martedì 21 gennaio 2014

RENZIADE: ITALICUM, Renzi e Berlusconi presentano la nuova legge elettorale


Abbiamo trascorso vent’anni a discutere, e in certi momenti a scannarci, su quale fosse il sistema elettorale migliore per un sistema politico ed un paese perennemente alla ricerca della propria identità e di una migliore funzionalità. Meglio il maggioritario secco anglosassone oppure i correttivi alla spagnola o alla tedesca corredati di sbarramenti vari, o meglio ancora il doppio turno alla francese. Sapevamo soprattutto cosa non volevamo più: la vecchia legge elettorale presentata nel 1946 da quel galantuomo di Ferruccio Parri, ultimo Presidente laico del Consiglio prima del quarantennio democristiano, che con il proporzionale aveva inteso permettere che tutte le forze politiche democratiche vissute in clandestinità nella lunga notte fascista e nei pericolosi anni della Resistenza potessero avere la loro esatta rappresentanza in Parlamento.
Quel sistema aveva consentito la nascita della Prima Repubblica, ma ne aveva alla fine provocato anche la morte. Il sistema dei partiti, la cosiddetta Partitocrazia, aveva sguazzato nella palude proporzionalista, dove liste che non raggiungevano neanche l’1% dei seggi a disposizione risultavano a volte essere l’ago della bilancia, con conseguente ingovernabilità e incentivo massimo alla corruzione. Il referendum del 1993, tenutosi sull’onda di Mani Pulite e della fine della maggior parte dei vecchi partiti usciti dalla Resistenza partigiana, disse chiaramente che gli italiani quel sistema non lo volevano più.
Toccò al senatore Sergio Mattarella, uno degli ultimi notabili di quella Democrazia Cristiana che di lì a poco avrebbe esalato l’ultimo respiro e attuale membro di quella Corte Costituzionale che di recente ha di nuovo mandato a monte le regole del gioco elettorale, presentare la legge che Giovanni Sartori gli avrebbe intitolato, come si usava nell’antichità con gli Eponimi, i funzionari pubblici che essendosi particolarmente distinti finivano a dare il nome ad una legge o ad un particolare periodo in cui erano stati in carica. Il Mattarellum si inchinò alla volontà maggioritaria del popolo italiano, fino al 75% dei seggi. Il restante 25% il vecchio democristiano non resistette a dirottarlo su una quota proporzionale superstite, che nelle intenzioni sue e dei suoi colleghi di tutto l’arco costituzionale di allora doveva assicurare la sopravvivenza – o almeno un pronto ritorno in auge – della vecchia nomenklatura della prima Repubblica.
La Seconda Repubblica ne risultò ingovernabile quasi quanto la Prima. Tanto che l’uomo politico più carismatico di quegli anni, Silvio Berlusconi, poté affermare alla fine del suo lungo periodo di leadership di “non aver avuto i numeri” per attuare molte delle riforme da lui e dalla sua parte politica auspicate, anche quando aveva maggioranze apparentemente di tutto rispetto. E’ un fatto che nel Parlamento sia di centrodestra che di centrosinistra erano rappresentate più forze politiche di quante ce ne fossero mai state ai tempi dei governi di Pentapartito a guida D.C., il record massimo fu di quattordici, alla faccia del Maggioritario. Il primo governo Prodi si reggeva su un voto di maggioranza in senato, che rendeva fondamentale la presenza in aula di prestigiosi quanto attempati senatori a vita di dichiarata ispirazione di centrosinistra.
Nel 2005, dopo vari tentativi infruttuosi bicamerali e bipartisan di riforma della carta costituzionale e di leggi fondamentali quale quella appunto elettorale, la maggioranza di centrodestra decise di agire per conto proprio, anche nella prospettiva di una probabile affermazione dell’opposizione alle elezioni successive, intendendo così consegnarle nelle mani uno strumento governativo difficilmente agibile. In sostituzione del Mattarellum venne quindi approvata la legge 270/2005, presentata dal senatore leghista Calderoli, non proprio un costituzionalista. Dovendo nobilitarla con un latinismo come ormai consuetudine, non si trovò di meglio che rifarsi alla stessa definizione con cui Calderoli aveva battezzato la sua creatura appena nata: “E’ una porcata”, disse il novello papà. E da allora la legge fu il Porcellum.
Liste bloccate redatte dalle segreterie di partito, premi di maggioranza assegnati su base regionale senza alcun criterio di insieme e senza logica né politica né tantomeno democratica, insieme ad altre amenità per farla breve hanno prodotto un sistema elettorale dove chi vince alla Camera difficilmente vince anche al Senato (se non per la solita manciata di voti risicata dio solo sa come nello scrutinio delle ultime schede, quelle dei residenti all’estero o quelle dei soliti seggi ritardatari – manco a farlo apposta – di Roma e dintorni).
Il gioco, per quanto difficile, ha retto bene o male un paio di soffertissime (per gli italiani, non certo per i loro rappresentanti) legislature. Per saltare definitivamente nel 2013 allorché è entrata in un Parlamento fino allora bipartisan - anche se a livello di coalizioni - la proverbiale terza forza incomoda, quel Movimento 5 Stelle che ha costretto la classe politica più riottosa e neghittosa della storia europea recente a fare i conti con una nuova marea popolare montante, di quelle che in Italia con alterne fortune si affacciano a scadenza più o meno ventennale.
Ecco dunque il gioco delle parti. Il Presidente della Repubblica incarica un governo di coalizione, di “larghe intese” tra destra e sinistra, di insediarsi a Palazzo Chigi a condizione di fare riforme che nessuno in realtà ha voglia di fare, e non consente di fatto alternative a quel governo minacciando di dimettersi (il che, come si è visto nei giorni delle votazioni per la sua successione, sarebbe esiziale per almeno due dei tre partiti rappresentati in Parlamento). E’ un’impasse che fa rischiare l’osso del collo al Paese, alla sua economia ed in ultima analisi alla sua stessa democrazia.
Finché a fine 2013 succedono due cose. Dapprima viene fatto accomodare fuori dal Parlamento il leader del centrodestra, perché ci si accorge dopo vent’anni che era incompatibile con la rappresentanza politica. Poi viene fatto accomodare alla segreteria del maggior partito di centrosinistra il sindaco di Firenze, dopo averlo osteggiato in ogni modo negli anni precedenti ed essersi poi resi conto che si è trattata – ci si perdoni il termine fantozziano – una boiata pazzesca.
Il vecchio e il nuovo leader, ambedue a vario titolo desiderosi di riprendere o rafforzare una leadership su un sistema in cui peraltro restano ormai come le uniche due figure politiche che hanno un appeal sulla gran massa dell’elettorato (se si esclude quel Beppe Grillo che ha rinunciato in partenza alla rappresentanza e ad altre cose che ne farebbero un capo politico di ben altro spessore), ci hanno messo poco più di un mese a spazzare via rispettivi tabù che duravano dalla notte dei tempi e a trovare un accordo politico fondante, l’unico peraltro possibile.
Secondo le parole di Renzi, che Berlusconi ha pubblicamente sottoscritto, avremo dunque l’Italicum. Maggioritario con premio al partito o alla coalizione che superano il 35%, la cui entità non può superare il 20% fino ad un complessivo 55%. Ballottaggio alla francese se nessuno supera quel 35%.  Soglia di sbarramento dal 5 all’8% (in caso di partito singolo o di coalizione) e liste ancora bloccate, ma a detta di Renzi non più decise dai vertici di partito ma da apposite primarie.
La reazione del Resto del Mondo, come possiamo chiamarlo con termine calcistico, è stata quella prevedibile. Much ado about nothing, come diceva Shakespeare, molto rumore per nulla. Dopo gli strepiti di Alfano e Lupi e le dimissioni di Cuperlo che doppiano quelle di Fassina, sta rapidamente arrivando il tempo dei “più miti consigli”. Quei due, il vecchio e il giovane, andranno a dritto, forti di un consenso popolare che al momento non è contrastabile. Metteranno con le spalle al muro i rispettivi e infidi apparati di partito e quel Movimento 5 Stelle che ha sprecato l’occasione storica di guidare il cambiamento.
Non moriremo Porcellum. Avremo l’Italicum, e forse chissà, non moriremo neanche. Di sicuro questa è l’ultima chance per la nostra Repubblica, qualunque numero essa avrà.

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