sabato 9 maggio 2015

V - Day, settant'anni dopo. Non è un'Europa per giovani

L’Unione Sovietica era più ad est degli altri Alleati. La resa della Germania nazista firmata dal generale Jodl a Reims nelle mani di Eisenhower fu comunicata all’Occidente alle ore 23,00 dell’8 maggio 1945. Per l’URSS erano già le prime ore del giorno 9. Per questo il V Day, il giorno della vittoria in Europa che poneva fine alla Seconda Guerra Mondiale, è il 9 maggio e non l’8.
Re Giorgio VI, Winston Churchill ed una giovanissima principessa Elisabetta
salutano la folla in festa per la vittoria l'8 maggio 1945
Finiva il massacro più abominevole dell’intera storia dell’Umanità. Nasceva, o poteva finalmente nascere, una nuova Europa. Chissà se quella che abbiamo sotto gli occhi settant’anni dopo assomiglia almeno vagamente a ciò che Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e gli altri confinati di Ventotene avevano immaginato e descritto almeno in embrione nel loro Manifesto del 1944, scritto quando ancora tuonava il cannone ma già si lavorava ad un assetto del mondo futuro che impedisse una volta per tutte il ripetersi dell’orrore scatenato da Hitler e dai suoi alleati e seguaci.
La festa di quella vittoria non si celebra più. E’ durata ancor meno di quanto durò quella della Prima Guerra Mondiale, sopravvissuta un po’ dappertutto almeno fino agli anni settanta. In Italia fu soppressa nel 1977 dal governo Andreotti, preoccupato della presenza nel nostro calendario di troppe festività, in epoca di austerity. La Seconda noi non l’abbiamo mai festeggiata, avendola terminata tecnicamente dalla parte degli sconfitti. A poco a poco anche i vincitori ci hanno raggiunti nella terra dell’oblio.
Piccadilly Circus, VE Day
Ad oggi, solo la Russia di Putin – per motivi peraltro che poco hanno a che fare con la celebrazione di quello che fu – ha solennizzato la ricorrenza di quella che per essa fu la Grande Guerra patriottica. Quella che fece di un paese sottoposto a cordone sanitario mondiale per la paura che contagiasse tutti con il suo virus letale, il Comunismo, la seconda superpotenza del pianeta, capace di tenerlo in scacco nella Guerra Fredda per i successivi quarant’anni. Quella che fece di Stalin da possibile concorrente di Hitler per il titolo di più grande boia di tutti i tempi il “piccolo padre” di tutti coloro che ai quattro angoli della terra sognavano il sole dell’avvenire e credevano che tutto il mondo sarebbe prima o poi diventato come l’Unione Sovietica.
Altiero Spinelli nel 1983 al parlamento europeo di Strasburgo
Sulla Piazza Rossa soltanto si celebrano dunque i settant’anni dalla resa del generale Keitel, il collega di Jodl recatosi nello stesso momento ad est, nelle mani del maresciallo Zukov, che disponeva il cessate il fuoco anche ad oriente dell’Elba. Com’è nata questa Europa non lo ricorda ne lo richiama alla memoria altrui più nessuno. Meno che mai alle giovani generazioni verso le quali il governo continentale istituito nel frattempo si è dimostrato sempre più patrigno, indifferente se non ostile.
Dal Trattato di Roma del 1957 che istituiva la Comunità Economica Europea a quello di Maastricht del 1992 che istituiva l’Unione Europea, la federazione sul modello degli Stati Uniti d’America che metteva in comune la moneta, l’economia, parte delle istituzioni politiche in attesa di avere a regime un unico governo sovranazionale, la storia d’Europa è stata quella dell’illusione di generazioni ormai invecchiate insieme alla speranza di aver trovato – come auspicavano Spinelli e gli altri di Ventotene – la soluzione definitiva a tutti i problemi ed a tutte le conflittualità che avevano gettato per due volte nel ventesimo secolo il continente nel fuoco e nel carnaio dei nazionalismi portati alle estreme conseguenze.
Tutto questo, insieme alla commozione per le vittime subite ed i sacrifici fatti settant’anni fa ed anche in seguito nonché all’orgoglio per certi versi giustificato per quello che siamo diventati adesso – da Lisbona a Vladivostok - , è qualcosa che dice poco a nuove generazioni il cui problema è trovare un posto, costruirsi un futuro in una società globale che ha già bruciato molte delle risorse a loro destinate e che ha ridotto le possibilità economiche necessarie al loro ingresso nel mondo del lavoro e della prosperità come nemmeno la guerra mondiale aveva fatto settant’anni fa. Nuove generazioni che, continuando il trend attuale, saranno portate inevitabilmente a vedere le precedenti non come maestre di qualcosa, custodi di tradizioni positive e gloriose, ma come ostacoli insormontabili sulla strada della sopravvivenza.
Se quest’epoca rischia di assomigliare a qualche altra, è più al primo dopoguerra che non al secondo. Il sogno di Spinelli e compagni appare assai lontano dall’essersi realizzato. Il nome stesso di quei confinati diventati i padri dell’Europa unita è soggetto ormai all’oblio, se non - in alternativa - a qualche futura maledizione. Il V Day, del resto nel nostro paese non è più associato a quel giorno in cui le radio di tutta Europa trasmisero l’annuncio che la guerra era finita, ma a quello molto più recente in cui un sedicente uomo politico locale lanciò il suo messaggio alle piazze, semplice, diretto e sintetico come pochi altri: “vaffa….”.

L’Europa unita era nata come risposta al Fascismo ed ai suoi orrori. Potrebbe diventare lo scenario più propizio ad una sua riedizione aggiornata ai tempi se continuerà ad essere governata sostanzialmente da una Banca Centrale Europea che come la vecchia Società delle Nazioni distribuisce solo ingiustizia e miseria. O da una Germania che ha dimenticato, o fatto finta di dimenticare, perché settant’anni fa a quest’ora era ridotta ad un cumulo di macerie fumanti.

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