lunedì 7 marzo 2016

Il nome che porto

Quell’anno la Colombina non aveva fatto scoppiare il Carro. Come dicevano i vecchi, era un presagio infausto. Significava disgrazia in arrivo.
La notte tra il 3 ed il 4 novembre 1966 l’Arno ruppe gli argini in vari punti del suo corso, dopo una settimana abbondante di piogge torrenziali. Non fu il solo a farlo, mezza Toscana andò sott’acqua. Ma dalle prime ore di quella mattina del 4 novembre all’opinione pubblica di tutto il mondo restò impressa, e fatalmente finì per interessare, una cosa sola: sott’acqua c’era andata tutta Firenze.
Appena le acque dell’Arno si ritirarono, la città che era diventata Venezia per un giorno si ritrovò ridotta come il Padule di Fucecchio. Una marea di fango, detriti e suppellettili. Una marea di gente che piangeva disperata per tutto ciò (e in alcuni casi ancora più drammatici per tutti coloro) che aveva perso, mentre si rimboccava le maniche per cominciare a riaprirsi la strada verso la sopravvivenza e una vita normale.
Da sinistra verso destra: Borri Mario, Angelo e il piccolo Simone
Mio padre lavorava al Provveditorato alle Opere Pubbliche, in Via de’ servi 15. Un palazzo storico, splendido dentro e fuori come solo i palazzi del centro di Firenze possono essere, figli di una nuova epoca classica dell’arte rinnovata dall’antica Grecia in Toscana dalla famiglia Medici. Mi ci aveva portato da bambino, quando la mamma non poteva tenermi a casa. I nonni, anziani, erano lontani, a Siena. Le nonne se n’erano appena andate. Io giocavo da solo nei corridoi e negli androni di quel palazzone aspettando che il babbo finisse di lavorare.
Ce ne fu per lui di lavoro dopo quel 4 di novembre. Non ebbe più orari. Si ritrovò ad essere uno dei tre funzionari a cui fu messa in mano la ricostruzione di Firenze e del resto della Toscana, oltre al risarcimento dei danni ai privati. Circa 33.000 pratiche soltanto per l’abitato di Firenze. Lui, Nello Riccio (il padre di quel dottor Mario che molti anni più tardi avrebbe misericordiosamente aiutato Piergiorgio Welby a porre fine alle sue sofferenze, allora mio amico d’infanzia) e Francesco Sirgiovanni (con cui avrei avuto il piacere di lavorare 20 anni più tardi, imparando un mestiere che loro avevano dovuto mettere a punto allora, in mezzo al fango e ai disastri dell’Alluvione).
Ognuno di loro tre si ritrovò a gestire risorse ingenti, per far fronte a danni ingenti. Prima che arrivassero gli Angeli del Fango e il resto del mondo. Mio padre da solo si ritrovò in mano – mi racconta sempre la mamma, orgogliosa – circa sei milioni di lire di allora per affidare a trattativa privata le opere di ripristino. La quantità di denaro che gestì poi per risarcimento ai privati è incalcolabile. Sempre più orgogliosa, la mamma continua a dirmi che di quei soldi neanche una lira finì in casa nostra. Lo stipendio di mio padre allora si aggirava sulle 50.000 lire al mese. Le entrate di casa mia rimasero quelle.
Mio padre non ha mai avuto una onorificenza della Repubblica, né allora né dopo. Non lo ricorda nessuno, se non coloro che – se sono ancora vivi – sanno ancora oggi che ebbero la fortuna di capitare provvidenzialmente alle mani di quel giovane funzionario che di quei 33.000 si ricordava nome, cognome e numero di pratica, e che a tutti assicurò giustizia e risarcimento al meglio che poteva. L’unica onorificenza è la nostra memoria, di noi di famiglia che non abbiamo avuto altro in eredità che il frutto del suo lavoro, ma soprattutto un nome da portare con orgoglio, come pochissimi altri a Firenze allora e dopo si sono potuti permettere di vantare.
Quando nel 1972 il primo aprile passò alla Regione Toscana insieme a molti altri impiegati per effetto del decentramento amministrativo finalmente attuato quell’anno, Mario Borri era già un nome conosciuto e rispettato dentro e fuori i pubblici uffici. Di quella Regione fu a buon diritto uno dei padri fondatori. Un membro di quella elìte che poté aggiungere a quanto aveva già fatto l’orgoglio di aver messo su dal nulla una macchina amministrativa che tutta l’Italia allora ci invidiava.
Il bambino che aveva giocato nell’ufficio del babbo negli anni dell’Alluvione adesso era diventato un ragazzo che andava a trovare il babbo nel nuovo ufficio, il palazzo allora ancora in costruzione a Novoli. C’era solo, terminato, il palazzo A, quello più lontano dalla strada. Il palazzo B era uno scheletro e io sono stato uno dei primi a metterci piede, assieme a mio padre. A quel tempo il processo di maturazione di quel ragazzo che ero stava giungendo a compimento. L’orgoglio che provavo per quel padre mi ha segnato la vita, perché adesso capisco perfettamente che avevo deciso già allora di tentare di seguirne le orme. Di essere come lui.
Sono stato, adesso lo so, un grande presuntuoso. Non era pensabile di lavorare dove aveva lavorato un padre così, con tutto quello che aveva fatto e che inevitabilmente sarebbe stato un termine di paragone schiacciante nei miei confronti. Chi lo aveva stimato magari avrebbe trasferito su di me stima e affetto, rendendomi la mia strada più facile di quello che avrebbe dovuto essere. Chi lo aveva invidiato o – più o meno segretamente – avversato, avrebbe atteso di presentare a me un conto che non aveva potuto presentare a lui. Come puntualmente avvenne.
Le difficoltà nella vita fortificano, fanno bene. Ma non erano quelle che avrei avuto se avessi scelto qualsiasi altro lavoro. Invece non vedevo altro, e al primo concorso che uscì, lo detti, lo vinsi, e cominciai un’avventura che non poteva portarmi da nessuna parte. Per 30 anni ho potuto fare una cosa sola: mantenere il cognome che ho ricevuto dal babbo così come me l’aveva passato lui, per poterlo passare a mio figlio intatto, con lo stesso valore incomparabile.
Ma non ho rimpianti. La storia che ho io ce l’hanno in pochi, in quel posto che adesso è finito in mano a una banda di occupatori di cariche pubbliche senza altra arte né parte che il diritto di preda che i razziatori si prendono con la forza. Quel posto dove l’insegna giace semisepolta nel fango, come la Statua della Libertà nel Pianeta delle Scimmie. Quel fango dove l’altro ieri giaceva la bandiera italiana, gettatavi da qualche operaio migrante di quelli che hanno fatto venire consapevolmente a gettarci nel fango tutti, con la compiacenza di qualche scherano che si ricorda del proprio dovere d’ufficio soltanto il 26 di ogni mese e quando il padrone ordina.
Il babbo, andato in pensione, non aveva voluto tornare neanche una volta in quell’ufficio che lui aveva contribuito ad edificare dal nulla. Quasi se lo sentisse che era destinato a questo tracollo e non volesse vederne neanche le prime avvisaglie. Di quell’ufficio che mi aveva mostrato orgoglioso da bambino e da ragazzo, segnandomi per sempre, non resta più nulla. Se non la memoria mia e ormai di pochi altri.
Come ogni anno, cerco di trascorrere la ricorrenza del giorno che se ne è andato lontano dal lavoro. Per non avere da passare questo giorno in quel posto. Che non sarebbe niente se non fosse stato per pochi uomini come mio padre, e che tuttavia di quei pochi uomini come mio padre non ha salvato niente.
Alla fine ha vinto il fango.

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