domenica 23 agosto 2015

L'Arma rottama il Comandante Ultimo

La notizia è passata completamente sotto silenzio. E c’è da credere anche che siano in pochi i cittadini di questa Italia distratta da vacanze che non conoscono crisi (ed ormai in connessione con se stessa soltanto tramite i rotocalchi del ventunesimo secolo, social network sempre più approssimativi se non deleteri come Facebook o Whatsapp) che ricordino o addirittura sappiano chi è Sergio De Caprio.
Eppure, se c’è qualcuno che ha meritato nella storia di questa disgraziata Repubblica il nome di “salvatore della patria”, o per lo meno della sua dignità – della sua “immagine”, come si dice adesso -, è stato proprio questo carabiniere che un giorno d’inverno di tanti anni fa fece quello che non si era mai ritenuto possibile. Catturò, nel paese che ha inventato la Mafia ed alla testa soltanto di un pugno di coraggiosi come lui, addirittura il Capo dei Capi.
Allora era più giovane, eravamo tutti più giovani. Ed anche speranzosi, dopo la “lunga notte della Repubblica”, come è stata chiamata da qualcuno. Era l’inizio di un anno nuovo dopo quello “horribilis” che aveva visto crollare la Prima Repubblica sotto i colpi di Mani Pulite e della propria corruzione (niente comunque a confronto di quello che sarebbe venuto dopo con la Seconda e la Terza) ed aveva visto crollare addirittura lo Stato sotto i colpi delle bombe di Capaci e Via d’Amelio. Nel 1992 l’Italia era ridotta ad una Colombia, ad un Libano qualsiasi, con rispetto parlando. Nel 1992, secondo la celebre frase di Tomasi di Lampedusa, tutto stava cambiando affinché niente veramente cambiasse.
Dopo aver sepolto anche il giudice paolo Borsellino, una parte di questo Stato ridotto ad un relitto alla deriva chiamò a raccolta le sue residue energie migliori. Il colonnello dei Carabinieri Mario Mori incaricò un giovane ufficiale dell’Arma di mettersi alla testa di una unità appena costituita appositamente (dal nome fortemente evocativo, CRIMOR) di dare la caccia e catturare il capo supremo di quella banda di Corleonesi che incredibilmente – ma neanche tanto – aveva messo in ginocchio una nazione.
La CRIMOR doveva combattere il crimine organizzato in silenzio, con pochi mezzi. E doveva ottenere risultati presto e bene, altrimenti il Belpaese quella volta non ce l’avrebbe fatta, dopo essere sopravvissuto ad altre crisi epocali come l’8 settembre e Via Fani – Via Caetani. Il giovane ufficiale, un militare (allora l’Arma faceva parte dell’Esercito e i suoi quadri uscivano dall’Accademia Militare di Modena) completamente fuori dagli schemi che tuttavia si era già distinto per coraggio e capacità, divenne famoso dopo quel fatidico 15 gennaio 1993 con il suo soprannome parimenti fortemente evocativo di Capitano Ultimo.
Come ha raccontato magistralmente Maurizio di Torrealta nel suo celeberrimo e ormai quasi dimenticato “L’uomo che arrestò Totò Riina”, De Caprio era un ammiratore degli Indiani d’America. La sua CRIMOR fu organizzata come una banda di apaches supertecnologici che compivano incursioni in un territorio in grandissima parte controllato da un esercito nemico, quello dei Corleonesi. Scelse di chiamarsi Ultimo perché fosse chiaro che non si considerava un eroe o un privilegiato, ma piuttosto l’ultimo dei servitori di questo Stato. L’ultimo e – aggiungiamo noi – il più bravo ed il più meritatamente fortunato.
Dall’estate 1992 al 15 gennaio 1993, la squadra di Ultimo scoprì due cose: che il Capo dei Capi aveva sempre vissuto indisturbato nel centro di Palermo (da cui faceva la spola senza problemi verso i suoi possedimenti corleonesi); e che il suo punto di forza – il mischiarsi senza problemi alla gente di Sicilia – era anche il suo punto debole. Lo catturarono in città a due passi dall’abitazione in cui soggiornava, come un clandestino qualsiasi. Un’operazione incredibile nella sua semplicità, per la quale tuttavia c’erano voluti una determinazione ed un coraggio senza precedenti nella storia repubblicana.
Per qualche anno dopo la cattura di Riina la storia di Ultimo, per quanto la sua identità fosse comprensibilmente secretata (la Mafia l’aveva condannato a morte al pari di quei Falcone e Borsellino a cui lui aveva reso giustizia), fu alla ribalta delle cronache. Il capo apache prestato all’Arma dei carabinieri affrontò Cosa Nostra sul terreno più e più volte. Poi, con l’attenuarsi delle luci della ribalta, arrivarono anche i “corvi” che avevano tradizionalmente rappresentato i temibilissimi avversari interni di chiunque aveva cercato di combattere seriamente il crimine organizzato.
Mario Mori
Mentre assieme al Colonnello Mori doveva discolparsi delle accuse infamanti del pentito Massimo Ciancimino, figlio di quel Vito che ormai tutti sanno essere stato uno dei principali referenti politici di Cosa Nostra in Sicilia, il Capitano Ultimo nel frattempo divenuto maggiore capiva che il suo tempo nell’isola era scaduto. Non per la condanna decretatagli dalle Cosche, ma per quella più subdola maturata contro di lui all’interno del suo stesso apparato, della sua stessa gente: la squadra che doveva difendere e ristabilire la giustizia.
Nel 2000, De Caprio chiese ed ottenne il trasferimento al NOE, Nucleo Operativo Ecologico. Di questa struttura era divenuto vicecomandante, con il grado di colonnello. Tanto per non smentirsi, per dirne solo una nel 2013 aveva partecipato all’arresto di Giuseppe Orsi presidente di Finmeccanica accusato di corruzione internazionale, concussione e peculato. La vicenda è quella della vendita di elicotteri al governo indiano. Il quadro, molti sostengono, è quello di un altro contenzioso con il paese asiatico che da tre anni tiene con il fiato sospeso quel che resta dell’opinione pubblica italiana. Interessi enormi, innominabili ed incontrollabili.
Probabilmente fu allora che, come il commissario Corrado Cattani della Piovra o come il Raul Bova che l’aveva così brillantemente interpretato sul piccolo schermo, il Comandante Ultimo fece un passo di troppo, quello oltre il quale non gli sarebbe stato consentito di andare.
Ecco quindi datata 4 agosto 2015 la lettera a firma del generale comandante dell’arma dei Carabinieri Tullio Sette con il quale viene disposta la sua rimozione da qualsiasi incarico operativo presso il NOE, pur mantenendogli l’incarico (puramente formale) di vicecomandante. “Normale avvicendamento strategico”, è stata definita questa disposizione dallo stesso Comando dell’Arma. Come dire, hai in squadra Leo Messi ed a partita (durissima e delicatissima) in corso lo sostituisci con un medianaccio da “palla o gamba”. E questo lo definisci un normale cambio tattico.
La notizia è trapelata soltanto il giorno 21, secondo lo stile di un paese dove le cose più strane, chiamiamole così, si fanno sempre mentre la gente è al mare (non che quando è in città stia più attenta a quello che succede e che la riguarda). Tutto cambia perché niente cambi davvero, come diceva il Principe di Salina nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
«Come soldati, come carabinieri, dobbiamo eseguire gli ordini anche quando a volte non si capiscono e non si condividono (….) Da Ultimo – si legge nella sua lettera di commiato al suo reparto – vi saluto nella certezza che senza mai abbassare la testa, senza mai abbassare lo sguardo e senza mai chiedere nulla per voi stessi, continuerete la lotta contro quella stessa criminalità, le lobby e i poteri forti che la sostengono e contro quei servi sciocchi che, abusando delle attribuzioni che gli sono state conferite, prevaricano e calpestano le persone che avrebbero il dovere di aiutare e sostenere». 

Arrivederci Comandante Ultimo, e buona fortuna. C’è ancora una parte di questo sciagurato paese che si ricorda di dovere soltanto a lei ed a pochi altri il fatto di potersi ancora chiamare italiani senza vergognarsi. O almeno senza vergognarsi tropp­­o.

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