venerdì 11 novembre 2016

Il Giorno della Rimembranza



Alle undici di mattina dell’11 novembre 1918, su un vagone ferroviario fermo sul binario della linea che attraversava la foresta demaniale di Compiegne presso la località Rethondes, l’Inutile Strage ebbe finalmente termine.
Non esistono foto che ritraggono lo storico evento, giornalisti e fotografi non furono ammessi. L’unica foto che ritrae l’accaduto ed i convenuti fu presa al momento in cui le delegazioni firmatarie dell’Armistice scesero da quel vagone, consegnando alla storia quello che la Francia definì – un po’ troppo frettolosamente – le jour de glorie, prendendo ispirazione dal proprio inno nazionale e dal sentimento di giubilo per la fine di un’attesa che durava – per ogni cittadino francese degno di tal nome – da ben 48 anni.
La Prima Guerra Mondiale era già terminata sul fronte orientale il 3 marzo 1918, a Brest Litovsk, località della Bielorussia dove la delegazione bolscevica che si era impadronita del potere in Russia rovesciando lo Zar acconsentì a tutte le durissime richieste dell’Alto Comando tedesco. Lev Trotskji cedette territorio fino a tutte le repubbliche baltiche ed alla Polonia, permettendo ad un occidente che si era dimostrato fin da subito ostile di sistemare le basi delle sue truppe a ridosso di San Pietroburgo.
Sul fronte italo-austriaco, invece, la guerra si era conclusa con l’attracco dell’Incrociatore Audace al molo di Trieste, il 3 novembre 1918. il giorno dopo, il governo dell’Imperatore Carlo I d’Asburgo, l’ultimo erede del prozio Franz Joseph - morto due anni prima appunto quasi senza eredi dopo l’assassinio di Francesco Ferdinando che aveva dato il via alla Grande Guerra -, aveva chiesto ed ottenuto l’armistizio al generale italiano Armando Diaz. Il generale fu quasi sorpreso, anche se l’Austria – Ungheria ormai si stava dissolvendo per le sconfitte militari e le rivolte interne, e la richiesta lo colse – dice la leggenda – mentre davanti alla cartina del fronte cercava di capire dove c…. fosse questa Vittorio Veneto dove le sue truppe avevano ottenuto quella che risultò essere la vittoria decisiva, la rivincita di Caporetto.
L’Impero Ottomano, che aveva sostituito proprio l’Italia nella Triplice Alleanza con gli Imperi centrali, si era arreso il 29 ottobre e aveva il suo da fare a sopravvivere alle spinte insurrezionali repubblicane dei Giovani Turchi dell’eroe di guerra Mustafa Kemal, il vincitore del carnaio di Gallipoli, colui che un giorno sarebbe stato chiamato Ataturk.
La guerra finì di colpo, dopo essere sembrata interminabile. Quattro anni e mezzo di dramma nel fango di trincee inamovibili, da una parte e dall’altra, ravvivati soltanto dalle offensive disperate scatenate a ovest e a sud dagli Imperi Centrali dopo il crollo della Russia zarista nel novembre del 1917 e dall’arrivo del contingente americano sul continente europeo nell’ultimo anno di guerra, si conclusero con la dissoluzione dell’Austria Ungheria e con la rivolta repubblicana a Berlino, che impose all’ultimo Oberkommand rimasto belligerante la richiesta agli Alleati di cessazione delle ostilità.
I generali tedeschi, che avevano esautorato i politici del loro paese negli anni della guerra, li spedirono sprezzantemente a ricevere le condizioni armistiziali sul vagone ferroviario a Compiegne. Quando la delegazione tedesca arrivò a destinazione, il Kaiser Wilhelm II era già fuggito in Olanda per sottrarsi alla rivolta repubblicana. L’Imperatore d’Austria lo seguì in esilio tre mesi dopo, quando le potenze vincitrici e vinte si stavano già riunendo a Versailles per la discussione e la firma del Trattato di Pace.
A Compiegne, la Francia inviò i suoi eroi, il Maresciallo Foch ed il generale Weygand. Era il soggetto belligerante che sentiva di più quel momento: Sedan e Napoleone III erano vendicati, Lorena e Alsazia riconquistate, 48 anni di mortificazione dell’orgoglio nazionale e della grandeur per mano prussiana erano finalmente cancellati.
La Germania, da una settimana rimasta l’unica avversaria degli Alleati, le si presentò di fronte con una delegazione di mezze figure, per di più civili. Il segretario di stato Erzberger si vide porre davanti condizioni durissime, compreso l’annullamento del trattato di Brest Litovsk che avrebbe fatto della Polonia e di altri paesi finalmente nazioni libere e indipendenti.
Erzberger contava talmente poco che dovette chiedere all’unica vera autorità rimasta sopra di lui, il Capo di Stato Maggiore tedesco Maresciallo Paul von Hindenburg, il permesso di accettarle. La Germania sconvolta dall’insurrezione repubblicana che entro un paio di mesi sarebbe stata legittimata a Weimar non poté dirgli che di accettare.
La vittoria alleata era totale, ma la sua portata fu sopravvalutata. L’esercito tedesco si era arreso senza che un solo metro del suo suolo patrio fosse stato conquistato dai nemici. Era stato costretto alla resa, ma non sconfitto. Per ritirare e smobilitare le divisioni tedesche ancora sul campo, circa 190 su tutto il fronte occidentale dal Belgio al confine svizzero, ci vollero circa due mesi, fino al gennaio 1919.
La Francia, tra Compiegne e Versailles, impose per spirito di revanche delle condizioni di resa che miravano a piegare la Germania per sempre, impedendole di riprendere le armi in futuro. Proprio la durezza di tali condizioni, sancite dal Trattato di Pace, mise la Germania economicamente in ginocchio e la ridusse moralmente alla disperazione, favorendo la successiva ascesa del Nazismo e la ripresa delle ostilità – in modo se possibile assai più drammatico – vent’anni dopo. La Francia avrebbe finito per ritrovarsi, il 21 giugno 1940, di nuovo a Compiegne, di nuovo su quel vagone ferroviario, a sottoscrivere un secondo armistizio ma stavolta da potenza sconfitta, invasa, piegata. Con il Fuhrer in persona a rappresentare la Germania trionfante, e la Francia medesima stavolta rappresentata da un ex eroe di guerra divenuto mezza figura impresentabile ed esecrata, il Maresciallo Philippe Petain.
Anche l’Italia avrebbe sopravvalutato la sua vittoria, lamentandone la mutilazione da parte degli Alleati a Versailles. Dimenticandosi che la fine delle ostilità era stata favorita anche dall’insurrezione delle altre nazionalità (a cominciare da quelle della vicina e neonata Jugoslavia) che si erano scrollate di dosso al pari di lei il giogo imperiale austro – ungarico. Il mito della vittoria mutilata avrebbe giocato un ruolo non indifferente nell’ascesa al potere delle camicie nere di Benito Mussolini, così come le sanzioni di Versailles avrebbero giocato un ruolo analogo nell’ascesa delle camicie brune di Adolf Hitler in Germania.
Ma quella mattina, a Rethondes preso Compiegne, su quel vagone dove non poté salire nessun testimone che non facesse parte di una delle delegazioni dei paesi che si erano scannati fino al giorno prima, si respirava soltanto il sollievo per la fine di una strage come l’umanità non aveva ancora mai visto, fino a quel momento. Senza immaginare che si stava preparando la successiva, assai più ingente e drammatica.
L’11 novembre rimase in Gran Bretagna nel calendario come Remembrance Day, negli USA come Veteran Day, in Francia le Jour de Glorie. Viene celebrato con due minuti di silenzio alle ore 11 dell'11 novembre ("the eleventh hour of the eleventh day of the eleventh month").
Furono gli inglesi, che a differenza dei francesi non avevano rivincite da celebrare e a differenza degli americani non avevano un loro continente in cui tornare ad isolarsi, a cogliere e testimoniare il senso più profondo di orrore antimilitarista lasciato dalla Prima Guerra Mondiale, suggerendo a tutte le altre nazioni l’emblema di quella ricorrenza per gli anni a venire: la corona di papaveri rossi (uno dei pochi fiori in grado di nascere anche sopra un devastato campo di battaglia) con cui aveva tributato le esequie a ciascuno dei suoi caduti e che da allora addobba suggestivamente i cimiteri di guerra in tutto il mondo.
Nel 1935, il governo di Ramsay McDonalds sottopose ai sudditi di Sua Maestà George V i Peace Ballots, un referendum con cui veniva chiesto al popolo inglese se a fronte del riarmo tedesco era disposto ad affrontare una nuova guerra. La risposta fu a schiacciante maggioranza NO, e il primo a prenderne atto fu proprio Adolf Hitler. Quattro anni dopo, un nuovo quesito – stavolta nei fatti, non su schede referendarie – si pose sempre davanti ai sudditi di Sua Maestà, diventato nel frattempo George VI: morire per Danzica?
La risposta è nota.

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