lunedì 5 maggio 2014

Lettera aperta al Generale Giuseppe Garibaldi

Caro Generale,
Le porto i saluti dell’Italia di Vittorio Veneto. E anche di quella di Caporetto. Come Lei saprà senz’altro, avendo sicuramente continuato a seguire dalla Sua nuvoletta nel cielo - dopo la Sua dipartita da questa vita per Lei gloriosa ma altrimenti grama - le vicende di questo disgraziato paese al cui Risorgimento Lei ha dedicato i suoi anni migliori, è più numerosa la seconda della prima. E più frequente a vedersi.
Dopo le imprese che L’hanno resa famoso e meritevole di imperitura memoria in questa penisola (e non solo), di Vittorio veneto per la verità ce ne fu una sola. Di Caporetto invece ce ne sono state tante. Negli ultimi tempi anzi così tante e così frequenti da aver anestetizzato la gente italica, che ancora nel 1982, cento anni esatti dalla Sua partenza da questa terra e da questa storia, si stringeva commossa dietro ed attorno al Tricolore che Lei conosce bene per averlo stretto in pugno tra i primi. L’occasione era futile solo in apparenza, il Calcio è la guerra moderna continuata con altri mezzi, solo in apparenza più civili. Il Calcio aveva fatto di questo sventurato paese che La venera sempre più indegnamente tra i suoi Padri una Nazione, e per giunta di primo piano. E’ dunque giusto, secondo l’antico e fatidico principio della Nemesi, che sia il Calcio a mettere fine alla sua esistenza, tra i frizzi ed i lazzi osceni di chi ci ha resi tutti Pulcinella, da Camice Rosse che eravamo.
Chi Le scrive è un ufficiale dell’esercito di quella Repubblica che Lei aveva solo potuto sognare, prima del fatale “Obbedisco!” al Savoia trionfante, il primo dei Re d’Italia che non ebbe nemmeno il buon gusto di azzerare il contatore della sua Casata, chiamandosi Secondo anziché Primo come avrebbe richiesto la fondazione del nuovo Stato e della nuova Patria comune. Vittorio Emanuele era piemontese, ma parlava francese e non si sentì mai veramente italiano. Certo non più di quelle plebi immonde che sabato sera scorso erano a lordare l’Anfiteatro della Capitale, insieme al buon nome dell’Italia.
Caro Generale, chi Le scrive non rimpiange un giorno del suo servizio alla Patria, non rimpiange la sua Patria stessa, anche se l’ha maledetta mille volte per come si dimostrava matrigna, come nemmeno Franceschiello di Borbone avrebbe saputo fare, e Lei sa bene di chi e cosa parlo. Lei che andò a stanarlo da quelle Due Sicilie che poi si sono vendicate mille volte, portando l’italica gente a maledire il Suo stesso nome.
Caro Generale, chi Le scrive non capiva una volta come si potesse rivoltarsi contro il proprio paese. Right or wrong, my country, dicono quegli inglesi che furono i più ferventi sostenitori ed i più sfegatati ammiratori di Lei e della Sua impresa. Tutt’ora non rinuncerei alla sciabola, all’uniforme, al più insignificante dei miei ricordi di servizio, al meno amichevole dei miei compagni di corso ufficiali per nulla al mondo. Ma il mio paese non lo capisco più. E la gente che lo abita ancor meno, tranne quando, Lei vorrà perdonarmi, nomina il Suo nome altrimenti venerato, caro Generale, seguito da una sequela di improperi e maledizioni che sembrano sconfessare addirittura il Risorgimento stesso, e invece sono soltanto il grido di dolore di un popolo tradito (almeno di chi popolo si sente, anziché plebe) proprio in quelli che credeva fossero i suoi valori più alti.
Caro Generale, l’osceno refrain risuonato all’Olimpico di Roma e giustamente fischiato da un popolo inferocito e sottomesso alla plebe infame non è l’Inno di Mameli. Quella canzone d’Italia sulle cui note partiste da Quarto e arrivaste fino a Porta Pia. Quella canzone sulle cui note la gente andava a morire contenta, come dicono le sue parole, e al tempo vostro non era un modo di dire. Caro Generale, a Firenze avevamo un governo degno di questo nome, il Granduca era una brava persona, lo mandammo via – e lui comprese – solo per riunirci al sogno più bello mai fatto in questa penisola da millecinquecento anni a questa parte. Come noi, a Milano, a Venezia, a Trieste, tutti rinunciarono a governi che si erano fatti rispettare, se non benvolere, e non con le armi, tutt’altro.
Siamo stati ripagati con moneta falsa, il vino che ci è stato dato per brindare era malandato. Le Due Sicilie erano una trappola, le Camice Rosse riuscirono a passare, i piemontesi no. Il destino d’Italia si fece sul Volturno, i nostri sogni finirono lì, prima ancora di sbocciare. Chi Le scrive ha tanti amici del Sud, pugliesi, calabresi, siciliani, sardi, lucani, con tutti è stato possibile capirsi e volersi bene. Perché bastava stabilire un semplice principio: quello del rispetto reciproco. E una volta amici con queste genti, lo si è per sempre. Con quell’altra gente – che non vorrei nemmeno nominare tanto è il disgusto che provo – invece non è possibile. Perché QUELLI ti devono entrare dappertutto, ti devono entrare dentro, si devono prendere ogni cosa, con le buone e meglio se con le cattive. Devono farsi beffe di quelle regole che per noi sono la stessa civiltà, e devono farsi beffe di noi stessi nello stesso momento che ci restiamo male.
Chiagni e fotti, lo chiamano loro. Dopo averti scippato, ti vengono ad assordare co’ ‘e ddisgrazie loro, a chiagnere pe’ quant’ so’ jellati, e ti finiscono di fottere anche le ultime cose che ti restano proprio mentre ti chini a consolarli.
Mi scuserà il linguaggio, caro Generale, ma la misura è colma. Quando Lei arrivò in quella città, il Re Bomba aveva finito da poco di prendere a cannonate la sua plebe, perché sapeva che laggiù quello è l’unico modo per governare. La Repubblica del 1799 l’avevano massacrata loro, gli antenati di quegli scugnizzi per i quali secondo certa letteratura e critica politica io dovrei comunque provare simpatia e compassione. So’ criature!
No, caro Generale, i pochi napoletani (ecco l’ho detto) di cui possiamo essere orgogliosi (i De Filippo, Totò) li abbiamo pagati a caro prezzo. Sono troppi di più gli Schettino, ed i Genny ‘a carogna. Ma soprattutto sono una schiera sterminata tutti quelli che, con il casino, il menefreghismo, il puzzo, la beffardaggine, l’ignoranza, la violenza, la cialtroneria a 360°, la monnezza, vanificano ogni giorno lo sforzo di questo Paese per rifarsi un’immagine. Offrendo al mondo quella di un Pulcinella miserabile e sciatto, senza più il fascino della Commedia dell’Arte e con tutta l’indegna, impresentabile sicumera dell’Arte di Arrangiarsi.
Caro Generale, se tutto ciò che Le scrivo non è politicamente corretto, come si dice adesso, pazienza. Non è corretto nemmeno che il sig. Luigi De Magistris, eletto sindaco dai suoi concittadini dopo aver fatto finta di amministrare la giustizia come si conviene nelle sue terre, adesso si metta a chiagnere e fottere più di tutti, ad alta voce, ben sapendo che alla RAI delle Due Sicilie avrà la massima audience, come dicono quegli inglesi che Lei conosce bene, e che i problemi con i “loro napoletani” li hanno risolti alla radice una trentina di anni fa, con una Signora di ferro che da sola valeva più di tutti gli omminicchi che sabato sera erano in Tribuna Monte Mario, ad aspettare il nulla osta della Carogna.
Caro Generale, chi Le scrive non ne può più. Qui ormai è tutta Napoli, siamo tutti Pulcinella, e ‘a Carogna tra poco busserà anche a casa nostra, perché gli punge vaghezza di dormire nel nostro letto con nostra moglie. Andarsene non si può, right or wrong, siamo in questa fogna partenopea, e dobbiamo starci. Ma questo non è più il mio paese. In un paese normale, Napoli non c’é.
Mi scuserà lo sfogo, signor Generale Garibaldi, e con Lei tutti i veri italiani del Nord, del Centro e del Sud, ma questa è l’Italia di cui Le porto i saluti. Mentre Napoli canta, i fuochi bruciano e la nostra speranza è morta come la mozzarella che ci danno da mangiare (se Genny dà il permesso di mangiare).
Con immutati ammirazione e rispetto, un vecchio ufficiale dell’Esercito Italiano, come Lei
Simone Borri


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