domenica 3 aprile 2016

La "razza Piave" non c'é più

Quando debuttò con la maglia della squadra della sua città natale – era il 1953 -, la Triestina giocava nella serie A italiana ma Trieste non era ancora stata restituita all’Italia dall’amministrazione alleata che la governava dalla fine della guerra. Sarebbe ritornata a sventolare il tricolore l’anno seguente, mentre il giovane Cesare Maldini, dopo appena un anno di militanza si metteva al braccio la fascia di capitano della squadra dell’alabarda.
Erano gli anni d’oro di Nereo Rocco, che aveva portato la squadra giuliana ad un prestigioso secondo posto nel 1948, brevettando un sistema di gioco destinato a fare scuola e ad avere gran fortuna in Italia, propiziando successi prestigiosi della Nazionale e dei club: il catenaccio. Ai suoi difensori, il paron era solito predicare, “o palla o gamba, meglio se palla”.
Cesare Maldini, con quella faccia un po’ così da Walter Chiari prestato al calcio, era quello dei suoi giocatori che aveva assimilato maggiormente il verbo. Un duro di classe, che aveva seguito il suo mentore al grande Milan di Rizzoli ed alle cui fortune aveva contribuito in misura determinante. I rossoneri dominavano in Italia ed in Europa, costretti rispettivamente solo dalla Fiorentina nel 1956 e dal Real Madrid nel 1958 alla sconfitta. Una sconfitta quest’ultima di cui si sarebbero rifatti a Wembley nel 1963, con il capitan Cesare Maldini saldamente in comando della sua difesa. Davanti, all’epopea del Gre-No-Li era succeduta quella di Gianni Rivera. Dietro, comandava ancora lui, affiancato nel frattempo da altri campioni del calibro di Trapattoni e Radice.
Santiago Bernabeu, Madrid, 1982
Aveva avuto tanto dal calcio giocato Cesare, e tanto ancora doveva avere una volta sedutosi in panchina. Da vice di un altro razza Piave, il quasi conterraneo Enzo Bearzot (per lui e non solo per lui “el vecio furlan”), aveva alzato la Coppa del Mondo al Santiago Bernabeu di Madrid nell’82. Dieci anni dopo in Svezia aveva vinto il primo trofeo continentale da commissario tecnico dell’Under 21.Il primo trionfo di un trittico prestigioso e fino ad ora ineguagliato che l’avrebbe portato a bissare il successo in Francia nel 1994 e poi in Spagna nel 1996.
Le sue squadre giocavano come Rocco aveva insegnato a giocare a lui. Palla o gamba, poi palla lunga e pedalare. Quando ormai il mondo del calcio tentato dall’onda lunga della rivoluzione olandese e dalle sirene sacchiane storceva la bocca di fronte al catenaccio di scuola italiana, lui proseguiva – vincendo – per la sua strada. E quando nel 1996 la precoce eliminazione dall’europeo inglese convinse la Federazione che le sirene sacchiane avevano cantato abbastanza, toccò a lui rispondere alla chiamata e prendere la Nazionale maggiore alla vigilia di un match decisivo in funzione della qualificazione ai Mondiali francesi del 98.
Padri e figli ancora piccoli
23 anni dopo Ferruccio Valcareggi, Cesare Maldini riportò gli azzurri a sbancare Wembley, ma stavolta in un incontro ufficiale che valse la qualificazione e la consacrazione per un tecnico che fino a quel momento aveva vinto tanto, ma fuori della luce dei riflettori. Cesare portò la Nazionale in Francia a testa alta, dopo uno spareggio drammatico in Russia risolto dal bomber Christian Vieri ed in mezzo alle critiche ed allo scetticismo dei puristi del calcio.
La sua Nazionale giocò un mondiale poco spettacolare ma comunque efficace. Se il triestino Valcareggi aveva dovuto risolvere la grana del dualismo tra Mazzola e Rivera, al triestino Maldini toccò quella tra Baggio e Del Piero. Con Pinturicchio che aveva preso il posto di Raffaello nella galleria juventina, e che scalpitava per fare altrettanto in quella azzurra, approfittando di un Baggio che non si era mai veramente ripreso dal rigore sbagliato a Pasadena almeno fino a quello trasformato nelle eliminatorie francesi contro il Cile, quando già la maglia di titolare era passata sulle spalle del più giovane e sponsorizzato collega.
Diatribe e polemiche a parte, gli azzurri di Maldini andarono ad un soffio dal fargli ripetere a Saint Denis il colpaccio che il capostipite della razza Piave Vittorio Pozzo aveva messo a segno nel 1938 a Marsiglia, eliminando i padroni di casa francesi dal loro mondiale. Roberto Baggio, messo dentro nei minuti finali, sfiorò di un millimetro la traversa con un tiro al volo spettacolare che se fosse entrato avrebbe valso all’Italia il golden gol (secondo la regola in vigore in quel momento e che era destinata ad essere fatale alla Nazionale azzurra in almeno un altro paio di circostanze successive). Ai rigori, toccò purtroppo a Gigi di Biagio il sergente ripetere l’errore fatale del Codino quattro anni prima, consegnando ai francesi il passaggio alla finale ed al titolo mondiale.
Padri e figli
Per i tifosi di Baggino, si trattò di un meritato contrappasso per un tecnico che aveva ignorato e negletto l’immenso talento del ragazzo di Caldogno. Per i puristi, per di più esterofili, si trattò di un opportuno “lasciare strada” a chi giocava meglio, nella fattispecie la Francia di Zinedine Zidane, con la quale peraltro avremmo aperto un conto destinato a saldarsi otto anni dopo a Berlino.
Per Cesare Maldini restò la soddisfazione di aver fatto il suo dovere e di aver portato l’Italia dove poteva arrivare e quasi quasi anche oltre. Là dove si erano fermati i predecessori Vicini e Sacchi, maledetti anche loro dalla lotteria dei rigori che aveva frustrato le speranze italiane in un decennio in cui ancora l’Italia dominava il calcio internazionale, a livello di nazionale e di club.
Alla soddisfazione per il suo lavoro di tecnico, si era aggiunta nel frattempo quella di padre, orgoglioso di aver visto il figlio Paolo ripercorrere le proprie orme a partire dalle giovanili del Milan e addirittura superarle. Come lui era stato la colonna portante del Milan plurivittorioso di Rizzoli, Paolo lo era diventato di quello di Berlusconi che arrivò con lui ad essere addirittura il club più titolato del mondo.
In nazionale, Paolo era entrato con Vicini nel 1988 all’Europeo di Germania e ne era uscito con Trapattoni allo sfortunato mondiale coreano del 2002 Per due anni era stato allenato da suo padre Cesare, tra l’europeo inglese ed il mondiale francese. A Seul padre e figlio si erano ritrovati di nuovo, uno allenatore del Paraguay sconfitto negli ottavi dalla Germania poi finalista, l’altro centrale della difesa battuta al golden gol da Ahn e soprattutto dall’arbitro Byron Moreno.
Wembley 1963
La famiglia Maldini aveva chiuso lì, padre e figlio avevano salutato il calcio mondiale al ritorno dall’Estremo Oriente. Cesare, ormai settantenne, si era dedicato a commentare le partite altrui. Nel 2012, alla veneranda età di ottant’anni (era del ‘32), si era ritrovato a fare il commentatore nientemeno che ad Al Jazeera assieme ad Alessandro Altobelli. Era stata la sua ultima apparizione calcistica in assoluto.
Se n’è andato stanotte, pare serenamente. La sua più grande soddisfazione, come aveva raccontato al Piccolo di Trieste tempo fa, la prima Coppa dei Campioni italiana alzata da capitano nel 63 a Wembley (“lì abbiamo fatto la storia”). Un solo rimpianto, invece. Come ammise tempo fa, a giocare quel famoso scopone con il Presidente Pertini e Bearzot avrebbe dovuto esserci anche lui. Non sapremo mai chi gli “rubò” il posto. Di sicuro sappiamo che se ne va l’ultimo epigono di una razza, quella Piave, che fece grande l’Italia, e non solo sui campi di calcio.

Oggi il Milan giocherà con il lutto al braccio. Sarebbe bene che tutto il calcio italiano, a qualsiasi livello, seguisse il suo esempio. Ne avrebbe ben d’onde.

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