venerdì 29 maggio 2015

GALLERIA VIOLA: Adiòs Petisso, sulla tua bara l'ultimo scudetto viola

E’ morto a Napoli, la città di cui tutti gli argentini si innamorano, prima o dopo Maradona. A Napoli aveva raggiunto il secondo posto da allenatore, il miglior risultato assoluto prima dell’avvento di Diego Armando. Da Napoli era poi arrivato a Firenze, nell’estate in cui Nello Baglini puntò tutto sulla ruota dell’imprevedibilità e del genio imprenditoriale. E vinse.
Per diversi anni la Fiorentina ye-ye di Giuseppe Chiappella aveva entusiasmato tifosi e addetti ai lavori, sembrando in grado addirittura di ripetere la favolosa epopea dei tempi di Befani. Poi, nel 1967-68 qualcosa si era inceppato nella linea verde e nel rapporto tra il soldatino di Rogoredo e l’imprenditore pisano dei colori. Beppe Chiappella aveva dato le dimissioni a metà di un campionato nato male e continuato peggio. Baglini aveva affidato la squadra a Luigi Ferrero, allenatore del Grande Torino che si era salvato dalla tragedia di Superga solo perché nel 1947 era venuto a Firenze ad allenare la squadra del Marchese Ridolfi. Assieme a lui, in panchina andò il compianto Andrea Bassi, allenatore emergente e gentleman per chi ha avuto l’onore di conoscerlo. Bassi e Ferrero fecero il miracolo di issare quella Fiorentina al quarto posto.
Poi in estate una nuova tempesta. L’anno prima Kurt Hamrin era andato al Milan in cambio di Amarildo. “Uccellino” a quell’epoca era il più grande centravanti del mondo, una specie di Batistuta dell’epoca (non a caso Omar Gabriel è stato l’unico a sopravanzare Kurt nella classifica dei marcatori viola di tutti i tempi). Nel 1968 anche l portiere della nazionale Enrico Albertosi ed il promettente attaccante Mario Brugnera partirono, destinazione Cagliari. Vox populi a Firenze dava la nostra squadra del cuore candidata sicura alla B, pazienza che fossero nel frattempo arrivati un certo Amarildo dal Milan (campione del mondo 1962 al posto di Pelé) ed un certo Luciano Chiarugi dalla Primavera.
Per rincuorare la piazza, o almeno provarci, Nello Baglini si tirò fuori dal cilindro il “Petisso”, il Piccoletto. Bruno Pesaola era uno di quegli argentini che si immaginano accompagnati dalla colonna sonora di un tango alla Astor Piazzolla. Sempre con la sigaretta in bocca, precursore del “Flaco” Cesar Luis Menoti, agli antipodi del fanatico connazionale Helenio Herrera (un Arrigo Sacchi sudamericano che allora andava per la maggiore grazie alla Grande Inter di Moratti padre). O del paron Nereo Rocco, il teorico di “o palla o gamba, meglio se palla”, che comunque era venuto a patti con il talento di Rivera e aveva vinto le prime due Coppe dei Campioni italiane.
Ai fiorentini, questo argentino con l’espressione da viveur di notti brave platensi non piacque per niente, manco a dirlo. Ed il mantra “quest’anno è la volta buona che si va in B” proseguì imperterrito fino alla quinta giornata del campionato 1968-69. In quella occasione la Fiorentina perse in casa 3-1 dal Bologna. La torcida viola cominciò a mugugnare talmente forte che ci volle tutto il carattere di Baglini per tenere duro. Il mago dei colori ebbe ragione. Quella fu l’unica sconfitta della sua Fiorentina in tutto il campionato, che andò a finire come tutti sanno: “Qui Torino, la Fiorentina è campione d’Italia”. Quell’11 maggio 1969, all’annuncio della vittoria viola decisiva per 2-0 in casa nientemeno della Juventus, migliaia di radioline volarono in aria a giro per Firenze.
Il Petisso entrò nella storia della Fiorentina, ma non nel cuore di Firenze. L’anno dopo non bastarono una difesa onorevole del titolo contro il Cagliari di Gigi Riva ed il Milan di Gianni Rivera. Non bastarono i quarti di finale di Coppa dei Campioni, risultato mai più eguagliato e secondo solo alla finale del 1957 persa contro il Real Madrid immeritatamente. L’anno dopo ancora, quando di nuovo la squadra viola conobbe le sabbie mobili della zona retrocessione, il malcontento di Firenze esplose. Dopo quel Dante Alighieri di cui ricorre in questi giorni il settecentocinquantesimo anniversario della nascita, Firenze esiliò anche Bruno Pesaola, l’ultimo “conducador” che le ha dato un trofeo di quelli da caroselli in auto per tutta la notte.

Come Dante Alighieri, non è morto a Firenze Bruno Pesaola, ma in quella Napoli che l’aveva accolto e – come molti altri argentini prima e dopo – mai rinnegato. Adiòs Petisso, a Firenze hanno contestato anche te. Ti sia lieve la terra, sulla tua bara c’è quel secondo ed ultimo scudetto vinto per una città che dopo di te ha celebrato quasi soltanto una montagna di discorsi.

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