venerdì 23 ottobre 2015

Auguri Edson, forza Johan



Compie oggi 75 anni, e tra tutti i traguardi che ha tagliato nella sua lunga e gloriosa vita questo sembrava diventato il più difficile, date le sue condizioni di salute. Invece eccolo qua, sorridente come in quei giorni in cui entrò nell’Almanacco del calcio e nel cuore degli appassionati di tutto il mondo alzando per tre volte la Coppa Rimet con indosso la maglia verdeoro carioca.
Il suo nome é Edson Arantes do Nascimento. La sua leggenda si chiama Pelé. Cominciò al Mondiale di Svezia del 1958. Tutti aspettavano la vittoria dello squadrone scandinavo di Liedholm, Nordhal, Gren, i fortissimi padroni di casa. Invece arrivò lui, il gioiello più prezioso  di un Brasile che di gioielli era pieno. Gilmar, D. Santos, N. Santos, Zito, Bellini, Orlando, Garrincha, Didì, Vavà, Pelé, Zagalo, era una formazione che i ragazzi dell’epoca avrebbero imparato a memoria, come si conviene a quelle destinate ad incantare la fantasia ed a passare alla storia.
Ogni epoca ha avuto il suo “giocatore più forte di tutti i tempi”, ed è giusto che sia così, fino alla fine del tempo e del calcio. Ma la perla nera, come l’avrebbero soprannominato i suoi tifosi estasiati, aveva qualcosa in più. La sua eleganza, le sue movenze quasi da ballerino classico anche nei gesti atletici più semplici ne avrebbero fatto uno spettacolo vivente.
Per tutti, sarebbe rimasto semplicemente O Rey, il Re del Calcio, anche dopo la fine della sua lunga carriera. Tre titoli mondiali, 1958, 1962 (da infortunato), 1970, 18 anni (dal 1956 al 1974) e 1091 gol segnati con la maglia del Santos, la sua prima ed unica squadra da professionista che dopo il suo addio vide bene di ritirare per sempre la sua maglia, la numero 10. Altri 190 gol segnati tra nazionale carioca e Cosmos di New York dove spese gli ultimi tre anni di attività agonistica prima di appendere le scarpe al chiodo.
Numeri che quasi sminuiscono, a snocciolarli, la leggenda della Perla Nera. Di sicuro non lo sminuisce il confronto con un'altra leggenda, quella dell’argentino Diego Armando Maradona, l’unico che nell’intera storia del calcio abbia potuto credibilmente insidiare la corona di O Rey. Gli argentini del resto non hanno dubbi, e con loro molti aficionados in tutto il mondo appartenenti alle generazioni più giovani: il Dio del Calcio è Dieguito.
I due personalmente erano e sono agli antipodi. Classe sopraffina in ogni suo gesto il brasiliano, genio e sregolatezza l’argentino. Del primo si ricorda come episodio emblematico il gol numero mille, per cui a San Paolo suonarono a distesa le campane. Del secondo si ricorda la mano de Dios, il gol segnato all’Inghilterra proditoriamente con una mano, ma subito perdonato perché raddoppiato da uno dei gol più belli di tutti i tempi, al termine di uno slalom fra l’intera squadra inglese.
Sono confronti che hanno poco senso. Nel pantheon del Calcio c’è posto per numerosi Dei. E proprio oggi che si festeggia la Perla Nera è giusto che il pensiero vada semmai a colui che negli stessi anni venne soprannominato il Pelé Bianco. Hendrik Johannes Cruijff, detto Johan, è stato la risposta della razza caucasica a tanto ben di dio calcistico. Leader della più grande Olanda di tutti i tempi e poi di un Barcellona che cominciò negli anni settanta a fare incetta di stelle del calcio mondiale, fu soprannominato il Profeta del Gol perché il suo impatto sul calcio dei suoi tempi fu se possibile ancora più devastante di quello di Pelé e Maradona.
Cruyff, come si scrive nel resto del mondo che mai verrà a patti con la lingua olandese, ha insegnato al mondo stesso un modo nuovo di giocare. Dopo il calcio totale predicato dai Lancieri dell’Ajax e dagli Orange ai Mondiali del 1974 (che non vinsero per un soffio), il gioco non è più stato lo stesso. Non poteva esserlo.
Adesso, il Profeta dal cuore per sempre diviso tra i paesi Bassi e la Catalogna, deve lottare con un avversario ben più insidioso di quella Germania che all’Olympiastadion di Monaco di Baviera gli sfilò dalle mani quel titolo mondiale che sembrava suo di diritto. Johann ha un tumore ai polmoni la cui gravità per il momento non è accertata o dichiarata, ma che sembra altrettanto compromettente di quella dei malanni che stavano per impedire a O Rey di spegnere le settantacinque candeline odierne.
Fare gli auguri a questi giganti del passato, a questi uomini che adesso combattono nuove battaglie contro il tempo inclemente, è fare gli auguri a noi stessi, diventati grandi con negli occhi le immagini del gioco più bello del mondo. Un gioco che loro hanno reso leggendario.

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