sabato 3 ottobre 2015

Lo spettro che si aggirava per l'Europa

La scomparsa di Pietro Ingrao è l’occasione di fare una riflessione rimandata da tempo. Se ne va l’ultimo componente di quella che fu la nomenklatura del Partito Comunista Italiano. Forse l’unico che veramente non gli era sopravvissuto, pur avendo festeggiato in vita oltre 100 primavere.
Pietro Ingrao era diventato testimonial di coloro che non cambiano idea. O perlomeno la cambiano una volta sola. Prima della guerra era stato iscritto alla GUF, come la maggior parte dei giovani italiani. Alcuni nel dopoguerra erano stati etichettati da Oriana Fallaci come “fascisti neri” che erano diventati “fascisti rossi”. Per lui come per altri la conversione era avvenuta attraverso la guerra partigiana. Da allora per Pietro Ingrao erano esistite soltanto la falce e il martello. Nell’Italia collocata nel campo occidentale lui non aveva avuto dubbi, schierandosi fino alla fine dalla parte dell’ideale comunista fino alle estreme conseguenze, quando a quell’ideale non aveva più corrisposto un partito.
L’uomo per la sua vita vissuta merita indubbiamente rispetto. Le sue idee meritano un’analisi spassionata ed approfondita, visto che per circa centocinquant’anni hanno determinato la storia d’Europa prima e del mondo poi come nessun altra corrente di pensiero e azione.
Lo spettro cominciò ad aggirarsi per l’Europa nel 1848, l’anno in cui Karl Marx e Friedrich Engels con il loro Manifesto diedero vita ufficialmente al Partito Comunista. La Prima Internazionale rivoluzionaria arrivò nel 1864 e dopo una lotta iniziale per la supremazia contro gli anarchici, i comunisti ebbero la meglio accaparrandosi il monopolio della lotta per il sovvertimento dell’ordine vigente, quello uscito dalla Rivoluzione Francese del 1789 e che faceva perno sulla classe sociale cosiddetta della Borghesia.
La storia del Comunismo è la storia delle migliori intenzioni che nella vita reale diventano il pavimento dell’Inferno. Nel XIX secolo, il secolo delle rivoluzioni, l’ideale o utopia socialista dette per la prima volta nella storia dell’umanità speranza di emancipazione alla sterminata classe sociale che finalmente non venne più definita come plebe, ma diventò popolo: la marea umana di coloro che non avevano altra ricchezza che la propria prole, i “proletari”. Il Quarto Stato che le rivoluzioni borghesi avevano ignorato, a cui Marx ed Engels avevano dato speranza e strumenti di lotta, a cui Pellizza de Volpedo aveva fatto l’impareggiabile e suggestivo ritratto che lo consegna alla storia della pittura.
Nel XX secolo, per l’appunto, quando il tempo sembrò maturo per l’ingresso delle grandi masse sulla scena della politica attiva, ci fu una sola vera rivoluzione, quella bolscevica del 1917. Sembrò il trionfo del Comunismo. Fu la sua dannazione.
La storia della Russia è fatta di grandi tragedie, sofferenze inaudite subite da quel popolo. Il fatto che il Comunismo prendesse il potere per la prima volta in quel paese fu da una parte una conseguenza obbligata delle condizioni storiche: la tesi di Marx secondo cui il socialismo si sarebbe affermato nei paesi industrialmente più avanzati fu smentita dai fatti. In quei paesi il sistema si dimostrò più forte, reagendo – se del caso, come in Italia e Germania – con dittature feroci. Il Comunismo vinse dove lo stato, la società erano più deboli, l’economia più arretrata. Il guaio era che dai tempi di Ivan il terribile i russi erano abituati a spargimenti di sangue immani ad ogni svolta della loro storia. Quello purtroppo fu il modello che si affermò con Lenin e che il suo successore Stalin esportò fuori dai confini, nel resto del mondo caduto sotto il controllo dell’Armata Rossa.
Il Comunismo era stato per la Russia la fine del plurisecolare atroce dominio zarista, il Medioevo barbarico portato fino ai giorni nostri. Per sopravvivere prima e per affermarsi poi a livello internazionale dovette però incarnarsi in un regime assassino, non meno spietato di quelli che si era fatto avanti a rovesciare. Dopo il 1945 poteva venire il suo momento. Arrivò invece il momento della resa dei conti, il mondo reagì con la paura di “Baffone”, dei suoi cosacchi, delle sue purghe e delle sue “democrazie popolari”. Et pour cause.
La vita della mia generazione è stata quella dei dissociati, divisi tra la repulsione per una ideologia che al di là delle intenzioni produceva dolore e morte quanto e più del nazifascismo (non foss’altro per il lasso di tempo avuto a disposizione) ed il fascino esercitato da tante brave persone tra familiari e conoscenti che – ripeto, degnissime e capacissime persone -  apparivano assolutamente convinte di quell’ideologia e di chi si dava da fare per farla trionfare. Da un lato i racconti degli istriani sopravvissuti alle foibe di Tito e dei rarissimi profughi dall’Est, dall’altro la buona fede di tanti comunisti che in effetti con il loro stile di vita qualche messaggio in termini di possibilità di convivenza migliore lo lanciavano.
Pietro Ingrao non ha cambiato idea fino al suo ultimo giorno di vita. Per lui la politica attiva era finita insieme al Partito Comunista Italiano. Lui era un uomo di un’altra generazione, di un’altra epoca. Ma sono stati tanti quelli che attraverso le generazioni anche successive hanno continuato a credere in ideali che probabilmente vanno al di là delle incarnazioni che la storia ha concesso loro. Un po’ come confondere il Cristianesimo con la sua attuazione pratica bimillenaria, il Cattolicesimo. Due cose completamente diverse. Inevitabile però, per quanto sbagliata, la fatale commistione.
Questa gente merita rispetto come il vecchio partigiano a cui è stata data sepoltura pochi giorni fa. Anche se non si può dimenticare il dolore che indirettamente le loro idee hanno provocato. Ma mai quanto quello che provocherà la totale mancanza di idee, di scrupoli degli eredi, quelli che nel 1991 si scoprirono “post” insieme ad Achille Occhetto, con il loro spregiudicato laburismo all’italiana.

Si può avere rispetto per Pietro Ingrao e per la sua generazione, almeno per la parte che non fu assassina. Del resto, cambiare idea non è di per sé un pregio n senso assoluto, è semmai un dono che ti viene o non ti viene dato. Una cosa è certa, nessuno avrà rispetto per la generazione dei D’Alema, dei Mussi, dei Bersani, delle Finocchiaro, e infine dei Renzi. Prima ancora della famiglia dello Zar, viene da pensare che sarebbero stati proprio loro i primi bersagli delle epurazioni di Lenin e di Stalin. Ed in quel caso con qualche fondata simpatia da parte del pubblico di ogni ordine di posti.

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