giovedì 10 ottobre 2013

Tragedie di mare e di terra

Di questa straziante tragedia del mare (siamo a 280 bare allineate nell’hangar dell’aeroporto di Lampedusa) l’immagine simbolo, quella che rimarrà nella memoria collettiva come sintesi di questo nuovo calvario delle nostre coscienze italiane è quella del poliziotto che trattiene a stento le lacrime davanti alle telecamere, mentre è in servizio di sorveglianza a fianco di quelle bare.
E’ difficile per tutti trattenere la commozione, in questo momento. Dentro quelle casse ci sono i resti di uomini, donne e soprattutto bambini, le cui vite sono state stroncate nel modo più atroce dall’ultima in ordine di tempo e più allucinante in ordine di gravità sciagura provocata dal naufragio di uno dei barconi che, possiamo dirlo, ormai fanno servizio di linea tra il Nord Africa e Lampedusa, avamposto dell’immaginario El Dorado italiano per queste persone che vi si accalcano sopra affrontando i rischi di un viaggio pericolosissimo, oggi come ai tempi dell’Odissea.
E’ difficile ragionare, sotto l’influsso dell’emozione che provoca la vista di quelle bare. Dentro una di esse, una madre con il bambino appena partorito negli ultimi istanti di vita. Non hanno neppure separato il cordone ombelicale, resteranno così per l’eternità. Senza nome, però, come tutti gli altri. Non c’è una anagrafe funzionante nella maggior parte dei paesi di origine di queste povere salme. Non ci sono registri di bordo sui barconi di quei commercianti di false speranze che sono gli scafisti, i negrieri dell’età moderna.
Eppure, una volta celebrati i funerali di Stato, la cerimonia con cui la nazione italiana tributerà l’ultimo omaggio a persone che credevano di venire qui da noi a trovare la soluzione ai loro problemi e invece hanno incontrato una fine orribile (che impedirà loro tra l’altro di scoprire amaramente che qui al massimo di problemi venivano a trovarne altri, di diverso tipo), una volta scontate tutte le strumentalizzazioni che la politica nazionale ed europea sta operando cinicamente a carico di questa sciagura e dell’inevitabile strascico emotivo lasciato tra la popolazione, bisognerà finalmente guardarci negli occhi e parlarci molto chiaramente, noi italiani, perché a prescindere da questa ultima tragedia le cose sono arrivate ad un punto oltre il quale non si può più andare avanti.
Con la consapevolezza di essere da soli, peraltro. L’Europa ha già risolto il problema dell’immigrazione, rispolverando in ciascuno dei suoi stati membri la sovranità nazionale, ivi compresa la facoltà di chiudere più o meno “garbatamente” le porte all’immigrazione dal Terzo, Quarto e Quinto Mondo. L’Italia, che una sovranità nazionale reale non l’ha mai avuta ma che in compenso ha il maggior tratto di coste esposte agli sbarchi dal mare di tutto il territorio continentale, si sta facendo trovare da anni a brache calate, divisa al suo interno, con idee contraddittorie circa l’accoglienza (per non parlare dell’asilo politico) e senza un governo degno di questo nome in grado di affrontare questo o qualsiasi altro problema come non solo Dio ma anche gli uomini (che lo eleggono) comanderebbero.
La gente di Lampedusa che ieri fischiava la proménade indigesta di Barroso e Letta ha interpretato il sentimento di una nazione, disgustata dall’essere costretta a subire quotidianamente quella che quando va bene si configura come una vera e propria invasione, senza regole e senza prospettive (per noi italiani e per gli extracomunitari), quando va male sfocia in episodi come questo, che la vox populi adirata non ha avuto peraltro torto a definire un “assassinio”.
Altro che “inadempienze”, caro presidente Letta. Qui siamo al marasma totale. Il “politicamente corretto” che è tanto in voga da vent’anni a questa parte scaglia anatemi su chi si prova a contestare il teorema in base a cui bisogna dare asilo politico ed accoglienza a chiunque, perché lo vuole la nostra Costituzione. E’ un mantra, come l’altro recitato da anni, “lo vuole l’Europa”. In questo caso l’Europa se n’è fregata, stando a vedere come se la cavavano gli italiani con i loro governicchi. Oppure ha fatto scelte politiche anche legittime, tanto che adesso il governo francese può permettersi addirittura di invocare una messa in mora per l’Italia (con relative sanzioni) per aver causato in ultima analisi questa tragedia con la sua assenza di controllo: politico, giuridico e di polizia.
Dall’altra parte del mondo, l’Australia – il paese che più civile ed avanzato non si può, patria storica dell’accoglienza e delle opportunità di rinascita “altrove”, per di più attualmente governato da una maggioranza laborista – ha recentemente votato un inasprimento delle regole per l’immigrazione, rafforzando tra l’altro la persecuzione del reato di clandestinità (quello che ieri sera il governo italiano, sulla spinta di vari settori più o meno in preda all’isteria dell’opinione pubblica, ha deliberato di cancellare con proprio decreto). Funziona così: se vuoi entrare nel Paese dei Canguri, ti presenti a Christmas Island, un isolotto a 500 km al largo di Giakarta e a 2.000 km dalla costa australiana, dove la tua domanda di immigrazione viene esaminata. Non ti provare a sbarcare sulle coste della madrepatria senza autorizzazione, perché come ha ribadito di recente il primo ministro laburista Kevin Rudd nessuno sbarco di questo genere sarà tollerato. E in un paese di cultura anglosassone sappiamo bene cosa questo possa comportare.
Negli Stati Uniti Ellis Island è stata chiusa da tempo, ma provatevi ad entrare, o a rimanere una volta entrati , senza visto di ingresso o permesso di soggiorno. In Europa, provatevi a sbarcare non autorizzati nella penisola iberica o balcanica, o sulle coste francesi. Resta la penisola italiana, con l’avamposto di Lampedusa per chi vuole fare le cose secondo un minimo di procedura, oppure con qualunque altra località di approdo, che comunque non verrà impedito da niente o da nessuno. Allora come la mettiamo? Tutti cattivi, europei, americani, australiani, e noi siamo gli unici ad avere un cuore?
Che cuore è allora quello che lascia aperta la porta di un paese che non ha più di che sfamare, tra poco, i suoi stessi cittadini? Un paese che ha una sola inadempienza nei confronti degli extracomunitari migranti, quella di non dire chiaramente che qui l’economia è a rotoli, non c’è più trippa per nessun gatto, e che a sbarcare – superati i rischi di una traversata che dai tempi di Ulisse ha sempre riservato insidie, anche quando i marinai non sono pirati – si va incontro ad un avvenire “diversamente” incerto e comunque gramo, in centri di accoglienza dello Stato le cui condizioni sono altrettanto indegne di quelle delle carceri (lamentate recentemente dal presidente della repubblica), oppure in centri di accoglienza della criminalità organizzata.
Dice, ma la Costituzione, allora? Risposta: quanti sono i paesi in guerra o in preda a convulsioni politiche e sociali tali da giustificare l’invocazione della categoria giuridica dell’asilo politico? Pochi. Molti di più sono invece i paesi dove, o per effetto di “primavere arabe” sulla cui sollevazione sarebbe stato più opportuno riflettere prima o per effetto di strutturali, endemiche condizioni di vita primitive, le popolazioni hanno un tenore di vita quale nel nostro continente non ricordiamo più dall’epoca medioevale. Il processo storico di emancipazione e di progresso  normalmente i popoli lo affrontano secondo percorsi di cui non si possono saltare le fasi fondamentali, a pena di creare benefici effimeri per tutti e disastri sociali sicuri. Certo, la televisione mostra a questa gente la facciata di un nostro tenore di vita sicuramente più appetibile, ma non mostra né cosa c’è dietro in termini di consapevolezza e di progresso culturale né quanto sia diventato precario sull’onda di una crisi economica planetaria che rende tutto più difficile, se non impossibile.
Si può strepitare quanto si vuole, chiamare cattivi senza cuore leghisti come Salvini (peraltro uno dei più ragionevoli e responsabili) e farsi incantare da sirene quali le onorevoli Kyenge e Boldrini, che non hanno – senza con questo voler affermare nessun vilipendio – la più pallida idea di cosa vuol dire amministrare un paese come quello in cui rivestono la loro carica. Di cariche dello Stato ancora più alte, meglio non parlare, sempre per non incorrere in quello che qualche anima bella potrebbe interpretare come vilipendio.
Sta di fatto che esiste un solo precedente al periodo storico che stiamo vivendo. Era il quinto secolo dopo Cristo, quando la più grande società politica e civile dell’Antichità collassò rovinosamente, per il semplice fatto di non poter accogliere e dare sostentamento entro i propri confini alla marea di popoli che premevano per entrare nel “Limes” e diventare – con le buone o con le cattive – cittadini dell’Impero Romano. Malgrado i tentativi di integrazione, il risultato fu che quel mondo sparì nel giro di pochi anni, travolto da un corto circuito culturale ed economico senza possibilità di rimedio. Per ritornare a condizioni di vita paragonabili a quelle della civitas romana, la popolazione europea ci mise poi qualcosa come mille anni.

E’ difficile dirlo in questo momento, con negli occhi quelle 280 bare allineate nell’aeroporto di Lampedusa. Ma esistono tragedie ancora peggiori di quest’ultima che ha avuto luogo nel nostro mare e che ha ributtato sulle nostre coste quei poveri corpi. L’unica cosa sicura è che questa classe politica, che noi insistiamo a mantenere per acquiescenza o supposta convenienza, non ce ne risparmierà sicuramente neanche una.

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