martedì 14 febbraio 2017

La resa dei conti

Si apre il Direttorio del PD, e si rinnova il fenomeno Renzi. Lo vedi su quel palco in abbigliamento simil Marchionne, in tono apparentemente dimesso, e ti chiedi come abbia fatto questo omino che all’apparenza ha tutto meno che carisma e predestinazione a impadronirsi di un partito che si era magnato e digerito senza bruciori di stomaco eccessivi tutta una fila di leaders storici che veniva da assai lontano, molto più lontano di questo ragazzotto che nel curriculum aveva una comparsata da Mike Bongiorno e poco altro. Ad impadronirsi poi, tramite quel partito e le sue grandi e piccole manovre, di un paese intero, andando vicinissimo a cambiarlo, o per meglio dire a stravolgerlo, per sempre, irrimediabilmente.
Matteo Renzi sembra l’Uomo Qualunque. Un fenotipo, un mito a rovescio che esiste dal dopoguerra, da quando il giornalista Guglielmo Giannini fondò l’omonimo movimento, destinato ad un successo ben più sostanzioso di quanto non gli tributassero le sue fortune immediate ed effimere. Il segretario del PD, che potrebbe essere l’ultimo anche se Nostradamus non l’ha predetto, sembra proprio qualunque, che più qualunque non si può. Un ragazzotto fiorentino, il cui eloquio è ricolmo dei luoghi comuni, dei pettegolezzi, dei becerumi, degli intercalari di tanti ragazzotti fiorentini.
Diciamo la verità, Matteo Renzi dice poco di sinistra, per dirla con Nanni Moretti, ma dice poco in assoluto. Rimastica idee e programmi altrui, come quando nel 2009 fece propri quelli di Giovanni Galli nella corsa alla poltrona di Sindaco di Firenze, scippandogliela con gesto abile e premonitore. O come quando seppe indubbiamente interpretare il malpancismo della base PD prima e del paese intero poi, ai quali le uscite di Pierluigi Bersani, novello Don Peppone, non facevano più neanche ridere, come ai tempi di Giovanni Guareschi e Gino Cervi. Ci voleva poco a vincere le primarie nel 2013, bastava non essere della vecchia guardia PD, quella che si era consegnata mani e piedi ai Napolitano, ai Monti, alle Fornero, alle Merkel.
E allora come te lo spieghi? Non è simpatico, non è intelligente (o almeno fa tutto per non esserlo), si circonda di Marie Elene Boschi, non ti propone niente che ti possa cambiare la vita in meglio, eppure dalla prima apparizione alla Leopolda fino al referendum del 4 dicembre scorso, post comunisti e post democristiani gli sono andati dietro compatti manco fosse la reincarnazione di Togliatti e De Gasperi messi insieme. Il paese si è lasciato abbindolare come i topi dietro al Pifferaio di Hamelin, manco avessimo trovato anche noi il nostro Tony Blair.
Matteo Renzi è un fenomeno difficile da comprendere. Le sue vicende personali l’hanno convinto di essere un uomo della provvidenza. Ogni tanto si affacciano nella storia d’Italia. Lui si è sentito tale, e per di più arrivato nel più giusto dei momenti giusti. E avendo la faccia tosta che ha, è riuscito – con linguaggio semplice, mimica ad effetto, improntitudine e mano lesta dal punto di vista della spregiudicatezza nel far proprio politicamente tutto ed il contrario di tutto, nonché, last but not least, l’appoggio di alcuni poteri forti che più forti non si può – a tirarsi dietro molti di più dei cittadini che risultano in quota al PD. Che non l’hanno mai potuto votare, grazie al suo mentore Napolitano, ma che per un certo periodo, una certa luna di miele, l’avrebbero sicuramente fatto. Prima che la bancarotta di stato, il Jobs Act e la costituzione cambiata con i punti del supermercato dispiegassero i loro effetti.
Gli uomini della provvidenza, comunque, non si fanno da parte, non rimettono il mandato, non tornano come Cincinnato a coltivare l’orto, se ce l’hanno, o a mandare avanti l’azienda di famiglia, se ne sono capaci. Matteo Renzi pare dimesso e casual come un Marchionne qualsiasi, mentre arringa il direttorio PD dal palco. E ti viene subito fatto di commettere il più grave degli errori: sottovalutarlo.
Come sempre, non ha nulla da dire, ma sa come dirlo. E soprattutto sa cosa fare. Del resto, non ci vogliono Metternich  o Bismarck, il gioco è semplice. Se si dimette, e poi il congresso gli rinnova la fiducia, ha stravinto ed è libero di condurre il partito ad uno scontro frontale con il resto del paese che l’aspetta al varco, ma che ancora non ha trovato un leader di caratura sufficiente da contrapporgli. Se si dimette, e poi dal congresso esce un partito spaccato in due come successe 96 anni fa a Livorno dove tutta questa storia è cominciata, ha vinto comunque, perché la minoranza PD non va da nessuna parte e al massimo può dedicarsi come Gianfranco Fini a coltivare proprie fondazioni più o meno cultural – nostalgiche. Lui invece screma il partito dagli avversari e può tentare di ripresentarlo come il partito della patria, Matteo Renzi per salvare l’Italia. E ritentare la sorte al cospetto dell’italiano medio, che su certi carri ha sempre la tentazione di saltarci. Confidando che nel frattempo la magistratura alta e bassa gli abbia reso il servizio di sbarazzarlo di Cinque Stelle, leggi elettorali a questo punto scomode, e quant’altro la società civile ha faticosamente elaborato in termini di anticorpi all’unico vero populismo che si è affacciato alla ribalta negli ultimi anni: il suo. E confidando anche in un panorama dei mass media quasi completamente arruolato o asservito, e pronto a ridipingere il suo carro come quello del vincitore, appena gira il vento.
E mentre tutti si chiedono se era giusto che vincesse Fiorella Mannoia al Festival di Sanremo, se c’era il rigore per la Juventus domenica scorsa, o si distraggono dietro la patata bollente della Raggi o la ipotetica candidatura di Laura Boldrini alla guida della sinistra unita (non siamo così fortunati, purtroppo, almeno non coloro di noi che vorrebbero vedere un’Italia senza PD prima di morire), lui si presenta dimesso, ferito e pronto al passo indietro. Che come tutti sanno, è il primo passo della rincorsa in avanti.

La provvidenza segue percorsi strani, tortuosi a volte, e imperscrutabili. E i suoi uomini non si fanno mai da parte, non rimettono mandati. La Storia finisce sempre con loro.

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