sabato 15 giugno 2013

RENZIADE: Malgrado Renzie, non saranno Happy Days

«Nel Parlamento italiano, quando non si vuole affrontare un problema si nomina una commissione». Matteo Renzi non lo sa, ma nel dire questo ha fatto una citazione nientemeno che di Bettino Craxi. Ci sono cose, in Italia, che non cambiano, dalla Prima alla Seconda Repubblica. Ci sono riforme che la nostra classe politica non vuole e non vorrà mai che vengano fatte. Perché significherebbe andare a casa e abdicare al proprio potere. Una di queste, la più importante, è quella della Costituzione e del sistema elettorale.

Scriveva tempo fa Giovanni Sartori, il più illustre, saggio e longevo dei nostri politologi, che se si vuole fare davvero una modifica della forma di governo c’è poco da studiare, o per meglio dire da tergiversare. Si prende quella di uno dei maggiori paesi occidentali, U.S.A., Francia, Germania, che può essere più congeniale alla nostra storia ed alle nostre necessità e la si adotta pari pari.
E funzionerà, come funziona nel paese da cui l’abbiamo presa a prestito. Se invece non si vuole – ed è il caso dei nostri politici – si nomina una Bicamerale e le si dà un tempo indeterminato per studiare, per andare alla ricerca della Pietra Filosofale, del sistema perfetto sulla carta e che a Dio piacendo sulla carta rimarrà.
Dopo la storica Bicamerale di Prodi e D’Alema, che quindici anni fa si accampò in Parlamento come Annibale agli Ozi di Capua e finì per partorire quel disastro epocale che è stata la riforma del Titolo V della Costituzione e (per fortuna) poco altro, le nostre forze politiche ci riprovano. Come se non fossero bastati i predecessori di ulivista memoria e nemmeno i Dieci Saggi del Presidente Napolitano, adesso arrivano i Quaranta, che dovranno discutere di un cambiamento della Carta costituzionale che nessuno di loro in realtà vuole. L’analogia numerica con gli avversari di Alì Babà è puramente casuale, ovviamente.
Battute a parte, più tempo ci mettono (anche se non lo ammetterà mai nessuno) meglio è per il Governo Letta, che agganciandosi a questo escamotage ha cominciato a sperare di potersi riciclare da governo d’emergenza a governo di legislatura. E meglio è per loro, perché se non bastasse il lauto stipendio da parlamentare già percepito verrà loro corrisposto anche un gettone di presenza per ogni giorno speso a discutere di angeli che non sanno nemmeno loro se vogliono cambiare sesso. Doppio stipendio per fare ciò che sarebbe già loro dovere fare, si chiama, per chi non se lo ricordasse, spending review.
Era il 15 giugno del 1215 quando i Baroni del Regno d’Inghilterra imposero a Re Giovanni Senzaterra la prima carta costituzionale della storia, la Magna Charta. Ciò avvenne al termine di un lungo periodo oscuro e sanguinoso di lotte interne. Più o meno come quello che il popolo italiano ha davanti se vuole e spera di convincere i propri politici a comportarsi in modo più conforme al proprio mandato politico, nonché a fare qualcosa di utile a tirare fuori il paese dalla crisi che attraversa.
Il crollo di partecipazione elettorale registrato ai ballottaggi delle ultime amministrative è un segnale inequivocabile e assai infausto. Il popolo italiano non crede più alla rappresentanza democratica espressa attraverso il voto, soprattutto non crede più ad una politica che non c’è verso di piegare al proprio volere, almeno con mezzi legali. Da qui il 48,5% di votanti domenica scorsa, il minimo storico. Si eleggeva il sindaco in 16 comuni capoluogo e in 76 comuni cosiddetti maggiori. Il centrosinistra ha fatto l’en plein e ovviamente ha cantato subito vittoria. Inutile chiedere ai suoi leaders se qualcuno di loro ha qualche ricordo scolastico su chi fosse Pirro, quel Re dell’Epiro che pagò a così caro prezzo una sua vittoria sui Romani da dare il proprio nome da allora in poi alle vittorie inutili, se non addirittura a sconfitte mascherate da trionfi.
Ma torniamo al Sindaco di Firenze Matteo Renzi, uno dei competitor alla leadership di quello che sarà il Partito Democratico superstite, come lo era quell’Ignazio Marino nel frattempo diventato da outsider Sindaco di Roma o come avrebbe voluto essere anni fa anche Beppe Grillo. "L’uomo che sussurrava prima a Bersani e poi a Epifani" ha improvvisamente deciso di rompere gli indugi e riscendere in campo, a ottobre sarà di nuovo il lizza per le Primarie bis. Qualcuno deve avergli finalmente fatto capire che la "politica dei due forni" andava bene al tempo dei suoi archetipi democristiani, ora invece è il sistema migliore per perdere un treno che potrebbe non ripassare più. Qualcuno deve avergli fatto capire che vestirsi da Fonzie sarà anche divertente, almeno per una parte dell’audience, ma che i cittadini vorrebbero vederlo vestirsi più che altro da leader, e soprattutto comportarsi come tale.
Da circa un anno a questa parte Matteo Renzi "non campa e non crepa", come si dice con termine assai colorito nella sua città. Non governa più il suo Comune, infatti è stato rilevato come sia in lizza per il titolo di Sindaco più assenteista d’Italia, 8 sedute del Consiglio Comunale su 45 in tutto il 2012, se la gioca con Alemanno (che abbiamo visto che fine ha fatto). A parte farsi vedere allo stadio quando la Fiorentina gioca e vince, chi si aspettava che Renzi facesse "qualcosa di fiorentino", per parafrasare Nanni Moretti, è rimasto assai deluso. E’ notizia dell’ultim’ora l’addio sostanziale dato dall’Amministrazione Comunale alle linee 2 e 3 della Tramvia. Le motivazioni addotte sono quelle che vogliono l’azienda appaltatrice Impresa S.p.A. (già subentrata alla precedente aggiudicataria, il Consorzio Etruria andato in fallimento) in grave crisi di liquidità.

In realtà, nessuno in città si nasconde quale sia la realtà dei fatti: il Sindaco, ad un anno dalle elezioni che dovrebbero confermarlo, non vuole cantieri aperti in mezza città. Anziché porre il mantenimento di vecchie promesse non solo elettorali come vanto e punto cardine del nuovo programma di governo cittadino, Renzi in questo appare più vecchio del vecchio che vuole o diceva di volere rottamare, trattando l’opera pubblica più importante degli ultimi 30 anni a Firenze come una fonte di mugugno popolare e basta. E disinteressandosi completamente della ricaduta negativa disastrosa in termini economici ed occupazionali, per tutte quelle piccole e medie imprese che facevano affidamento su lavori che a questo punto non partiranno fino a dopo il 2014. O anche mai, perché nel frattempo andranno a scadenza i tempi concessi dall’Unione Europea per l’utilizzo del finanziamento di 36 milioni accordato a Firenze: o si finisce nel 2015 o addio fondi comunitari. Una dèbacle, insomma.
Con un futuro poco luminoso come amministratore comunale, il buon Renzi deve aver riconsiderato più attentamente quella parte del suo futuro che lo spinge verso Roma. Facile dire “con grosso sollievo dei fiorentini”, più difficile dire con quale appeal all’interno di un Partito Democratico devastato dagli ultimi mesi di scelte scellerate e assai poco rivitalizzato dalla cura Gerovital di Enrico Letta, soprannominato nel frattempo "l’uomo del governo senza fretta".
Tempi duri insomma e scelte difficili si impongono al giovane Renzi, che non conosce forse le citazioni di Craxi e nemmeno quelle di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che faceva dire al suo Gattopardo: “perché nulla cambi, tutto deve cambiare”. Il problema è che ormai è tardi anche per il trasformismo tradizionale della politica italiana, o questo sistema cambia davvero o non esplode soltanto lui, ma tutto il paese.

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