venerdì 8 gennaio 2016

Guido è andato a dirigere il centralino del Paradiso

Quand’io l’ho conosciuto, o inizio a ricordarlo, non era già vecchio. Anche se i suoi capelli precocemente imbiancati potevano farlo sembrare. Non aveva avuto una vita facilissima, come molti ragazzi del dopoguerra. Si era fatto da sé, Guido. Completamente. E se aveva un difetto – o magari un pregio, per quello che può valere il mio giudizio – era quello di pretendere dagli altri né più e né meno che quello che aveva preteso da se stesso.
Dove lavoro io, era diventato una istituzione, una leggenda. E incuteva rispetto, se non addirittura timore, anche a molti che erano arrivati più in alto di lui almeno in apparenza. Passare da bischeri con Guido Capperucci era questione di un attimo, tu fossi usciere o presidente, se non eri sicuro di quello che dicevi quando parlavi con lui.
Operaio, infermiere, poi centralinista. Era diventato lui il "signore" del centralino della Regione Toscana. Da autodidatta. E quando venivano gli ingegneri della Telecom a proporre qualche soluzione tecnica, finiva che prima si levavano il cappello e poi stavano in silenzio a sentire come avrebbe fatto lui. Che della sua centrale telefonica conosceva vita, morte e miracoli. Ne conosceva “l’anima”, come si trattasse di un altro figlio oltre a quelli che aveva. E dei quali parlava sempre con orgoglio.
Non sopportava chi non valeva niente. Per questo mi provai a dirgli che era andato in pensione al momento giusto, perché ormai la Regione Toscana – da cima a fondo – è piena zeppa soprattutto di persone, donne e uomini, che niente appunto valgono. E quella volta, la prima e l’ultima, mi dette ragione senza discutere. Era il primo a sapere che il suo tempo, il tempo del merito, era irreparabilmente finito.
Non sopportava i figli d’arte. Io, che almeno teoricamente lo ero, dovetti lottare allo spasimo per conquistarmi il suo rispetto e la sua stima. Malgrado mi conoscesse fin da ragazzino. Malgrado avesse avuto amicizia ed affetto per mio padre. Ma il lavoro era un’altra cosa. E quando un capo settore in vena di esperimenti mi mise a lavorare a fianco a lui – io che ero il “laureato” e lui che era venuto su dalla gavetta, io l’apprendista e lui l’uomo che malgrado avesse fatto (come era solito dire) soltanto “la terza media al buio” aveva da insegnare più sul lavoro, su qualunque lavoro, più di un manager formato alla Bocconi – mi fece senza immaginarselo un regalo inestimabile.
Fu dura lavorare con Guido, ancora più dura dimostrargli quello che valevo e tirargli fuori ogni giorno di più qualcuno dei suoi “segreti” del mestiere. Posso dire soltanto due cose. La prima è che ce l’ho fatta, e me ne accorsi quando cominciò a trattarmi non più da ragazzo ma piuttosto da uomo. La seconda è che dopo mio padre è stata la persona da cui ho imparato di più. Se oggi sono appunto diventato un uomo vero, lo devo parecchio anche a lui.
Non l’ho mai ringraziato. Non me l’avrebbe permesso. Non era il tipo d’uomo che si perde in nostalgie da ricchi, e andava per la sua strada senza sforzo. Mi viene facile prendere a prestito le parole della più bella canzone di Francesco Guccini. Perché Guido era come Amerigo. La storia migliore del nostro ventesimo secolo.
Come mio padre, se l’é goduta poco quella pensione che si era meritato come pochi altri. Quest’anno non l’avevo sentito, avevo mancato la consuetudine della telefonata il primo dell’anno, giorno del suo compleanno. Ho pensato la stessa sciocchezza di sempre: tanto ci sarà tempo per recuperare.
Era già condannato e non lo sapevo. Avrei voglia di piangere. Eppure sento che se lo facessi verrei meno a uno degli insegnamenti più importanti che ho avuto da quest’uomo. Non si piange. Mai. E se proprio si deve, lo si fa da soli. Quando non ci vede nessuno. Quando il dolore può essere soltanto nostro. Poi si stringe i denti e si prosegue. Finché non verrà il tempo, in faccia a tutto il mondo, per rincontrarsi.

Addio amico Guido. Quel tempo verrà prima o poi. Nel frattempo, che ti sia lieve quella terra da cui venivi e di cui – come molti miei cari - eri rimasto profondamente orgoglioso. 

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