giovedì 17 marzo 2016

Ufficiali e gentiluomini



Chi siamo noi? Un ufficiale va in congedo soltanto temporaneo, provvisorio. Basta ritrovarsi una mattina nel Piazzale del Fante alla vecchia scuola (ma se per questo anche di fronte ad una qualsiasi bandiera tricolore), perché sensazioni e sentimenti che credevamo sepolti sotto trent’anni di vita civile tornino fuori prepotentemente. Come se avessimo lanciato i berretti in area pochi minuti fa, e invece di disperderci ai quattro venti fossimo rimasti in attesa dell’adunata successiva.
Ci ha messo trent’anni ad essere chiamata, quell’adunata. Ma invece che il 12 marzo 2016 sembrava il 14 marzo 1986. La mattina dopo il saluto del Comandante e la consegna dei gradi. Cancellati di colpo i ricordi, le ferite, le SAST a cui la vita ci ha sottoposto nel lungo percorso per ritornare qui, in questo Piazzale e poi poco più in là, sugli scalini della Tommaso Monti.
Hai voglia a stupirti dei segni impietosi del tempo, non solo sui nostri volti e sui nostri corpi ma anche e soprattutto sul Primo Battaglione. Quando entri, i tuoi occhi (malgrado le diottrie lasciate indietro e le lenti più o meno spesse che le hanno sostituite) vedono benissimo. Vedono la vecchia Cesano com’era, e come sarà sempre per noi.
Sulla sinistra c’è l’ufficio del Comandante Angelini, di fronte l’ingresso dello spaccio, a destra i corridoi e le camerate della Prima Mareth. Le stanze del capitano Foti e dei subalterni, poi il tavolo dello Scelto, poi ancora a sinistra le camerate del Primo Plotone e di seguito su per il corridoio quelle del Secondo, Terzo, Quarto e Quinto. Da un lato, a metà l’armeria, dall’altra la saletta della televisione a cui per avere accesso era necessaria una raccomandazione dello Stato Maggiore della Difesa (ho odiato veramente i nostri ufficiali istruttori una volta sola, una sera che si giocava Italia-Germania….).
Più avanti il magazzino, mi sembra ancora di veder uscire Davide Zanon con una tavola da surf sottobraccio il giorno della grande alluvione di Cesano, esclamando: “E venne il giorno della grande onda!”. Più avanti ancora, oltre il Quinto, l’Aula Magna, o come si chiamava. Quella che ti mettevano a pulire quando eri consegnato. Io ne feci la conoscenza subito, due giorni da Giorgio Gabrielli per schiamazzi durante il trasferimento a mensa. Da allora, quando mangio, sono compostissimo. Poi altri tre giorni da Michele Del Piero per aver lavato gli anfibi in bagno. Da allora, le mie case sono rigorosamente dotate di rimessa con lavabo, e le mie scarpe arrivano in casa perfettamente linde e lustre. Mi spiegò come fare, alla perfezione, il Capitano Foti, nell’udienza pomeridiana ai puniti.
Chi siamo noi? Che cos’è che ci tiene legati a questi posti? Non è solo il ricordo della nostra giovinezza. E’ qualcosa di più, di meglio. E prima o dopo l’abbiamo capito tutti. Qualcuno sabato confessava di essersi portato dietro una punta di – diciamo così – risentimento per qualche passo del leopardo in più rispetto a quello che sentiva come “dovuto”. Un nodo che solo rientrando a Cesano era riuscito a sciogliere, avendo finalmente compreso che tutta la sua vita successiva – nel bene e nel male, ma soprattutto nel bene – era partita da lì, da quel passo del leopardo.
Non ero il migliore del corso, non ho mai preteso di esserlo. Ma credo di essere stato uno dei primi a capire come funzionava Cesano e perché funzionava così. E ad andarmene il 13 marzo 1986 dalla scuola in pace con me stesso e con chi aveva fatto di me un ufficiale e un gentiluomo. In pace ed in gratitudine. Con la speranza un giorno semmai di rivedere gli istruttori AUC di ogni grado, e di poter dire loro queste cose.
Sapevo perfettamente perché ero lì, e perché dovevo sputare sangue. Ero lì perché l’avevo chiesto io, ma sapevo esattamente cosa avevo chiesto. Quella era una scuola di guerra. Una scuola per ufficiali dell’esercito, in un’epoca in cui la guerra alle porte di casa nostra era ancora una ipotesi verosimile. In un’epoca in cui il servizio militare era tutt’altro che di moda. Dopo il 1943 non lo è più stato, chi ostentava una divisa era già tanto se se la cavava sentendosi dare del “fascista”. Chi parlava con orgoglio e trasporto del proprio servizio militare si vedeva emarginato, ridotto ai margini dei salotti e dei convivii della vita civile.
Niente e nessuno, pur arrivando alla stazione di Cesano o salendo sul pullmann a Viale Giulio Cesare a Roma con le migliori intenzioni, ci aveva preparati a quello che ci aspettava. Dal momento in cui varcavamo la porta carraia della scuola, dal primo urlo con cui venivamo accolti un istante dopo, il mondo in cui eravamo precipitati non aveva niente in comune con quello in cui eravamo vissuti fino ad allora. C’è una frase del capitano Foti riportata nel giornalino del corso, l’intervistatore gli chiede quale è la sua soddisfazione più grande, e il capitano risponde: “trasformare dei giovani, timidi studenti in sicuri comandanti”.
Ecco cosa eravamo. Dei giovani, timidi studenti che avevano vissuto in un mondo immerso in una pace artefatta e illusoria. Alcuni avevano alle spalle una freschissima Maturità. Altri una Laurea, come me, e qualcuno che aveva già cominciato a chiamarci “dottore”. Tutti dovevamo “riprogrammarci” nel più breve tempo possibile, con ogni mezzo lecito ai sensi del codice militare, per diventare persone in grado di difendere con le armi il proprio paese. Difendere e far difendere, perché comandare – come dice ancora il capitano Foti in quell’intervista – è la cosa più difficile che ci sia. Molto più facile ubbidire.
Ecco cosa siamo diventati. Gente in grado bene o male di dire ad altri – in qualunque attività si siano messi – cosa devono fare e perché, di dirlo con fermezza e con le dovute maniere. Di ottenere risultati da altri. Il destino ha voluto che nella nostra epoca nessuno di noi ha dovuto prendere le armi per difendere la propria casa, la propria famiglia, la propria patria. Poteva succedere, e ci piace pensare che saremmo stati pronti. Nella nostra epoca invece, la vita civile ci ha chiamati spesso a lavori difficili, frustranti, funestati dalla vigenza di strategie e tattiche assurde, idiote a volte, e dalla presenza in comando di individui che non avevano altro merito che quelle raccomandazioni che a Cesano ci davano, a torto o a ragione,  tanto fastidio. E non avevamo ancora visto nulla.
Farsi una collina di Sant’Andrea a passo di leopardo serviva a questo. Farsela a 40° o a 0° centigradi, dopo una giornata di addestramenti che non avevano scherzato, con la prospettiva in caso di fallimento di andare incontro a punizioni ancora più dure, serviva ad andare oltre i propri limiti. Perché in guerra un nemico non ti perdona, se vede un tuo punto debole è lì che colpisce. E il tuo punto debole è il punto debole di tutta la tua squadra, di tutti i compagni che confidano su di te per riportare a casa anche la loro pelle.
Nella vita civile è la stessa cosa, nessuno ti perdona niente e tutti aspettano il tuo punto debole per colpirti. E gli amici, quelli veri, quelli che possono darti una mano sono pochi. Si contano forse soltanto sulle pagine di un giornalino di corso A.U.C. Ma nessuno è più abituato a considerarlo. Il servizio militare non esiste più, niente prepara più i nostri figli e le nostre figlie ad esercitare valori diversi da quell’individualismo assoluto che impera adesso. “Dopo di me, attorno a me, il diluvio”. Noi sapevamo sempre che, durante un assalto come una esfiltrazione, come una guardia armata o una semplice corvée o una andata a mensa, alla nostra destra come alla nostra sinistra c’era sempre un compagno pronto a darti una mano e ad aspettarsela da te. Nel buio di quelle notti gelide dell’inverno 1986 non eravamo mai veramente soli. Dopo, lasciata Cesano ed il servizio, ci siamo ritrovati più soli che mai. Il mondo cambiava, ed a far fronte a quella solitudine che avanzava, di nuovo nessuno ci aveva preparati.
Ecco che cosa siamo. Quelli dell'ultima generazione entrata a Cesano per uscirne ufficiali e gentiluomini. Non c'é bisogno di aggiungere altro. Ho impiegato un sacco di parole per dirlo. Credo comunque che ad ognuno di noi sia bastato riguardarsi negli occhi sabato mattina scorso per capire in un lampo tutte queste cose. O forse, le sapevamo già tutti. Da sempre.


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