venerdì 9 ottobre 2015

Fenomenologia del Partito Democratico



“Non faremo le primarie. Il nome per il dopo Marino lo scelgo io.” Con quella faccia un po’ così, a metà tra la Rificolona che anima una delle feste più celebri della città il cui hinterland gli ha dato i natali e Gasperino il carbonaio, uno tra i personaggi più riusciti tra le centinaia interpretati dal compianto Alberto Sordi (qualcuno aggiunge anche Mister Bean, il celeberrimo character interpretato da Rowan Atkinson), Matteo Renzi pone fine alla breve stagione di Ignazio Marino quale Sindaco di Roma, nonché all’altrettanto breve stagione del sogno veltroniano del partito democratico di assomigliare un giorno – nei comportamenti se non nei programmi – all’omologo americano, the Donkey Party dei Kennedy e dei Clinton.
Marino si è dimesso, non era più vita la sua al Campidoglio. All’opinione pubblica si era aggiunta tra i suoi acerrimi nemici anche la maggioranza del suo partito, quello per cui aveva corso le primarie prima e le amministrative capitoline poi. Chi è causa del suo mal pianga se stesso, dicono molti, soprattutto romani che l’hanno sperimentato come amministratore privo di un po’ di tutto ciò che serve, dal carisma alle idee alla cultura della burocrazia e della legalità. Altri invece sottolineano (a voce sommessa, non è il momento di farsi nemici potenti) che i guai per il medico-sindaco sono cominciati il giorno in cui si mise pubblicamente in urto con il neo-presidente del consiglio a proposito dei fondi speciali richiesti per il risanamento di Roma Capitale.
Può darsi. Con quella faccia un po’ così, Matteo Renzi non è quel bravo ragazzo un po’ cresciuto che sembra a prima vista. Non è generoso, e non perdona ai suoi nemici. C’è voluto un po’ di tempo, ma il conto è stato presentato, con l’aiuto delle sciocchezze fatte dal diretto interessato. Adesso un capo del governo che nessun cittadino italiano avente diritto al suffragio ha potuto mai votare ha finalmente spazzato via un sindaco (oppositore interno al suo partito) che invece era stato eletto a maggioranza in elezioni regolari, quelle di Roma 2013.
Matteo Renzi conosce la storia, ed ha – a modo suo – gran fiuto politico, oltre a potenti appoggi nazionali ed internazionali. Sa di avere forse in questo momento una base di consenso, sia tra i cittadini che tra i poteri forti, che forse non aveva nemmeno Benito Mussolini in quei primi anni del secondo decennio del ventesimo secolo in cui trasformò lo stato liberale in un regime autoritario. Di sicuro il futuro Duce qualche cautela almeno dialettica la osservava nelle sue pubbliche esternazioni. Il ragazzo di Rignano può permettersi sicuramente maggiore disinvoltura.
E’ cambiata l’Italia, sono cambiati i tempi. Non è cambiata purtroppo l’idiosincrasia italiana di chi amministra o subisce la cosa pubblica verso una cultura amministrativa, diremmo in generale verso una educazione civica che ci possano far sperare di diventare un giorno una vera democrazia europea. Un paese normale, almeno secondo gli standard occidentali, come scriveva qualche anno fa un altro segretario del PD, e pazienza se poi è stato quello che ha le maggiori responsabilità circa i pessimi connotati assunti negli ultimi tempi dal suo partito.
Massimo D’Alema apparteneva ed appartiene a quella generazione che fece il Salto della Quaglia da un Partito Comunista che non era compatibile nemmeno con un mondo occidentale in cui stavano venendo giù i Muri ad una Quercia dai vari nomi che avrebbe cercato di coniugare il Trasformismo italico di vecchia data con i sogni più o meno avveniristici di chi sognava democrazie all’americana.
Pietro Ingrao, recentemente scomparso, aveva deciso già di non cambiare idea restando fedele alla Falce e Martello, ma si alzò tuttavia per andare a stringere la mano ad un affranto ed esausto Achille Occhetto, probabilmente per rincuorarlo in vista di quello che doveva apparirgli un compito immane (come poi si rivelò), ostaggio dei D’Alema, dei Mussi, dei Fassino, dei Veltroni. La negazione di una vera classe dirigente politica, come già aveva potuto intuire in tenerà età chi li aveva avuti come compagni di studi ai tempi eroici della F.G.C.I. e del Movimento Studentesco.
Con i comunisti potevi scontrarti e combattere per una vita, certo che ti avrebbero almeno affrontato a viso aperto e con ideali alternativi anche se non compatibili. Gente di principi, insomma, con la quale potevi almeno scrivere assieme una delle migliori Carte Costituzionali che la storia moderna ricordi. Con i post-comunisti potevi solo farci affari, o soccombere. Eredi inconsapevoli (perché ai tempi del Movimento Studentesco avevano fatto tutto fuori che studiare) di due partiti fondamentalmente anti-Stato ed anti-nazione, il Comunista spalleggiato dall’U.R.S.S. ed il Democristiano spalleggiato dalla Chiesa cattolica (due nemici mortali da sempre del nostro paese), avevano ereditato anche un panorama politico assai “semplificato”, per non dire decimato, da Tangentopoli.
Avevano ereditato anche la mancanza di scrupoli e di ideali tipica di una generazione, quella post-sessantottina, nata e cresciuta nella mancanza assoluta di bisogni e di difficoltà. Quella che aveva portato un profetico Pier Paolo Pasolini, ai tempi dei fatti di Valle Giulia, a schierarsi di fatto dalla parte dei veri “proletari”, i poliziotti della Celere reclutati tra i poveracci del sud e delle campagne, contro i “figli di papà” che giocavano a fare i rivoluzionari.
Quando crollò il Muro di Berlino e l’establishment comunista e democristiano apparvero ormai come superati dai tempi per limiti di età, questo nuovo establishment si ritrovò a gestire il patrimonio ideale e materiale del centro-sinistra senza avere più da rispondere a niente ed a nessuno. E la discesa in campo di Berlusconi semplificò loro ulteriormente il compito. Non c’era più bisogno di elaborare un progetto o un programma politico. Bastava essere contro il Cavaliere.
Era difficile immaginare una generazione successiva ancor più priva di scrupoli, di ideali, di memoria storica ed in ultima analisi di freni giuridici inibitori. E’ quella dei Renzi, dei Nardella, delle Serracchiani, delle Boschi, delle Boldrini (tecnicamente non in quota al PD, ma pronta – c’è da giurarci – a fare il salto della Quaglia anch’essa, ora che il suo mentore Vendola si avvia verso un dorato pensionamento).
Una generazione che sta riuscendo a scardinare un assetto costituzionale (ed il modello di convivenza sociale che vi è sotteso) senza bisogno di squadracce. Bastano altri tipi di appoggio, nelle opportune sedi istituzionali e non. Basta fare leva formalmente sul malcontento popolare che si traduce in astensionismo. Se hai una legge elettorale come quella della Toscana che da un premio di maggioranza spropositato a chi ottiene una semplice maggioranza dei voti (altro che Legge Acerbo o Legge Truffa), non ti devi preoccupare di nulla. Ed infatti a Firenze come a Roma (dove verrà adeguata la legge elettorale per tutto il Paese) non si preoccupano di nulla.
Al punto che un governatore di Regione a tempo perso come Debora Serracchiani può permettersi di dichiarare in pieno senato al suo Presidente Grasso: “Si ricordi che lei è stato eletto alla sua carica con i voti determinanti del PD”. Ed il Presidente Grasso, di fronte ad un simile oltraggio (all’istituzione, prima ancora che alla sua persona) invece di dimettersi immediatamente china la testa ed obbedisce. Chissà quanti Padri della nostra Patria si stanno rivoltando nella tomba.
Di sicuro non si sta rivoltando Matteo Renzi. Da oggi, decide tutto lui. Un altro record di Mussolini mandato in soffitta anzitempo per il più giovane ed il più spregiudicato demiurgo della Storia d’Italia.

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