venerdì 8 agosto 2014

Mario Draghi e la dottrina della sovranità limitata

Agosto 2014. Uno spettro si aggira per l’Europa. Non è quello dell’Anticiclone delle Azzorre, che ormai ha "dato buca". Né quello di un nuovo conflitto continentale, anche se un focolaio c’è, e ancora una volta – come cent’anni fa – nelle terre slave. Quelle che i nostri nonni chiamavano, non a caso, le “terre matte”.
No, lo spettro è quello di un continente che non riesce a prendere quel passo che i padri fondatori dell’Unione avevano sperato. Economicamente e politicamente, l’Europa è – fantozzianamente parlando – in pieno marasma. L’Eurozona viaggia a tante velocità quante sono le nazioni che la compongono. Gli Stati Uniti d’Europa sono un’utopia, e non ci sono più assiomi né luoghi comuni su cui fare affidamento, se è vero che all’ultima rilevazione perfino la locomotiva tedesca pare in piena frenata, con una crescita industriale dello 0,3% inferiore perfino a quella dell’Italia.
Lo spettro è quello di un’Unione che non decolla, per quanto fortemente sognata, voluta e in certi casi perfino imposta a quei 300 e passa milioni di cittadini che credevano – a cent’anni dalla “inutile strage” – di poter festeggiare un anniversario che esorcizzasse per sempre il rimaterializzarsi di qualsiasi incubo. E invece pare destinata ad affondare al pari della somma delle sue singole componenti.
Cento anni fa. Abbiamo tutti un bisnonno che ha servito la patria nella Grande Guerra. E magari c’è anche morto. Pare brutto proprio in questi giorni sorprendersi a pensare che forse sotto l’Austria-Ungheria non si stava certo peggio di così. Nelle “terre redente”, non sono pochi quelli che hanno ancora in bottega la foto di Francesco Giuseppe. Si, proprio lui, quello che (ormai vecchio e incapace di discernere tra buoni e cattivi consiglieri) lanciò un secolo fa l’ultimatum alla Serbia e al suo scadere precipitò il mondo in una catastrofe da cui non sarebbe uscito più lo stesso, generando a sua volta altre catastrofi.
Come prendere allora le parole dell’attuale Imperatore del nostro continente, quel Mario Draghi presidente della B.C.E., che non più tardi di ieri ha assestato un colpo durissimo all’Europa degli Stati Nazionali? Quella che – ci hanno insegnato a scuola – ha favorito per secoli la nascita e la coltivazione dei valori più alti della nostra civiltà, assieme al Cristianesimo?
La frase è di quelle, lapidarie, che da Giulio Cesare a Napoleone hanno (sempre secondo i libri di storia) deciso inesorabilmente, brutalmente e bruscamente come lo sparo di un fucile i destini di interi popoli: "Per i Paesi dell'Eurozona è arrivato il momento di cedere sovranità all'Europa per quanto riguarda le riforme strutturali". 
Ecco qua, il dado è tratto? Mario Draghi non parla “a schiovere”, né per indole personale né per ruolo istituzionale. Quando parla, annuncia la politica dell’Unione, decisa dall’unica istituzione europea realmente funzionante. “Vuolsi così colà dove si puote”, la Banca Centrale Europea è il governo imperiale, che con un rialzo di tassi, una misura antiinflazione o anche l’invio di una semplice lettera (come sappiamo bene noi italiani) può decidere la sorte di una Provincia, riottosa o semplicemente neghittosa.
Il principio è generale, è giunto il momento di passare ad una Unione politica che superi i particolarismi e le inefficienze nazionali. Ma và da sé che per l’attualità i riflettori della B.C.E. siano puntati proprio sul Belpaese. "Uno dei componenti del basso Pil italiano è il basso livello degli investimenti privati". Peggio, tutto è dovuto "all'incertezza sulle riforme, un freno molto potente che scoraggia gli investimenti". E’ arcinoto che l’Italia non attira più gli investimenti privati per l’arretratezza delle sue strutture ed infrastrutture, nonché la farraginosità e assurdità delle sue normative e delle sue procedure e burocrazie. E’ un fatto assodato, dice Draghi, che "i Paesi che hanno fatto programmi convincenti di riforma strutturale stanno andando meglio, molto meglio di quelli che non lo hanno fatto o lo hanno fatto in maniera insufficiente".
L’Italia è una volta di più il “ventre molle” del continente, la cartina di tornasole della sua crisi, il suo caso limite. L’italiano Mario Draghi pensa al suo paese d’origine quando decreta la fine delle sovranità nazionali. E passa una palla pesantissima alle istituzioni politiche comunitarie, che dovranno riflettere sulle sue parole oltre che sulle proprie scelte.
In giornata arrivano infatti due notizie che definiscono un quadro se possibile ancora più drammatico rispetto a quello dipinto da Draghi. Matteo Renzi ridimensiona le affermazioni del presidente della B.C.E., dicendo che riguardano tutta l’Eurozona e non solo il suo paese. Già, ma Germania, Francia o Gran Bretagna non hanno bisogno in questo momento di riforme costituzionali, mentre l’Italia sì, e da quelle dipendono drammaticamente le riforme successive. Se non si sbarazza di una partitocrazia parassitaria di cui il Senato è solo la punta dell’iceberg, l’Italia non rinnova le sue norme, le sue procedure, le sue burocrazie, le sue economie. E muore.
Il presidente Renzi fa orecchi da mercante, ma non può non essere consapevole di essere sotto l’occhio delle telecamere comunitarie, con la sua battaglia per la riforma istituzionale impantanata in quel Senato che dovrebbe autoriformarsi, e che invece contratta una ritirata casa per casa, privilegio per privilegio come i nazifascisti a Firenze nel 1944, in giorni d’agosto molto più caldi di quello attuale. Vecchi arnesi della partitocrazia come Vannino Chiti tengono in scacco il Rottamatore, che non può non ostentare comunque ottimismo e nonchalance rispetto a tutto, comprese le parole di Draghi, perché come sempre succede ai grandi riformatori (o presunti tali), chi si ferma è perduto.
L’altra notizia è che la Russia di Putin reagisce alle sanzioni pedissequamente applicatele dall’Unione Europea con l’embargo sui prodotti agroalimentari comunitari, in attesa di presentare il conto complessivo il 1° novembre, quando da Lisbona a Kiev, dal Manzanarre al Reno i bravi cittadini europei andranno ad accendere come di consueto i riscaldamenti. Per l’Italia è – dal giorno alla notte – un danno di 700 milioni di euro.
Tralasciando ogni considerazione su scelte politiche decise laddove (leggasi Washington) problemi di approvvigionamento energetico non sussistono, le cifre comunque parlano da sole. Saltano non solo i calcoli del governo in carica circa le percentuali di crescita del Pil, ma probabilmente salta anche il quadro politico se il presidente non porta a casa qualche risultato reale. Qualcosa di più per esempio del baratto di 300 senatori con non si sa bene quante migliaia di consulenti e dirigenti a contratto della pubblica amministrazione, che costano al sistema poco meno e fanno altrettanto danno.
Oggi è l’anniversario di Marcinelle, un nome sinistro che gelava il sangue ai nostri nonni e ai nostri genitori, la più grande tragedia dell’emigrazione italiana, il primo e a tutt’oggi più alto tributo richiesto dall’Europa Unita (allora Comunità del Carbone e dell’Acciaio, era il 1956) ai suoi cittadini lavoratori, 136 italiani e 95 belgi.

Quanta gente è morta per fare prima questo paese e poi questa comunità europea! Pare brutto proprio oggi, proprio in questi giorni pensare che si stava meglio quando si stava peggio. Che cento anni fa come adesso una persona a Corte può decidere con un proclama della nostra sorte. E non è neanche detto che sia la sorte peggiore.

Nessun commento:

Posta un commento