giovedì 13 ottobre 2016

Morte accidentale di un teatrante, addio Dario Fo



Era un GiorgioAlbertazzi a rovescio, Dario Fo, figlio di un capostazione della provincia di Varese con l’hobby del teatro popolare, così come la madre. Scomparso stanotte a Milano, ultimo di una lunga lista che fa di questo 2016 un annus horribilis per l’arte e la cultura italiana e mondiale.
Dario Fo, come Albertazzi, dovevi amarlo o detestarlo soltanto per le sue capacità artistiche, lasciando perdere le idee e le posizioni politiche passate e presenti. Come Albertazzi, da ragazzo aveva scelto di rispondere alla chiamata alle armi della Repubblica di Salò. Come Albertazzi, non l’aveva mai nascosto, senza vantarsene né pentirsene. Diversamente da Albertazzi, era poi passato nel campo opposto dopo la Liberazione. Dall’Esercito Nero al Soccorso Rosso, in cui aveva militato fino agli Anni di Piombo.
Le passioni del ventesimo secolo stentano a stemperarsi ancora agli inizi del ventunesimo. Così, nell’ora del cordoglio, infuria ancora la polemica tra il Rosso e il Nero. Fu Oriana Fallaci a riesumare i trascorsi repubblichini di Dario Fo nella Rabbia e l’Orgoglio, nel contesto polemico della sua strenua opposizione alla sinistra di regime che l’aveva messa al bando una volta scopertala non malleabile da parte dell’antiamericanismo e antioccidentalismo imperante. Tra l’altro, Oriana accusò Dario di aver portato nella militanza rossa la stessa violenza (quantomeno verbale) che aveva sfoggiato in quella nera. Il fascista rosso aveva rimpiazzato il fascista nero.
In realtà, Oriana rinverdiva polemiche già scoppiate in modo assai virulento fin dagli anni Settanta, quando l’autore ed attore varesino era stato costretto a ricorrere addirittura alle vie legali per tutelare un nome che stava ritornando importante, dopo il suo rientro in RAI ai tempi di Mistero Buffo intorno al 1975.
Dario Fo era un uomo di teatro. Un guitto, come si definiva lui stesso. Come gli Albertazzi, i De Filippo, i Lawrence Olivier, i Kenneth Branagh. Nessuno ricorda più grazie a Dio come la pensava Shakespeare sugli eventi del suo tempo, se non per quanto attiene alla poetica che emerge dalle sue opere immortali. Un giorno, la quiete del giudizio artistico separato da quello storico personale toccherà anche a Dario Fo.
Nei primi anni cinquanta il giovane Fo incontrò il teatro popolare a cui lo destinava la tradizione di famiglia, compiendo peraltro un rapido excursus dalle Case del Popolo alla RAI. Che tollerò i suoi testi troppo impegnati a sinistra e la sua satira antigovernativa fino a quella fatidica Canzonissima del 1962 che decretò la fine della sua carriera presso la TV pubblica. Nel frattempo, Dario aveva incontrato anche la sua anima gemella, la collega Franca Rame, dalla quale aveva avuto il figlio Jacopo, che un giorno avrebbe incrementato la tradizione artistica familiare.
Franca Rame e Dario Fo ai tempi di canzonissima del 1962
In televisione sarebbe tornato nel 1975. ma prima, avrebbe legato il suo nome a quel Morte Accidentale di un Anarchico che indirizzò fortemente l’opinione pubblica, a proposito della Strage di Piazza Fontana, in senso nettamente contrario alla figura del commissario Luigi Calabresi, da quel momento in poi ritenuto il principale responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli. Le conseguenze di quella pubblica condanna, purtroppo, sono note a tutti.
Dal Soccorso Rosso, l’organizzazione che forniva sostegno legale ed economico a quei compagni extraparlamentari che militavano nella galassia borderline con il terrorismo degli Anni di piombo, Fo tornò in RAI a furor di popolo con il suo Mistero Buffo. Lo spettacolo che l’ha consacrato come una leggenda del teatro mondiale, issandolo fino al Premio Nobel di vent’anni dopo.
La narrazione delle Cronache medioevali in quel buffo misto di dialetti padani chiamati grammelot e ispirati alla Commedia dell’Arte rinascimentale fu uno degli eventi culturali che fanno epoca, come le commedie dei fratelli De Filippo o il Vajont di Marco Paolini. Il teatro, dopo, non è più lo stesso. Soprattutto il teatro di ispirazione civile.
Dall’Azzeccagarbugli dei Promessi Sposi di Salvatore Nocita al Johan Padan a la descoverta delle Americhe, da quel momento in poi Dario Fo alternò la partecipazione alle grandi produzioni alla continuazione della tradizione teatrale popolare.
La motivazione del Premio Nobel per la Letteratura del 1997 fu: perché, seguendo la tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi. Quella volta, peraltro, Dario Fo fu più sobrio dei suoi augusti adulatori di Stoccolma (superati soltanto in seguito dagli Accademici della Sorbona di Parigi e dalla Sapienza di Roma), limitandosi ad un lapidario: «Con me hanno voluto premiare la gente di teatro».
Un giorno il pubblico ricorderà la gente, uomini e donne, di teatro per ciò che hanno rappresentato sul palcoscenico, dimenticando le loro passioni mondane e le idee, condivise o meno. Così, delle passioni fasciste, poi di quelle comuniste, poi alla fine – negli ultimi tempi – grilline di Dario Fo, non resterà nulla, com’è giusto che sia.
Fino a quel giorno, ti sia lieve la terra Dario Fo, maestro di grammelot.

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