto nell’edizione regolare casalinga dello scorso anno (normalmente il trofeo viene disputato negli anni dispari per non interferire con Mondiali e Olimpiadi). E’ proprio Lionel Messi a sbagliare il rigore decisivo, calciando alto sopra la traversa proprio come Roberto Baggio più di vent’anni fa a Pasadena. Gli errori di altri due pezzi da novanta come Lucas Biglia e Arturo Vidal si elidono a vicenda. E’ il tiro mancato dal dischetto dalla Pulce quello che resterà nella memoria collettiva, non solo argentina.


A East Rutherford nel New Jersey, partita di finale bruttissima, con pochissime occasioni da rete e due espulsi, uno per parte. Delusione argentina che nasce proprio dalle prestazioni dei suoi uomini migliori, non solo Messi ma anche el Pipita Higuain.  Che perde per parte sua nuovamente l’occasione di soppiantare nel cuore dei tifosi dell’albiceleste Omar Gabriel Batistuta, l’unico argentino che salva qualcosa da questa spedizione statunitense. Se Leo gli ha tolto il record di reti in nazionale portandolo a 55, né lui né il centravanti del Napoli sono riusciti a togliere il suo poster dalla sede della Federcalcio argentina, né dalle camerette di tutti i niños dal Rio de la Plata alla Patagonia.

Un giovanissimo Batistuta con l'ultima medaglia d'oro argentina

Il Re Leone resta dunque l’ultimo ad aver portato a Buenos Aires la Copa. Le sue due vittorie del 1991 (quella che gli valse il contratto con la Fiorentina) e del 1993 sono uno sprazzo di luce in un albo d’oro che riporta soprattutto ombre per la nazionale biancoceleste. Ha sempre vinto poco l’Argentina, non solo le ultime quattro finali (inframmezzate da un’altra pessima prova nella finale mondiale di Rio de Janeiro, la vittoria mancata nella tana dell’odiato nemico brasiliano a cui gli argentini tenevano di più) che sono costate a Messi la possibilità di essere accostato al Pibe de Oro, quel Diego Armando Maradona che alla vigilia del torneo lo aveva fatto oggetto di una bocciatura storica, dolorosissima. Ha classe immensa, aveva detto, ma non ha carisma, non è un leader. Non come lo ero io, ha sottinteso.
Già, il Pibe. Combinò poco anche lui in Coppa America, ma si rifece ampiamente ai mondiali trascinando da solo alla vittoria un’Argentina assai meno forte di questa in Messico nell’86 e mancando di pochissimo il clamoroso bis in Italia nel 90. E c’è chi dice che se el Flaco Menotti avesse avuto un po’ più di coraggio, Dieguito avrebbe potuto far parte del trionfo casalingo del 78. Di sicuro, la forte Argentina del 94 una volta perso lui per doping uscì ignominiosamente di scena malgrado avesse a bordo fior di campioni a cominciare da Batistuta.
Come se gli dei avessero voluto un risarcimento per essere stati chiamati in causa impropriamente nell’unica vittoria di Diego. Quel gol che aprì la strada alla vittoria argentina sull’Inghilterra e alla vendetta per la Guerra delle Falkland – Malvinas (chissà che ne pensa il buon Diego della Brexit) – un plateale fallo di mano visto da tutti in mondovisione meno che dall’arbitro tunisino Ali Bin Nasser Bennaceur – fu definito sfrontatamente da Maradona la mano de Diòs.
La mano de Diòs di Maradona su Shilton
Dio consentì quel giorno che la classe e la faccia tosta del Pibe argentino ridimensionassero la superbia inglese, ma poi non gli perdonò più nulla. Quattro anni dopo, il più grande giocatore del mondo dopo Pelé fu atteso al varco dalla suerte e gettato nella polvere. Una polvere da cui non si sarebbe più rialzato.
Difficile unirsi al giudizio di Diego, e sparare sulla Croce Rossa, pardon, sulla Pulce Leo Messi. A volte si nasce con un gran dono, e non si ha il carattere giusto per sfruttarlo fino in fondo. A volte, lo stesso dono si getta via per aver preteso troppo da una vita a cui si è riso in faccia beffardamente ogni giorno. I gol di Messi sono stati segnati tutti con i piedi, Dio non ha mai dovuto intervenire, nemmeno a disturbare una barriera o ad aprirgli un varco nelle difese avversarie.
Dio gli ha reso la vita difficile nei primi anni, poi l’ha mandato nel posto dove quella vita poteva decollare verso orizzonti di gran lunga migliori. Dio gli ha reso tutto con gli interessi, lui con le mani ha forse avallato qualche operazione finanziaria non proprio lecita, ma non ha mai segnato gol. Eppure, nessuno dei suoi gol regolarissimi sarà ricordato come quel secondo del malandrino di professione Maradona, che si fece perdonare il furto del primo scartando l’intera squadra inglese e legittimando un titolo mondiale con un gesto tecnico quasi mai più rivisto su un campo di calcio.
La vita prende direzioni imprevedibili. Chi tira in ballo Dio per un colpo di mano dovrebbe stare attento, generalmente. Prima o dopo Dio se ne ricorda. Non è ancora venuto il turno della Francia. Non è ancora venuto il momento di pagare il conto della mano di Henry. L’Irlanda si è illusa ieri pomeriggio, ma Griezman le ha tolto qualsiasi velleità. Anche lui praticamente da solo, come Maradona, fatte le debite proporzioni.
Era il 18 novembre del 2009, si giocavano le qualificazioni al mondiale sudafricano. Allo Stade de France arrivò l’Irlanda, allenata da Giovanni Trapattoni. Giocò talmente bene da arrivare al ’90 in vantaggio 1-0 e con almeno un altro paio di occasioni fallite. Saint Denis era in pieno dramma, la Francia vice-campione in carica era a un passo dall’eliminazione dai mondiali, con la prospettiva di giocare supplementari e rigori contro un avversario che aveva fatto la partita della vita. Un gol irlandese l’avrebbe condannata, uno suo l’avrebbe qualificata. Dentro o fuori in pochi minuti.
La mano di Henry contro l'Irlanda
Al ’12 del primo tempo supplementare, punizione da centrocampo alla disperata di Malouda, che coglie Squillaci in netto fuorigioco. L’arbitro svedese Hansson ha le stesse diottrie del tunisino Bennaceur di 23 anni prima. La palla starebbe comunque per uscire sul fondo, quando Thierry Henry la controlla con la mano, anche lui in mondovisione. Hansson imperturbabile, Henry mette in mezzo, Gallas segna da un metro, Francia ai Mondiali, furia Trapattoni.
La mano di Henry non fu imputata a Dio, ma a qualcuno che in quel momento era subito sotto. Come già in altre circostanze, al gol di Gallas convalidato da Hansson tutti gli occhi si voltarono verso il presidente UEFA, Michel Platini, di nazionalità francese.
Ieri era il giorno della rivincita. La Francia ha sostituito i talentuosi Platini e Zidane con quel Pogba che aveva messo subito la partita sul binario giusto, ma per gli irlandesi. Fallo imbarazzante su Long già al ‘2, Irlanda avanti, stavolta non sarebbe bastato un colpo di mano. Ci voleva Griezman, lui si che potrebbe succedere a Platini e Zidane, almeno sul campo. Lui ha portato la Francia ai quarti, con i piedi. Lui ha rimandato la vendetta irlandese.
Griezman, per ora il salvatore della patria
E Dio? Aspetta. Non ha dimenticato Henry, e come ogni altro spettatore avrà notato che questa Francia non è granché, Griezman a parte. Avrà inoltre sicuramente sospeso il giudizio su Platini, gran calciatore ma manager discutibile e discusso.
Anche senza l’intervento di Nostro Signore, per la Francia i bonus dovrebbero essere finiti. Nei quarti i bleus troveranno l’Inghilterra. L’occasione per chi è scontento della Brexit per prendersi una rivincita pallonara, ma anche l’occasione per ritrovarsi alle prese con una Franxit che per Parigi sarebbe più dura da gestire del referendum di Londra.
Anche l’Inghilterra di conti in sospeso con la sorte ne ha diversi. Dio, a proposito, non paga il sabato. Infatti si giocherà di domenica.

sabato 25 giugno 2016

The Day After * (Controcorrente soltanto in Italia)

Il giorno dopo, ci si sveglia e si scopre che è successo quello che era più probabile che succedesse: niente. L’Inghilterra non si è inabissata nell’Oceano come Atlantide. I tedeschi e i loro alleati non sono riusciti a invaderla (se non ci sono riusciti nel 1940……). Il continente curopeo non è stato spazzato via da tsunami, bore e maelstrom, e non è stato riportato all’Era Glaciale. Gli italiani oltremanica non sono stati chiusi in campo di concentramento. A Dover, nessuno si è sentito chiedere il passaporto. L’Erasmus prosegue as usual, le Borse hanno già ripreso quello che avevano perso ieri, o per meglio dire gli speculatori hanno già incassato le plusvalenze e i loro analisti a pagamento hanno smesso pertanto di rompere i coglioni.
Su Bruxelles, Strasburgo, Berlino, Rignano sull’Arno si è levata un’alba livida. Ma comunque un’alba. Corrono stipendi e dividendi come sempre, come ieri l’altro, come ieri. Corre magari ancora l’isteria collettiva, ma siccome ormai le sue valvole di sfogo sono Facebook e Twitter, gli unici danni che produce sono al quoziente di intelligenza di chi scrive e di chi legge.
E allora? Non doveva succedere qualcosa come nei film 2012 o The Day After Tomorrow, o Il Pianeta delle Scimmie? Tutto qui? Schauble, Schulz, Junker e Tusk bestemmiano qualcosa in alamanno e in goto, come diceva Guccini. Oscure maledizioni sulla Perfida Albione. A proposito, il Mein Kampf non andava ripubblicato, le dichiarazioni di questi figuri invece sì? Almeno Hitler quando parlava non faceva ridere. Per niente.
Dal più fedele alleato dell’alleato germanico (almeno fino alla prossima Cassibile), l’Italia, arrivano squittii – pardon, tweett – vari. Per primo - noblesse oblige, per quanto comunista – Lord Voldemort, pardon, l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’uomo dei carri armati a Budapest. L’uomo a cui l’Europa chiese di detronizzare il governo legittimamente eletto di Silvio Berlusconi, e che ovviamente l'ottenne. L’uomo che essendo ancora a piede libero (anzi, a stipendio della Repubblica) dichiara senza mezzi termini: errore gravissimo far pronunciare il popolo su siffatte questioni.
Ecco, se qualcuno aveva dubbi sull’evoluzione della materia grigia di Voldemort, pardon, Napolitano dal 1956 ad oggi, è servito. Ma soprattutto è servita quella parte della nostra cittadinanza la cui materia grigia gravita ancora nell’area di pensiero che una volta mandava carri armati a discutere, o comunque se ne beava. Il popolo serve alle parate del 2 giugno, alle partite di calcio, agli Angelus del Papa e dovunque la rappresentanza giustifichi stipendi e prebende. Poi, qualsiasi questione è troppo delicata per poterla lasciar decidere a lui.
Chissà perché non è delicata per gli inglesi. O per i francesi. Per gli italiani sì. Sarà che il primo collo regale gli inglesi lo segarono nel 1649, e i francesi nel 1789? Sarà che noi al massimo per far dimettere Leone dovemmo arrivare sull’orlo di una guerra civile, e per far dimettere Vittorio Emanuele III detto Sciaboletta dovemmo farla davvero, ammazzandoci tra noi, la guerra civile?
Domande senza risposta. Gli italiani ormai tra l’altro vivono su Facebook e Tweetter. Al massimo possono uscire di casa per andare a votare qualche sindaco a Cinque Stelle, quando proprio i coglioni sono talmente gonfi da non poter essere più contenuti nella cubatura ammessa dai piani regolatori per le singole abitazioni. Poi, figuriamoci, la stagione balneare incombe. Allora, per fortuna, qui c’è l’articolo 75 della Costituzione che ci salva. Quello che stabilisce che non c’è possibilità, per non parlare della voglia, di fare un cazzo.
I francesi ne hanno cambiate cinque di costituzioni, e senza costituenti. Gli inglesi non ne hanno mai scritta una. Gli americani una sola, ma provatevi a venir meno al più insignificante degli Emendamenti.
Dicono gli europeisti (con il culo degli altri): é un voto – quello degli inglesi – dei vecchi che compromettono il futuro dei giovani. La famosa generazione Erasmus. Quella che –poverina – da stamattina è extracomunitaria in Gran Bretagna e rischia il rimpatrio. O quantomeno di non poter mai più imparare la lingua inglese. Come se noi, i vecchi, trent’anni fa non ci andavamo lo stesso in Gran Bretagna, ad imparare lo stesso inglese, e nessun Erasmus ci pagava il soggiorno, nessuna carta di identità in luogo del passaporto ci garantiva un visto per soggiorno a tempo indeterminato (ma il lavoro lassù si trovava lo stesso). Come se noi l’inglese non lo avessimo imparato ugualmente. Tanto da rammaricarsi ora più che mai di non essere rimasti lassù, ad usarlo un po’ di più e più a lungo.
Dicono ancora gli europeisti: ma i giovani inglesi erano tutti per restare in Europa. Già, peccato che si sono dimenticati di andare a votare. Questo all’Erasmus non glielo hanno spiegato. Le intenzioni di voto contano come le promesse del Renzi.
Capitolo giornalisti. Quelli italiani ormai sono degli impiegati. Al servizio di reti televisive lottizzate dai partiti, e quindi al servizio dei partiti. Tutti, su tutte le reti. Mentana e Vespa che litigano con gli ospiti non sono sussulti di indipendenza. Sono crisi di panico di funzionari che non sanno ancora come riposizionarsi in attesa dell’arrivo di nuovi padroni. Sanno solo di dover saltare nel buio, rischiando tutto. Gli altri, quelli della carta stampata, ormai sono velinari. Se ne trovi uno favorevole alla Brexit è giusto perché il suo editore sta speculando in borsa, o vuole comprarsi un pezzo di qualche ditta, e l’Europa gli sta mettendo i bastoni tra le ruote. A proposito, e adesso caro Marchionne? Come la mettiamo con la sede legale della FIAT in Inghilterra?
Bestiario. Il secondo figuro nato dalla fantasia dell’europeista J.K.Rowlings (scozzese, e gli scozzesi vogliono stare in Gran Bretagna, in Europa e dovunque un organismo superiore si occupi di loro, che altrimenti mangerebbero ancora torte salate e poco altro, salvo rompere periodicamente i coglioni al mondo con l'elegia di quanto si sentono oppressi dagli inglesi) è Mario Monti, che assomiglia a Nagini, il serpente di Voldemort. Sibila frasi minacciose e sinistre in serpentese Nagini, pardon, Monti, all’indirizzo dei popoli, delle democrazie, e di chiunque lo importuna con domande inopportune. Non gli è amica più neanche la Fornero. Non sta bene Nagini, pardon, Monti.
Poi ci sarebbe Peter Minus, pardon Matteo Renzi. Son due giorni che parla poco, non sa ancora cosa deve dire, le comunicazioni con Berlino sono disturbate. Del resto, alla Merkel chi glielo va a dire che cosa deve dire lei, e poi dopo far dire a Renzi? Intanto rinviamo la direzione del PD, vai. Anche gli schiaffi sono rinviati.
Eric Arthur Blair, in arte George Orwell
Chi altri? Mattarella non lo calcolo, sembra uno dei due vecchini del Muppet Show. Il Papa è in Armenia. Grillo ha fatto il passo di lato. C’è una carenza di cattivi d’autore, in questo casting. Pochi modelli a cui rifarsi. La gente deve pensare con la sua testa, anche per dire sciocchezze, e non c’è più abituata. George Orwell, di cui oggi ricorre il centotredicesimo anniversario della nascita, disse una volta: «Ortodossia vuol dire non pensare, non aver bisogno di pensare. Ortodossia e inconsapevolezza son la stessa cosa.» Il libro era 1984, quello del Grande Fratello. Non ne trovate la riduzione televisiva sulle reti Finivest. Va letto, per forza.
Ecco, noi italiani siamo ortodossi. E non vogliamo rotture di coglioni fuori Facebook e Tweetter almeno fino a ottobre. E poi noi abbiamo l’art. 75 (e giù un sospirone di sottofondo, presumo di sollievo).
Francia e Olanda stanno già chiedendo la loro Brexit tramite referendum. Non lo sanno nemmeno se hanno l’art. 75, loro. Stamattina si sono svegliate, l’Inghilterra c’è ancora, nessuno si è fatto male. L’erba del vicino inglese è ridiventata di colpo la più verde.
«Siamo impegnati in un gioco in cui non possiamo vincere. Alcuni fallimenti sono migliori di altri, questo è tutto.» E’ sempre lo stesso autore, nello stesso libro di cui sopra a dirlo. Ecco il punto. Chi vota, è soggetto al rischio di fare cazzate. Ma le cazzate fatte in libertà alla fine assicurano una vita migliore, più degna di essere vissuta di quella garantita dal seguire i consigli degli analisti a reti unificate della nostra televisione.
«Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri»
da La fattoria degli Animali, George Orwell (25 giugno 1903-21 gennaio 1950).

Caro George, ti saresti divertito a vedere quanti animali ci sono qui, nel paese del Grande Fratello.

* celebre film catastrofico degli anni 80

venerdì 24 giugno 2016

Il mio bel San Giovanni

I legionari di Giulio Cesare che stabilirono il primo accampamento sulle rive dell’Arno, a mezza strada tra la sorgente e la foce, ai piedi dell’insediamento etrusco di Faesulae, lo chiamarono Florentia, il posto dei fiori, e lo consacrarono – com’era pressoché d’obbligo, trattandosi di legionari – a Marte, il dio della Guerra.
A Marte eressero una statua nei pressi del ponte che attraversava l’Arno, e che un giorno – dopo che tanta acqua sarebbe scorsa sotto di esso – sarebbe stato conosciuto come il Ponte Vecchio. Sempre a Marte era dedicato il tempio che eressero poco più in là, a nord. E Campo di Marte si chiamava l’area adibita alle esercitazioni della Legione di stanza nella zona. Uno dei pochi toponimi giunti dall’Età di Cesare ai giorni nostri.
La statua sarebbe sopravvissuta all’Impero Romano e alla vecchia religione politeistica a cui aveva reso omaggio fino al 1333. In quell’anno, recitano le cronache medioevali, una alluvione dell’Arno più o meno delle proporzioni di quella a cui avremmo assistito personalmente sei secoli dopo la spazzò via.
Il Ponte resse, come avrebbe fatto in seguito resistendo all’incuria del tempo e degli amministratori comunali. La statua no. A quel punto, nessuno venerava più quel dio da tempo immemorabile. Nessuno ne sentì la mancanza. Dal sesto secolo la parte di mondo in cui si trovava il borgo di Florentia, o Fiorenza, era ricaduta sotto il dominio dei Longobardi, la tribù di origine germanica che soppiantò i Visigoti accampandosi sulle rovine della penisola romana.
Il cristianesimo che dette la prima impronta alla città di Firenze come la conosciamo oggi fu appunto quello, rozzo e fanatico, di questi Germani convertiti dopo lungo penare dai successori di Pietro che avevano ereditato la capitale imperiale. Non era capitale di alcunché invece Firenze, all’epoca. Anzi, probabilmente si trattava di un borghetto senza nessuna particolare importanza alle estreme propaggini del Ducato di Spoleto. Ma con il progressivo civilizzarsi di un orda barbarica che in principio detestava la prossimità dei corsi e delle distese d’acqua, la sua importanza andò progressivamente aumentando.
La città cominciò a trasformarsi ed arricchirsi. Il Campo di Marte rimase tale perché le guerre continuarono anche in epoca cristiana. Il tempio di Marte invece fu abbattuto e sulle sue vestigia fu edificato il più antico e forse più suggestivo e prestigioso monumento della Firenze medioevale pervenuto ai giorni nostri: il Battistero, che sembra risalire al VII° secolo.
Vigeva già l’usanza – ereditata dal Paganesimo – di intitolare i luoghi di culto a figure oggetto di devozione. Non più gli Dei, ma piuttosto i Santi. L’edificio era un enorme fonte battesimale. Era quasi gioco forza dedicarlo alla figura di Ioannes Prodromos, Giovanni il Precursore. Colui che aveva battezzato Gesu Cristo avviandolo verso il suo destino di fondatore di una nuova religione. Colui che dopo il martirio di Cristo – ed il proprio – sarebbe stato conosciuto come Giovanni Battista.
Piazza Santa Croce nel XVII secolo
Martirizzato da quell’Erode contro i cui facili costumi si era scagliato senza paura, Giovanni era stato inserito nel calendario cristiano con il prestigio di un Santo guerriero. Per questo la sua figura era estremamente suggestiva per il popolo dei Longobardi, semiconvertiti alla civiltà cristiana ma pur sempre feroci maneggiatori di armi e spargitori di sangue. San Giovanni Battista, l’ultimo dei profeti precursori di Cristo, personalità talmente evocativa da essere cooptata anche dalla religione islamica (lo Yahya del Corano), divenne quindi il Santo principale venerato a Firenze. Il suo Santo Patrono, a cui votarsi nella buona e nella cattiva sorte.
Le prime testimonianze di una festività del Patrono risalgono al XIII° secolo, all’epoca di Dante. Che peraltro raccontò di essere stato lui stesso battezzato nell’edificio dedicato al Battista, e ne parlò con trasporto pari alla suggestione che per sua ammissione aveva provato sostandovi in preghiera.
A partire dal Quattrocento, il Battistero dovette condividere il prestigio di contribuire a delineare il landscape tipico di Firenze con la chiesa di Santa Maria del Fiore che la nuova signoria medicea aveva commissionato per dotare la città di una Cattedrale adeguata. La Chiesa sorse sulle rovine della precedente intitolata a Santa Reparata. Accanto ad essa, il Campanile intitolato ad Angelo di Bondone detto Giotto, diventato nel frattempo capomastro della signoria fiorentina, completava uno dei trittici monumentali più celebri del mondo, allora come adesso.
A quell’epoca, era stata consolidata l’usanza di festeggiare la ricorrenza del Patrono con una processione di ceri portati dai nobili fiorentini fin sul sagrato del Battistero e della Cattedrale. La processione umana fu progressivamente sostituita da quella che aveva in testa un carro trainato da buoi. Il Carro di San Giovanni, su cui veniva trasportato in Piazza San Giovanni, o Piazza del Duomo, un unico enorme cero votivo.
Piazza Santa Croce oggi
Sembra che l’idea di provocare uno scoppio di quel carro risalga addirittura alle Crociate. Secondo la leggenda, fu il fiorentino Pazzino de’ Pazzi il primo nobile cristiano a salire sulle mura di Gerusalemme il 15 luglio 1099, quando la grande coalizione guidata da Goffredo di Buglione riuscì a sfondare le difese musulmane, a conquistare la Città Santa ed il Santo Sepolcro e a concludere vittoriosamente la Prima Crociata.
Per riconoscimento, Goffredo di Buglione fece dono a Pazzino de’ Pazzi di tre schegge della Pietra del Santo Sepolcro, che al ritorno del Crociato furono custodite nella Chiesa dei Santi Apostoli ed esibite ad ogni ricorrenza del Sabato Santo. In quella stessa circostanza veniva perpetuata l’usanza di distribuire il fuoco santo ai fiorentini, da cui la processione dei nobili che portavano i ceri e poi la trasposizione di questi sul Carro che andava ad onorare le pietre del Santo Sepolcro. Probabilmente, una di queste processioni si concluse con lo scoppio accidentale del Carro di San Giovanni. Il che, lungi dallo spaventare i cittadini come presagio di sventura, fu mantenuto come tradizione per i secoli a venire.
Il Corteo Storico degli Sbandieratori
La cerimonia fu lasciata alla responsabilità organizzativa della Famiglia Pazzi fino al 1478, anno in cui a seguito della celebre congiura contro i Medici la famiglia fu decimata e i superstiti banditi da Firenze. Lo scoppio del Carro fu proibito dalla signoria, fintanto che nel 1494 ai tempi di Savonarola non fu cacciata la signoria stessa e la cerimonia del Carro fu ripristinata. I Medici ritornarono a Firenze come Duchi e Granduchi grazie alle armi dell’Imperatore Carlo V, ma non si sognarono più di vietare lo Scoppio del Carro, diventato ormai una delle tradizioni di Firenze. Ai Pazzi, poco prima che perdessero il privilegio di organizzatori, sembra sia dovuta la struttura attuale – più resistente - del Carro di San Giovanni e l’uso della Colombina per incendiarlo.
Tra le leggende di Firenze, c’è quella che vuole la Colombina sempre a bersaglio, tranne in annate in cui si verificano poi calamità. In epoca moderna la superstizione pare essere stata confermata nel 1940 (entrata dell’Italia nella guerra mondiale) e nel 1966 (alluvione di Firenze e della Toscana). Senza esito, per fortuna, il recente mezzo flop del 2014.
Altra leggenda di Firenze è quella – confermata però dai libri di storia – che stila l’atto di nascita ufficiale del gioco del calcio a Firenze e nel mondo al 17 febbraio del 1530. Giorno in cui, mentre le armate dell’Imperatore assediavano la città da tempo per imporle il ritorno dei Medici e la fine della Repubblica, i nobili fiorentini decisero di tirare a Carlo V uno schiaffo morale, mettendosi a disputare la prima partita di cui si ha memoria scritta in Piazza Santa Croce, sotto gli occhi degli Imperiali che osservavano strabiliati dalle colline.
In realtà, il gioco affondava le sue radici nell’Impero Romano, come la città. Florentinum Harspatum era il nome con cui era conosciuto al tempo dei Cesari, e praticato un po’ in tutto il loro dominio. Quella del 1530 dunque fu una delle tante, anche se la più celebre delle partite. Il gioco proseguì per i due secoli successivi, per estinguersi praticamente con la dinastia Medici. Pare che l’ultima partita ufficiale fu giocata a Santa Croce nel 1739, alla presenza di Maria Teresa d’Asburgo, che l’anno dopo sarebbe diventata Imperatrice d’Austria e per una combinazione del destino avrebbe sposato quel Francesco di Lorena destinato ad ereditare proprio la corona granducale dai Medici.
Fu il gerarca fascista Alessandro Pavolini nel 1930, per celebrare la ricorrenza del quattrocentesimo anniversario della storica partita-beffa contro Carlo V, a promuovere la ripresa del Calcio Storico fiorentino. Mentre nel frattempo una sua variante aveva germogliato in Inghilterra prima e nel mondo poi sotto il nome di football, il calcio di Firenze riprese quindi la sua epopea nella cornice tradizionale della Piazza dove in ottemperanza al Regolamento del Giuoco del Calcio stilato da Giovanni de’ Bardi nel 1580 si disputava da sempre.
Se lo Scoppio del Carro era nel frattempo migrato verso il giorno di Pasqua, le sfide calcistiche rimasero ancorate alla Festa del Patrono, con le tradizionali semifinali e finale disputate tra i quattro rioni storici della Città: i Bianchi di Santo Spirito, gli Azzurri di Santa Croce, i Rossi di Santa Maria Novella e i Verdi di San Giovanni. Con l’unica interruzione dovuta alla guerra mondiale (che non impedì comunque la disputa di una partita vinta nel 1942 dai Rossi sui bianchi per una caccia e mezza a una), il calcio storico ha onorato San Giovanni e Firenze fino ai giorni nostri.
In alcune occasioni straordinarie il calcio fiorentino è stato giocato anche in altre città, per esempio il 28 agosto 1960, quando si giocò a Roma, a Piazza di Siena, in occasione delle Olimpiadi, oppure il 12 ottobre 1976 quando una partita venne effettuata a New York nell'ambito delle manifestazioni del Columbus Day. Il 3 luglio 1998 un incontro si disputò nella Place Bellecour di Lione in occasione dei mondiali di calcio.

Di tradizione più recente sono il Corteo Storico con gli Sbandieratori, le gare fra i club di Canottieri in Arno e soprattutto i fuochi d’artificio. O Fochi.


Regolamento del Giuoco del Calcio a Firenze
di Giovanni de’ Bardi, 1580
suddiviso in trentatre capitoli

  1. Teatro del Calcio sia la Piazza di S. Croce.
  2. Dal giorno sesto di Gennaio fino a tutto il Carnevale, sia il campo conceduto agli esercizi del Calcio.
  3. Ciascun dì verso la sera, al suono delle Trombe compariscano in campo i Giuocatori.
  4. Qualunque Gentiluomo, o Signore vuole la prima volta esercitarsi nel giuoco: siasi avanti rassegnato al Provveditore.
  5. Facciasi cerchio, e corona in mezzo al Teatro con pigliarsi per mano i Giuocatori; acciò dal Provveditore, e da quei, che saranno da lui a tale effetto invitati, siano scelte le squadre, e ciascuno inviato al posto, ed uficio destinatoli.
  6. Nel Calcio diviso, il numero de' Giuocatori sia di 27 per parte, da distribuirsi in 5 Sconciatori, 7 Datori, che quattro innanzi, e tre addietro: e quindici corridori in tre quadriglie: tutti per combattere ne' luoghi ed ordini soliti, e consueti del Giuoco.
  7. I Giuocatori siano a tal fine trascelti, e descritti nella lista, né aggiugnere vi se ne possa, o mutarne.
  8. In vece de' Mancanti, prima di cominciar la battaglia, proponga il Provveditore gli scambj; I Giudici gli eleggano.
  9. Escano le Schiere in campo all'ora concordata.
  10. Nella comparsa i Primi siano i Trombetti, Secondi i Tamburini, poi comincino a venire gli Innanzi più Giovani, a coppie, di maniera che a guisa di scacchiere nella prima coppia a man dritta sia l'Innanzi dell'un colore, nella seconda dell'altro, nella terza come nella prima, seguendo coll'ordine predetto di mano in mano. Dopo tutti gli Innanzi vengano gli Alfieri a' quali nuovi tamburi marcino avanti. Appresso loro seguano gli Sconciatori. Dietro questi i Datori innanzi, de' quali quelli del muro portino in mano la palla. Per ultimi succedano i Datori indietro.
  11. Quel degli Alfieri cui la sorte averà eletto sia alla destra.
  12. Girata una volta la piazza, le insegne diansi in mano de' Giudici. Nelle livree più solenni, e nelle disfide si consegnino a i Soldati della Guardia del Sereniss. Granduca Nostro Signore, per tenersi ciascuna d'avanti al proprio Padiglione.
  13. Pur nelle livree, e Disfide, il Maestro di Campo, colle Trombe, e i Tamburi avanti, vada il primiero, seguito dagli innanzi del suo colore a coppie, precedenti tutti l'Alfiere, il quale colle genti di suo servizio d'attorno porti l'insegna, seguito poi dagli Sconciatori, e Datori: uscendo di così in ordinanza, ciascuna schiera di per se dal proprio Padiglione, giri sulla man destra tutto il Teatro fino al luogo donde prima partì.
  14. In luogo alto, e sublime, sì che è veggano tutta la piazza, seggano I Giudici. Siano eletti di comun consenso, né concordandosi, de' proposti dalle Parti in numero uguale, pongansi alla ventura.
  15. Al primo tocco della Tromba, che faran sonare i Giudici si ritirino tutte le genti di servizio, lasciando libero il campo.
  16. Al secondo, vadano i giuocatori a pigliare i lor posti.
  17. Al terzo, il pallaio vestito d'amendue i colori, dalla banda del muro rincontro al segno di Marmo, giustamente batta la palla.
  18. Coll'istesso ordine si cammini, sempre, che per essersi fatta la caccia, o il fallo, debba darsi nuovo principio al giuoco.
  19. Il Pallaio gli ordini de Giudici prontamente, eseguendo sempre, e dovunque bisogno ne sia, la palla rimetta.
  20. Uscendo la palla de gli steccati portata dalla furia de' Corridori rimettasi per terra in quel luogo dond'ella uscì.
  21. Uscendo la medesima de gli steccati per mano del Datore, (mentre non sia caccia, né fallo) se i Corridori vi saran giunti in tempo, che potessero al nemico Datore impedirne il riscatto, rimettasi quivi per terra; ma non sendo arrivati in tempo, diasi in mano al Dator più vicino, ed allora i Corridori tornino dentro a gli Sconciatori a' lor luoghi ed ufici, senza perder però l'avvantaggio della piazza già guadagnata.
  22. Sia vinta la caccia sempre, che la palla spinta con calcio, o pugno esca di posta fuora degli ultimi steccati avversarj di fronte.
  23. Sia sempre fallo, che la palla sia scagliata, o datole a mano aperta, sì che ella così percossa s'alzi oltre l'ordinaria statura di un uomo.
  24. Sia fallo eziandio, quando la palla resti di posta fuora dell'ultimo steccato dalla banda della fossa.
  25. Se la palla esca di posta fuori dello steccato verso gl'angoli della Fossa, la linea diagonale della piazza prolungata distinguerà se sia Fallo, o Caccia.
  26. Due falli, in disfavore di chi gli fe', vagliano quanto una caccia.
  27. Vinta la caccia, cambisi posto. Alle disfide nel mutar luogo l'Insegna vincente sia portata per tutto alta, e distesa, la perdente fino a mezzo bassa, e raccolta.
  28. Rompendosi la palla da' Corridori, che fossero stati, nell'atto del darle, già fuora degli Sconciatori, s'intenda esser mal giuoco, e da' Giudici si determini ciò, che sia di ragione.
  29. Nell'interpretare, ed eseguire i presenti Capitoli, ed in ciò, a che per essi non si provede, sovrana sia l'autorità de' Giudici, e da loro se ne attenda presta, ed inappellabil sentenza.
  30. Vincansi le deliberazioni fra loro, colla pluralità de' voti.
  31. Un giuocatore per parte, e nella disfida Mastro di campo, e non altri, abbiano autorità di disputare d'avanti a' Giudici tutte le differenze occorrenti.
  32. Sia spirato il termine, e finita la giornata allo sparo, che sarà fatto d'un mastio subito sentite le 24 dell'oriuol maggiore.
  33. Sia la vittoria di quella parte, che avrà più volte guadagnata la caccia, ed allora le insegne siano dell'Alfiere vincitore: ed in caso di parità ciascuno riabbia la sua.


Sorgi Inghilterra. Vince la Brexit

C’è ancora un’Inghilterra. Alle prime luci dell’alba il comitato elettorale che presiede allo scrutinio delle schede del referendum LEAVE or REMAIN annuncia il risultato. E’ il Giorno di San Giovanni. Gli inganni sono finiti. E’ anche il giorno di San Giorgio, protettore di queste isole che dal 1066 non si arrendono più a nessun conquistatore europeo. 52% LEAVE, 48% IN. La Gran Bretagna esce dall’Unione Europea. La Brexit ha vinto.
Non si tratta più dei sondaggi addomesticati da una stampa quasi totalmente asservita all’oligarchia bancaria e burocratica che fa capo a Bruxelles, Strasburgo, Berlino. Sono i risultati definitivi. Non hanno avuto paura dell’Invencible Armada, non anno avuto paura della flotta di Napoleone a Trafalgar, né del Leone Marino di Hitler. Non poteva riuscire a spaventarli la tragicomica silhouette dei signori biliosi della Commissione Europea, della Trojika e di alcuni governi continentali che ambirebbero a fare del continente nuovamente un lebensraum di una casta che non ha più al braccio la croce uncinata ma piuttosto il simbolo – diventato nel tempo altrettanto sinistro – dell’Euro.
Non poteva essere vero. Non lo era. I sondaggi erano fasulli, addomesticati. Così come – lo ribadiamo senza tema di smentita o censura – poco genuino era apparso da subito l’attentato alla povera deputata Jo Cox, destinato nelle intenzioni dei mandanti occulti a causare l’ondata emotiva che rovesciava carte in tavola chiarissime da settimane, da mesi. Ci sarà sempre un’Inghilterra, come è stampato nelle magliette che compravamo da ragazzi a Carnaby Street. Altera, algida, poco simpatica quanto si vuole, ma giustamente orgogliosa (e per noi dolorosamente invidiabile) del proprio carattere nazionale forgiato ai temi di un Re che non a caso era stato soprannominato il Cuor di Leone.
Non hanno avuto paura. E stavolta non avevano un Francis Drake, un Horatio Nelson, un Winston Churchill, una Margaret Thatcher a guidarli. Avevano piuttosto un Neville Chamberlain, un portatore di catastrofe spacciata per la pace per il nostro tempo. Uno che si era scoperto europeista solo dopo la pubblicazione dei Panama Files (e dell’arrivo conseguente delle pressioni di Bruxelles e di altri centri di potere europeo). Non avevano il probabile aiuto in soccorso degli Stati Uniti, stavolta. Perlomeno, non da parte dell’amministrazione in carica. Il più deludente Presidente della storia degli U.S.A., Barack Obama, ha perso l’ultima occasione per stare zitto, alla fine di una lunghissima lista.
David Cameron e Angela Merkel
David Cameron non era il leader giusto per questa Inghilterra che si è improvvisamente ricordata chi è. Ha rassegnato le proprie dimissioni non appena sono stati proclamati i risultati ufficiali della consultazione. «Il paese ha bisogno di un nuovo leader». Chapeau, mr. Cameron, a lei ed alla Nazione che con queste semplici parole finalmente ha saputo rappresentare degnamente. Il popolo ha scelto, la volontà del popolo sarà rispettata da tutte le istituzioni britanniche. Poche cose sono più sicure di questa. Massima invidia, da parte di chi come noi italiani è costretto ad aggrapparsi ad una riunione del Direttivo del Partito Democratico per vedere rispettata la propria di volontà. Riunione peraltro prontamente rinviata da un Matteo Renzi che starà interrogando sicuramente il proprio cellulare come un aruspice.
Un leader per la verità sta emergendo, nell’ora più grande di questa generazione di inglesi. Nigel Farage, leader del movimento indipendentista UKIP (che al pari della Lega Nord italiana di Matteo Salvini e del Front National francese di Marine Lepen viene comunemente liquidato come fascista xenofobo) celebra il suo momento di gloria e la sua vittoria epocale. «E’ il nostro Indipendence Day», dichiara con gioia tutto sommato contenuta questo figlio di un broker della City esponente della middle class agiata del South West di Londra, quanto di più improbabile come novello Oswald Mosley, come è stato dipinto dalla stampa soprattutto del nostro paese. E aggiunge, la domanda non è cosa succederà adesso alla Gran Bretagna, ma piuttosto cosa succederà all’Europa. Italia compresa.
Già, cosa succederà? L’Europa dell’Unione Bancaria incassa soltanto il dissenso alla Brexit di Scozia e Irlanda del Nord, in controtendenza rispetto al mainstream inglese. La Scozia ha ormai ripiegato su una autonomia controllata. Il vecchio spirito anti-inglese di Braveheart deve fare i conti con i benefici del Commonwealth e dello Stock Exchange londinese. Quanto all’Ulster, è da decidere se tornerà ad essere una spina nel fianco di Sua Maestà, con la richiesta prontamente rinnovata di annessione all’Eire. Oppure sarà la volta che Sua Maestà si libera proprio di quella spina dal fianco.
Nigel Farage al Parlamento di Strasburgo
Nella colonna del dare”, sono molte di più le voci che si stanno allineando per la UE. Olanda e Danimarca hanno da tempo fatto sapere come la pensano, e saranno probabilmente i prossimi due exit. Poi c’è la Scandinavia, che già beneficiava di un regime particolare, analogo a quello inglese. Quindi la Francia, che al termine della durissima battaglia sulla loi du travail (l’equivalente del jobs act renziano) si è scoperta probabilmente ancor meno europeista di quanto lo fosse negli ultimi tempi, con un presidente sempre più screditato come Hollande e una Marine Lepen che sarà sempre più difficile tenere lontana con lacchezzi come quelli delle Regionali dalle stanze del potere. Poi c’è la SpagnaPodemos o no Podemos? E l’Italia? Fedele stavolta all’alleato germanico, o pronta ad un nuovo armistizio di Cassibile (soprattutto una volta disfattasi dei Quisling e dei Petain come Renzi e Monti)?
Volano al ribasso le Borse. Tokyo e Milano sottoterra, le altre comunque tutte col segno meno. La speculazione internazionale, la stessa che ha aperto la crisi economica epocale a cui oggi forse la Brexit è arrivata oggi a dare risposta, ha realizzato le sue plusvalenze. Proprio come gli inglesi che scommettono su tutto, dalla vittoria nell’Europeo di calcio fino al sesso del proprio erede al trono, le Morgan Stanley e gli Standard & Poors di questo mondo giocano su tutto. E finora hanno vinto sempre.
Qualche analista comincia a mezza voce a tentare di spiegare come stanno realmente le cose, cercando di farsi sentire nel coro dei profeti di sventura più o meno cointeressati. Non succederà nulla. La sterlina che si svaluta è un ulteriore omaggio all’Inghilterra, che nel breve periodo avrà un boom delle esportazioni come noi ci sogniamo soltanto, dopo il 1992. La Borsa di Londra governa il mondo dal 1698, e continuerà a farlo, quanto e più di quelle di New York, Francoforte, Tokyo, Milano e compagnia bella. Del resto, l’hanno inventato loro anche questo gioco. E a differenza del football, ne sono rimasti maestri indiscussi.
Boris Johnson  ex Major di Londra e sostenitore dellaBrexit
E’ la vittoria della politica sull’economia che aveva preso il sopravvento. Sul big busness, come dice ancora Nigel Farage, che stava strozzando il continente, facendo dimenticare a tutti le ragioni che avevano spinto i popoli sopravvissuti alle guerre mondiali a mettere insieme le loro risorse e le loro ragioni d’essere. Adesso Londra negozierà con Bruxelles e Strasburgo il ritiro delle legioni comunitarie dalla Britannia, nonché dei propri funzionari dagli uffici della U.E. La quale continua imperterrita a promettere ritorsioni, continuando a suonare lo stesso refrain come l’orchestrina a bordo del Titanic. Succederà invece nient’altro che un ritorno alle condizioni del Trattato di Roma del 1957 e dell’E.F.T.A. del 1959. Al limite, a quelle del 1972, con l’adesione della Gran Bretagna alla C.E.E. poi ratificata dal referendum di Harold Wilson nel 1975.
Erano altri tempi, chissà se sono rievocabili. L’Europa era divisa da una Cortina di Ferro, ma noi ragazzi potevamo girarla in lungo e in largo malgrado le frontiere esistenti senza neanche accorgerci che esistesse. Prima che qualcuno sostituisse gli interessi di bottega alle ragioni ideali e la facesse diventare un Reich. Un mostro.
Quel mostro adesso perde sangue copiosamente. San Giorgio ha estratto la spada spingendo in un angolo il drago Europa. San Giovanni gli ha coperto le spalle dai suoi servi oscuri. La bestia è sconfitta. Una brutta bestia. Ci sarà sempre un’Inghilterra.

“Nessuno cantava più Sorgi Inghilterra. E tuttavia l’Inghilterra era risorta”

(A.J.P. Taylor)