domenica 8 gennaio 2017

L'ultimo Granduca

Era stato un socialista atipico, nel pensiero e nei modi. Il primo della sua generazione forse a capire la necessità di modernizzazione di un partito che ancora oscillava irrequieto e instabile tra esperimenti di centrosinistra e tentazioni frontiste.
Lelio Lagorio si è spento ieri a Firenze alla veneranda età di 92 anni. Era nato a Trieste il 9 novembre del 1925, ma aveva eletto il capoluogo toscano a sua patria d’adozione ed il P.S.I. a sua patria politica. Erano gli anni in cui Pietro Nenni e gli altri capi storici del socialismo italiano abbandonavano faticosamente, dolorosamente e non senza ferite profonde difficilmente rimarginabili, la strategia del Fronte Popolare con il Partito Comunista abbracciata nel 1948 e si volgevano verso quello che fu il primo e forse più importante dei compromessi storici del nostro dopoguerra, il centrosinistra con la Democrazia Cristiana che trasformò il vecchio partito massimalista in un partito di governo.
Nessuno meglio di Lagorio sembrava incarnare la nouvelle vague socialista. Negli anni in cui Nenni diventava il primo membro socialista di un governo nazionale italiano dopo il 1947, Lelio Lagorio diventava sindaco di Firenze raccogliendo la pesantissima eredità di Giorgio La Pira. Fu un mandato breve il suo, pochi mesi prima di cedere il testimone ad un altro sindaco leggendario: Piero Bargellini, il sindaco dell’Alluvione.
Ma bastò perché Lelio Lagorio si facesse conoscere come politico di rilievo e come signore dai modi distinti, un gentleman di stampo britannico del quale la nostra politica annoverava e annovera tutt’ora ben pochi esempi.
Il suo momento venne nel 1970. Una classe politica che cominciava ad annaspare contro i venti nuovi della contestazione e della sempre maggiore richiesta popolare di diritti civili e politici si trovò costretta a dare attuazione finalmente alla più disattesa fino a quel momento delle previsioni costituzionali: l’istituzione delle amministrazioni regionali.
La Toscana era una regione che si prevedeva rossa, ma le urne elettorali dissero che il P.C.I. da solo non aveva i numeri per raggiungere la maggioranza dei 50 consiglieri assegnatile dalla legge. Il P.S.I. si rendeva necessario a tale scopo, e si fece pagare il conto chiedendo la Presidenza della Regione. Sapendo di avere l’uomo giusto.
Lelio Lagorio fu il primo dei Presidenti della Regione Toscana, quando ancora non si chiamavano – né pretendevano di chiamarsi – governatori. E fu un grande Presidente, che operò nel periodo delicatissimo dei massicci e spesso caotici trasferimenti di competenze dallo stato (con i decreti del 1972 e del 1977) sotto l’impatto dei quali le neonate amministrazioni regionali potevano rischiare di affogare prematuramente. Lagorio fu – e resta a tutt’oggi – un modello ineguagliato, nemmeno per approssimazione, dai suoi successori. Tanto da meritarsi, unico, l’appellativo (assai evocativo e significativo da queste parti) di Granduca.
Il Granduca che siedeva a Palazzo Budini Gattai, allora sede della Presidenza quando gli uffici della Regione erano disseminati un po’ per tutta l’area urbana di Firenze, governò con saggezza e stile la costruzione della macchina amministrativa regionale scegliendosi i funzionari giusti tra la miriade che i trasferimenti statali riversava nel cosiddetto ruolo regionale.
Nel 1978, ritenuto esaurito il suo compito e sollecitato a sfide ancora più importanti dalla politica romana, rimise il suo mandato candidandosi alle elezioni politiche dell’anno successivo. Il suo posto fu preso da un altro socialista, Mario leone, che lo tenne fino al 1983, quando un P.C.I. il cui peso in Giunta Regionale era stato consistentemente aumentato dalle avanzate elettorali degli anni settanta e dalla crisi degli alleati socialisti (ma solo a livello locale, perché a quello nazionale già la rottura craxiana con i vecchi compagni si stava facendo sentire) lo reclamò per il suo candidato Gianfranco Bartolini, il presidente operaio.
A Roma, Lagorio trovò un clima favorevole alla ripresa di esperimenti di centrosinistra, grazie all’azione – come si è detto – di Bettino Craxi e di quella parte della D.C. che stava rigettando il compromesso storico con il P.C.I. Nel 1980, per la prima volta, un socialista si ritrovò affidato il delicatissimo Dicastero della Difesa. Ormai la N.A.T.O. riteneva ammissibile ai propri Sancta Sanctorum un esponente del P.S.I., tanto più se questo esponente era una persona del prestigio e della caratura di Lelio Lagorio.
Fu ministro della difesa con Francesco Cossiga, e insieme a lui affrontò la tempesta successiva alla strage di Ustica, a cui Cossiga non sopravvisse. Lui sì, restando in carica con Arnaldo Forlani e poi con i premier laici Giovanni Spadolini e Bettino Craxi. Durante il suo mandato, gestì altre situazioni difficili da par suo, come la crisi degli Euromissili in Sicilia, nonché la delicatissima fase di avvio delle prime missioni militari italiane all’estero con tutto il carico di implicazioni non soltanto psicologiche ma anche costituzionali, in un paese che dopo l’8 settembre 1943 si era fatto scudo dell’art. 11 della Costituzione ben al di là del suo dettato specifico.
Fu lui a ripristinare la Parata del 2 giugno come Festa della Repubblica, ed ancora lui a varare a Monfalcone la prima portaerei della Marina italiana, la Garibaldi. Fu lui a presiedere addirittura il Consiglio dei Ministri europei della N.A.T.O.
Fu lui, nel 1980 in Irpinia in occasione del terremoto a far fronte al quale non era stata ancora istituita la Protezione Civile, a gestire di fatto la macchina dei soccorsi mettendo in campo un Esercito che in quella circostanza fornì indubbiamente una delle sue immagini e prestazioni migliori.
Nel 1983, chiese ed ottenne da Craxi l’incarico al più tranquillo, almeno in apparenza, Ministero del Turismo e dello Spettacolo, dove nei tre anni successivi legò il suo nome ad una riforma del C.O.N.I. attesa da tempo immemorabile ed alla legge sul Fondo Nazionale per lo Spettacolo, destinata ad assicurare per molti anni l'attività delle istituzioni della musica, del cinema e del teatro.
Dal 1986 al 1988 fu membro del comitato ristretto della Camera dei Deputati  per i Servizi Segreti e per il Segreto di Stato, e in questa veste gli toccò relazionare sull’episodio di Sigonella in cui aveva avuto parte come membro del Governo. Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica per iniziativa del Presidente Sandro Pertini, la sua carriera politica si era di fatto esaurita con la Prima Repubblica. Negli ultimi anni si era dedicato all’attività di storico e di pubblicista. Aveva pubblicato di recente L'Esplosione: storia della disgregazione del PSI e le sue memorie come Ministro della Difesa, L'Ora di Austerlitz.

La Toscana che da tempo ha smesso di essere il Granducato dice addio al suo ultimo Granduca. Della sua opera, consegnata ormai alla storia, non rimane pressoché niente nelle stanze sia della Regione che del Comune di Firenze. Tutto spazzato via dall’opera di successori difficilmente paragonabili a questo gentleman illuminato che aveva retto il timone della pubblica amministrazione locale in un età difficile, ma in cui ancora ci si illudeva che i grandi cambiamenti, se ben governati, potessero portare a grandi risultati.

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