martedì 8 marzo 2016

Le donne non vogliono più far festa



In queste ore, una parte consistente degli abitanti di questo paese si sta recando dal fioraio per acquistare il rametto di mimosa. Un’altra parte, altrettanto consistente, si aspetta di riceverlo al più tardi stasera. Sono le due metà del cielo di cui parlava il Grande Timoniere, Mao Tze Tung. I maschi e le femmine. Il rito è quello che si rinnova ogni anno, inesorabile e irrinunciabile come il Festival di Sanremo, come l’elezione di Miss Italia. E’ la Festa della Donna, che si celebra in tutto il mondo occidentale in ossequio alla femmina della nostra specie. Contenti i fiorai, un po’ meno le donne (almeno la parte più avveduta) e arrivederci all’anno prossimo.
Come ogni festività che si rispetti, il posto che occupa nel nostro calendario si basa probabilmente su un equivoco storico. Alcuni la fanno risalire all’incendio che nel marzo del 1911 sterminò gli operai della Triangle Shirtwaist Company, una fabbrica di camicie di New York che giustappunto impiegava in maggioranza donne. Altri la vogliono ascrivere alla ricorrenza dell’8 marzo 1917, giorno in cui le donne di San Pietroburgo andarono incontro ai cosacchi dello Zar aspettandosi di essere massacrate, un destino comunque non molto peggiore rispetto alla morte per fame imminente, nella Russia messa in ginocchio dalla Grande Guerra. Andò bene, i cosacchi non caricarono, il regime zarista era agli sgoccioli anche per loro. Cominciò la rivoluzione russa, ma quella data fu consacrata anni dopo come la Giornata Internazionale della Donna.
Ma è sul significato di questa festa che si è creato fatalmente l’equivoco più grande, più mistificante. E’ il giorno – così sembra – in cui abbiamo qualcosa da farci perdonare dalle nostre donne, e per questo ci presentiamo a casa con il mazzolin di fiori. Poi da domani, business as usual. Chi maltratta riprende a maltrattare, chi discrimina a discriminare, chi stupra a stuprare.
Le stesse donne ci mettono del loro, cercando nella loro rincorsa ad una parità dei diritti apparente e non reale di assomigliare sempre di più all’archetipo maschile, perdendo di vista il loro femminino”. Acquisendo gli aspetti peggiori della competitività tipica del mondo del lavoro maschile e lasciandosi dietro alcuni di quelli migliori tipici della sensibilità femminile. Oppure virando decisamente verso un uso improprio dei doni elargiti da Madre Natura a fini di carriera.
Le icone della generazione femminile che lottava per la liberazione sessuale e l’emancipazione da una condizione subalterna rispetto al genere maschile erano tutte donne che avevano messo in mostra soprattutto la testa: madame Marie Curie, Maria Montessori, Rita Levi Montalcini, Florence Nightingale, Nilde Iotti. Le icone di una generazione ormai omologata alla degenerazione dei valori allo stesso pari dell’altro sesso, più che liberata ed emancipata, sono donne che hanno avuto bisogno di mostrare qualcos’altro, perché altrimenti ben altre teste sarebbero al loro posto. I modelli ormai sono Maria Elena Boschi, quando va bene, o Nicole Minetti quando è andata peggio.
Suffragette a New York nel 1908
E comunque, se rapportiamo il discorso all’intera popolazione mondiale, la festa dell’8 marzo e del rametto di mimosa costituisce un fenomeno di nicchia. I tre quarti del mondo vive ancora in condizioni normali di arretratezza spaventose, quando non addirittura rese infernali da guerre e fanatismi religiosi. Di quei tre quarti, la metà abbondante costituita dalle donne vive – da un punto di vista dei diritti personali – in uno stato di medioevo barbarico senza alcuna speranza di redenzione. Sottomesse ad una cultura (così insistiamo a chiamarla, cultura) indegna e immutabile come le caste indiane, prima ancora che alla controparte maschile appena un po’ meno abbrutita e brutalizzata per il fatto di poter almeno guidare una macchina (quando la possiede) o uscire in strada senza la scorta/supervisione di nessuno.
Questo è il mondo che l’8 marzo 2016 festeggia questa ricorrenza, oppure ne ignora completamente l’esistenza. Due anni fa su queste colonne Paola Stillo aveva raccontato la condizione delle donne afghane, ricacciate indietro nel medioevo dai Talebani e faticosamente spinte a riaffacciarsi alla modernità dall’intervento occidentale. L’anno scorso un barlume di speranza ce lo aveva offerto il racconto dell’epopea delle donne di Kobane, a cui al posto della mimosa la cosiddetta Isis voleva regalare una fine atroce, per evitare la quale avevano imbracciato il fucile a fianco dei loro uomini, senza se e senza ma.
Quest’anno tocca invece ad una brutta storia, tipica dell’occidente civilizzato in cui viviamo, o per meglio dire della sua versione all’italiana. Tocca al celebrato leader di quella parte politica - Sinistra, Ecologia e Libertà - che si è arrogata da tempo il merito presuntivo della difesa dei diritti delle donne e delle altre componenti sociali più svantaggiate, migranti, migrati e migratori. Lo schiaffo più sonoro in faccia alle donne - tutte, in quanto tali, che ne siano consapevoli o meno - viene da Nicky Vendola. Fresco di paternità surrogata assieme al suo compagno di vita, una paternità virtuale ottenuta mediante la pratica cosiddetta dell’utero in affitto.
L’ex governatore della Puglia, a pochi giorni da questa celebrazione delle magnifiche sorti e progressive delle donne, rientra in Italia dagli Stati Uniti assieme al suo compagno Eddy Testa sbandierando platealmente come fosse la Coppa del Mondo appena vinta un figlio ottenuto in virtù della legge nordamericana, che contrariamente alla nostra consente che una donna partorisca – dietro compenso – un figlio che andrà nello stato di famiglia di un’altra coppia, omo o etero che sia.
Di tutte le gaffes commesse da Vendola, per stabilire la più odiosa c’è l’imbarazzo della scelta. L’uomo politico pugliese si può permettere, in virtù dell’appartenenza ad una casta di intoccabili (nel senso opposto a quello indù del termine, cioè che non possono essere toccati, messi in discussione da nessuna autorità e nessuna legge), ciò che a qualunque altro dei suoi concittadini è vietato, pena sanzioni penali. Proprio nei giorni dell’approvazione controversa della legge Cirinnà sulle unioni e le adozioni civili, Vendola sbatte in faccia a tutti – come il Marchese del Grillo interpretato da Alberto Sordi – il suo stentoreo io sono io, e voi non siete un cazzo!. Viva la sinistra, viva l’ecologia, e soprattutto viva la libertà.
Poi ci sarebbe l’aspetto dei diritti del minore, sui quali – con buona pace del pluridecennale dibattito tra gli addetti ai lavori che pretenderebbe di orientare tutte le scelte legislative e giurisprudenziali – si può discutere e scannarsi quanto si vuole. Sta di fatto che il piccolo Tobia entra in Italia al seguito di due illustri sconosciuti, che non possono legalmente aspirare alla sua genitorialità a meno che qualche magistrato compiacente operi in suo favore una deroga. Riportando la situazione a quella già felicemente sintetizzata dal Marchese del Grillo.
Ma soprattutto, c’è proprio la questione dei diritti della donna. Una questione profonda, colta nella sua essenza – dispiace dirlo – solo da una parte delle interessate. E degli interessati, allo stesso modo. Perché alla fin fine una società che nega dignità ad alcuni dei suoi cittadini, la nega a tutti quanti. Da che mondo e mondo, le donne sono state purtroppo sempre affittate. Si chiamava, e si chiama, prostituzione. Uso del corpo femminile dietro compenso pecuniario. Chi come Vendola va all’estero a procurarsi un figlio partorito da ventre di donna, come si vede non fa niente di nuovo.
Non è un caso se la parte intellettualmente migliore, più consapevole di sé e delle proprie prerogative e diritti, dell’universo femminile - che già storce il naso ad ogni ripresentarsi di una data di calendario che a ben vedere ha senso soltanto per orto florovivaisti e fiorai - si sta schierando compatta nell’esprimere disgusto per l’utero in affitto e per chi come l’ex governatore Vendola non si è fatto scrupolo di affittarlo. Non è un caso se perfino la presidentessa della Camera Laura Boldrini, solitamente pasionaria di tutte le battaglie di SEL, stavolta s’è dichiarata quantomeno perplessa.
Negli anni settanta le donne in piazza gridavano il corpo è mio e lo gestisco io. Finalmente molte di loro stanno cominciando a usare anche la testa. Auguri a tutto il gentil sesso, ed anche ai maschietti. Che l’anno prossimo di questi tempi si possa festeggiare tutti insieme finalmente qualche progresso civile, sia delle donne che degli uomini. Altrimenti, a differenza di quel giorno a San Pietroburgo, l’avranno sempre vinta i cosacchi.

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