sabato 8 marzo 2014

8 marzo, le donne dimenticate

 di Paola Stillo

Afghanistan, paese che evoca in molti immagini di guerra, di mine antiuomo, di terroristi, di Talebani dalle lunghe barbe, di bourqa azzurri al di sotto dei quali le donne vivono la loro “non condizione femminile”.
Eppure l’Afghanistan non è solo questo, è un paese ricco di storia e di cultura, di paesaggi magici nonostante la distruzione, dove ad ogni stagione dell’anno sembrano darsi ritrovo i più grandi pittori, da Van Gogh a Renoir, da Houssaki a Brugel in una gara interminabile di immagini e di colori. Di gente fiera e generosa, con un senso dell’umorismo che più di trenta anni di guerra non sono riusciti a spegnere.
La mia esperienza in questo paese è iniziata nel febbraio 2003 ed è continuata per altri quattro anni. Insieme ad una collega ostetrica ci siamo occupate dell’apertura di un ospedale materno infantile di Emergency a nord di Kabul, nella valle del Panjshir. Per poter capire almeno in parte il popolo afghano bisogna conoscere le sue vicende e la sua storia così drammaticamente crudele e sanguinosa.
Lavorare in questo contesto, soprattutto all’inizio, non è stato facile, anche se ormai questo paese e la sua gente sono entrati nei nostri cuori e nel lasciarlo parte di noi è rimasta nelle sue valli, con le donne e gli uomini che hanno condiviso insieme a noi questa meravigliosa esperienza.
I problemi che abbiamo dovuto affrontare sono stati molti sia dal punto di vista professionale e tecnico sia da quello umano e relazionale. Il lavoro più importante abbiamo dovuto farlo su noi stesse: formare donne afghane a prendersi cura di altre donne afghane, parlare loro di maternità e di sessualità. Per farlo, bisognava “capire”, uscire dal nostro vissuto di donne europee, emancipate, libere ma spesso frustrate, ed immergerci lentamente ma profondamente nella condizione femminile afghana.
Condizione precaria, caratterizzata da anni di guerra, da un sistema scolastico spesso inesistente, da un regime talebano che vietava alle donne il diritto di esistere, obbligate a nascondersi, a non uscire, a non lavorare. Ed è proprio con queste donne che abbiamo iniziato un periodo di formazione per l’assistenza di base ostetrica e neonatale.
Pur occupandomi da tempo di formazione di personale sanitario, mi sono resa conto per la prima volta che la definizione degli obiettivi formativi, così cari ai formatori, non può prescindere dalla trasmissione di valori e che questi ultimi non sono universalmente gli stessi.
Come si fa a parlare a queste donne della magia della maternità, di questo legame speciale che unisce madre e bambino ancora prima della nascita? Della preparazione al parto? Del prendersi cura del proprio corpo durante la gravidanza? Ma anche semplicemente del “prendersi cura”, del rispondere ai “bisogni della persona”!
Il “prendersi cura” per queste donne significa svegliarsi alle quattro del mattino, prendersi cura degli animali, raccogliere la legna ed accendere il fuoco, preparare da mangiare, raggiungere il fiume per raccogliere l’acqua, lavorare nei campi. Significa occuparsi degli anziani della famiglia (quella del marito), del marito, dei figli: figli ovviamente non desiderati o programmati, ma “dovuti”, e così è un susseguirsi di gravidanze, aborti spontanei e mortalità materna ed infantile tra le più alte al mondo.
Ancora oggi, la professione infermieristica si porta appresso un’immagine legata al femminile, al ruolo della donna nella cura e nell’assistenza, ma anche alla corporeità, perché è sul corpo, sui suoi vissuti e sui suoi prodotti che l’infermiere opera. Stranamente, ma neanche tanto se si pensa alla condizione di isolamento della maggior parte delle donne, il “mondo infermieristico” afghano è un dominio maschile. Nella cultura afghana, la corporeità e la fisicità sono vissute in maniera repressiva, basti pensare all’obbligo delle donne di coprirsi, ma anche agli stessi uomini ai quali è imposto ad esempio un abbigliamento che copra braccia e gambe ed ai bambini che seguono le stesse regole valide per gli adulti.
Ecco allora che diventa difficile “insegnare ad assistere” in un mondo di rigide regole comportamentali, che a volte si possono infrangere ma non si sa mai quando. Un uomo, in questo caso un infermiere, non può toccare una donna, ma questa regola non vale nel caso del pronto soccorso o della sala operatoria; eppure non può inserire un catetere vescicale o assistere durante un parto precipitoso o semplicemente eseguire l’igiene personale di una paziente allettata.
Vi è una netta separazione tra quello che è ospedale e malattia, e quindi sottoposto a concessioni, e quello che è normalità, vita quotidiana. La maternità, ovviamente e sfortunatamente, appartiene a quest’ultima sfera. Sfortunatamente perché non si possono infrangere le regole sociali, e così nel nostro ospedale non era consentito l’ingresso di nessun uomo se non per casi di emergenza, che diventavano “malattia”.
Trovare 32 donne con un minimo di istruzione (mediamente l’equivalente della nostra III media in termini di durata degli studi), iniziare con loro un percorso formativo che affrontava argomenti non di uso comune (ricordo come arrossivano tutte quando si parlava di mestruazioni), abituarle ad infrangere alcune regole (eseguire l’igiene intima, per esempio) è stata, non solo come formatore, una sfida.
Eppure lentamente, conquistando a poco a poco la loro fiducia, accendendo la loro curiosità ma soprattutto attingendo a quella complicità che nasce tra donne, fatta di affetto, di comprensione, di simpatia, siamo riuscite in un anno a formare un team capace di erogare autonomamente assistenza di base ostetrica, infermieristica e neonatale. La struttura ospedaliera era arrivata a visitare circa quattrocento donne al mese (visite prenatali e ginecologiche), con una media di settanta ricoveri e cinquanta parti al mese.
Il personale locale adesso è in grado di effettuare un triage ambulatoriale, prendersi carico della donna in travaglio e seguirla durante il parto, gestire il post-operatorio e la degenza ginecologica. Alcune di queste donne sono state addestrate da un’infermiera di sala operatoria e “strumentano” in maniera autonoma i principali e più frequenti interventi quali cesarei, isterectomie, raschiamenti. Dal giugno del 2003, quando la Maternità è stata ufficialmente aperta ad oggi, sono nati nel Panjshir circa ventiduemila bambini, una media di oltre duemila l’anno, e più di 175.000 donne si sono rivolte al Centro di Maternità per essere curate e assistite.
Quelle donne afghane che dal 2003 con determinazione e coraggio, superando numerosi ostacoli, hanno affrontato quell’esperienza formativa, hanno continuato nel loro cammino “rivoluzionario” contagiando così altre donne nell’acquisire il diritto ad essere curate, ascoltate, ad esistere!

Mi piace ricordare una frase citata da uno dei miei studenti del passato: “Chi educa un uomo educa una persona, chi educa una donna educa una generazione”.

Nessun commento:

Posta un commento