martedì 7 febbraio 2017

Seppellite la mia racchetta sul Rio de la Plata



Gli occhi di Corrado Barazzutti tradiscono sul suo volto dolorosamente invecchiato una vita di passione sportiva condensata negli interminabili e drammatici scambi di questo Argentina – Italia, diventato improvvisamente un crocevia del destino per un movimento sportivo che insegue una rinascita, un ritorno di fiamma sempre più lontani, malgrado questa vittoria per vari motivi alla fine insperata.
L'abbraccio finale tra Barazzutti e Fognini
In campo, Fabio Fognini detto Psycho fa una volta di più tutto quello che un tennista non dovrebbe fare, e va a finire che forse vince proprio per quello, dopo aver constatato l’impossibilità, la propria idiosincrasia a giocare un match normale, a rispettare comunque un pronostico. La maratona finale nella gazzarra del Parque Sarmiento consegna l’Italia ai quarti di finale di Coppa Davis, un traguardo che una volta – tanti anni fa, all’epoca gloriosa di quell’uomo segnato dal tempo che ora siede in panchina come capitano non giocatore – era il minimo sindacale per il nostro tennis, e che ora invece va salutato come un’impresa prodigiosa. Tanto più perché compiuta nella tana del nemico, a Buenos Aires, in casa dell’avversario più nazionalista, orgoglioso, irriducibile e casinista che esista al mondo. E perché compiuta da protagonisti che una volta di più si erano dimostrati non all’altezza, vanificando i doni che la sorte aveva elargito stavolta.
L’Argentina che avevamo di fronte era la squadra C, malgrado fosse campione in carica, detentrice dell’Insalatiera che faceva infatti bella mostra di sé al Parque. Fuori Del Potro e Delbonis, gli eroi di Zagabria. Fuori anche le seconde linee Monaco, Zeballos e Schwartzman, l’Albiceleste messa in campo da Daniel Orsanic era composta di terze scelte come Leonardo Mayer e Diego Pella e di un quasi ex giocatore come l’incredibile Carlos Berlocq, che a 34 anni ha avuto la forza di riproporsi come salvatore della patria nonché il coraggio di riprendere pubblicamente un tifoso d’eccezione come Diego Armando Maradona, presente al Parque come ad ogni manifestazione in cui la sua nazionale gioca contro quella italiana, a mantenere viva – nel modo più scomposto possibile – una rivalità che risale a Italia 90.
Assai poco consono al tennis, il tifo di Dieguito ha finito per disturbare lo stesso Berlocq prima ancora che gli avversari azzurri. La Hinchada porteña invece è stata ben accetta e ha sostenuto la quasi rimonta argentina per tutti e quattro i giorni della maratona conclusa da Fognini al quinto ed ultimo set dell’ultimo incontro. Per chi si lamenta della scarsa sportività dei sudamericani – considerato che l’epoca dei gesti bianchi in questo sport è trascorsa da un pezzo -, ricordarsi di cosa succedeva qualche anno fa, sempre all’epoca dell’uomo che ora siede in panchina, per capirsi, in luoghi come il Foro Italico di Roma.
Corrado Barazzutti accanto alla Coppa che vinse nel 1976
E' un mestiere difficile quello del capitano non giocatore. Corrado ormai parla con gli occhi, nei quali si alternano la mestizia per le condizioni attuali del nostro tennis, la stanchezza per una vita trascorsa in campo e a bordo campo ad inseguire sogni che si sono avverati una volta sola, a Santiago del Cile nel 1976, e solo occasionalmente qualcuno di quei lampi che gli si accendevano all’epoca in cui tutti lo conoscevano come il Soldatino, e nessun avversario si augurava mai di incontrarlo. Quei lampi che adesso si accendono soltanto, c’è da credergli, allorché come tutti noi vorrebbe strozzare qualcuno dei suoi e nostri beniamini quando maltrattano il tennis e sprecano le occasioni come in questi giorni.
L’Italia dei pallettari e dei talenti incostanti va sul due a zero venerdi, sfruttando la sufficiente consistenza di Lorenzi contro un Pella preso a freddo e poi la solidità di Seppi contro un Berlocq che ancora non è ridiventato Berlocq e più frastornato che sostenuto dagli urlacci di Maradona & compagni. Nel doppio, Bolelli ha il tocco di palla di un tagliaboschi e Fognini la saldezza di nervi di un neuropatico, così Berlocq diventa il Maradona del tennis e Mayer gli va dietro anche su una gamba sola. Sul 7-6 al tie break finale, Fognini commette l’ultimo di una serie di errori allucinanti e spreca l’unico match ball, consegnando agli argentini il primo punto di una rimonta in cui non credevano nemmeno loro.
Domenica, la pioggia aiuta l’uomo che ha giocato di più, Berlocq, tirandolo fuori da un paio di sovraffaticamenti al momento giusto. Lorenzi ha carattere pari alla classe, cioè poco, e va in crisi puntualmente durante il crescendo parossistico dell’avversario. Gli occhi del romano naturalizzato senese – come quelli del ligure marito di Flavia Pennetta il giorno prima – sono quelli dello sconfitto ben prima che si arrivi alle strette finali del rispettivo incontro.
Lunedi, Barazzutti vorrebbe tanto selezionare se stesso. Non potendo, deve scegliere dall’alto della sua lunga esperienza di fighter, di match winner, di coach di lungo corso, tra Andreas Seppi poco genio ma nessuna sregolatezza e Fabio Fognini detto Psycho. Capitano coraggioso, manda in campo il meno affidabile e, occasionalmente, il più talentuoso.
Per i primi due set viene voglia di chiedersi da quando il Soldatino si sia convertito all’estro, e subito dopo di maledire quel momento. Il nostro portacolori in campo ne combina di tutti i colori sbagliando lo sbagliabile e finendo travolto da un Pella che sembra Andre Agassi. Neuro Fognini ricorda tanto il peggior Paolo Cané, che litigava con tutto il mondo pur di non prendersela con se stesso, una specie di manuale del tennis a rovescio. E finiva a perdere match che gridavano vendetta. Questo, poi, a perderlo ci attirerebbe lo scherno argentino per i secoli a venire, battuti dalle riserve delle riserve.
In panchina, parlano gli occhi in quel volto segnato dal tempo e dalle battaglie, reso epico da quella barba bianca che ricopre una mascella che quando si induriva – ai suoi tempi – intimoriva qualsiasi avversario. Gli argentini di quei tempi si chiamavano Guillermo Vilas e José Luis Clerc, immaginate Del Potro e Delbonis con il doppio, il triplo del talento. Gli occhi del Soldatino forse sovrappongono quelle antiche battaglie a quella che sta avendo luogo adesso sulla terra rossa di Buenos Aires. Per questo si illuminano come lampi di un uragano, di tanto in tanto. O forse perché vorrebbe serrare le mani al collo di quel Fognini a cui ha dato fiducia, e che lo sta ripagando con così tanta inettitudine?
Fabio Fognini in azione
Sta di fatto che il signor Pennetta risorge nel modo più anticonvenzionale. Litigando con arbitro e pubblico, di solito ci si perde definitivamente. E’ una fuga psicologica da se stessi, una resa anticipata con tanto di abbandono a pretesti esterni che consentono di non guardarsi dentro, non dare la colpa all’unico vero responsabile. Ma Fognini, è anche vero, di questa squadra è l’unico che sa giocare a tennis. Pella comincia a tirare il fiato, trovandosi un po’ meno dentro il campo e con il controllo del gioco. Maradona perde il tempo della claque ed il Parque Sarmiento formato Hinchada si rende conto che il momento magico è finito, il sogno pure. La realtà incombe, e l’unico vero giocatore di tennis azzurro, ancorché psicolabile, si è ricordato come si fa. Per il ragazzo di casa non c’è più speranza.
Finisce 6-2 al quinto, con la squadra italiana che si abbraccia in mezzo al campo sotto gli occhi stralunati degli ammutoliti argentini. Sembra di essere tornati a Santiago, e quel Soldatino affranto cessa di colpo di assomigliare al Vecchio di Hemingway e ritorna quello che faceva paura a Vilas.
Si va a Bruxelles, non all’Unione Europea ma a giocarsi i quarti di Coppa Davis. Con una squadra capace di tutto, dall’impresa più clamorosa alla debacle più mortificante.
Il tifo "calcistico" di Diego Maradona
Caro Soldatino, non rivedremo più una squadra come quella dove giocavi tu, ormai lo sappiamo. Ce lo sentiamo addosso. Lo sport è una metafora della vita di un paese, ed il nostro di paesi è da tanto che sta ammainando bandiera. Gli argentini, per quanto sconfitti, ci suscitano invidia per quel loro indomabile orgoglio, per quel loro inestinguibile nazionalismo, loro che hanno cominciato ad essere una nazione circa tremila anni dopo di noi.
Di questo sport che simboleggia il declino del nostro paese il tennis è stato l’apripista. Siamo spariti dagli Albi d’Oro da decenni, dimenticarsi di Barazzutti, di Panatta, di Bertolucci, Zugarelli, Ocleppo. Dimenticarsi anche di Gaudenzi, Furlan, Camporese, che almeno sul piano della consistenza erano arrivati a farci illudere di una seconda primavera.
Siamo un paese che non ha più movimenti sportivi. Dove i ragazzi partono battuti rispetto ai loro coetanei stranieri in tanti campi, non solo in quelli agonistici. Un paese dove la televisione e la radio di stato non si sentono in dovere di dedicare un minuto alla cronaca di un evento che bene o male segna la rimessa della testa fuori dall’acqua, in uno sport che una volta fermava l’Italia quasi quanto il calcio. Adesso, la maggior parte non sapeva nemmeno che si giocava, con chi e perché.

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