lunedì 21 aprile 2014

Addio Hurricane, campione del mondo di libertà

TORONTO (Canada) - Un giorno avrebbe potuto diventare il campione del mondo. Terminava così il ritornello di una delle più celebri canzoni di Bob Dylan, Hurricane, la ballata che il cantautore statunitense dedicò a metà degli anni settanta a colui che era diventato un’icona della battaglia per i diritti civili delle minoranze di colore in America, al pari di Mohamed Alì, Malcom X, Martin Luther King.
Rubin Carter, soprannominato Hurricane all’epoca in cui i suoi pugni devastanti ne avevano fatto uno dei principali pretendenti alla corona mondiale dei pesi medi nella Boxe, è morto il giorno di Pasqua nella sua casa di Toronto all’età di 76 anni, dopo aver combattuto l’ultima battaglia di una vita che di battaglie è stata piena contro il cancro alla prostata.
All’epoca in cui Dylan gli dedicò la sua chilometrica e suggestiva ballata, Carter era già in galera da quasi 10 anni, accusato ingiustamente dell’omicidio di tre persone e del ferimento di una quarta nel Lafayette Bar and Grill di Patterson , New Jersey. La storia è nota a chiunque abbia ascoltato la canzone, o visto il film che Denzel Washington ricavò nel 1999 dalle memorie del pugile scritte in carcere, The Sixteenth Round - from Number 1 contender to number 45472, e dagli atti della sua lunga lotta legale per ottenere il riconoscimento dell’innocenza propria e del ragazzo che la notte della strage era con lui, John Artis, che l’aveva avvicinato per avere un autografo o poco più e non poteva immaginare che ne avrebbe avuta la vita segnata al pari del suo idolo.
Carter era un ragazzo cresciuto nel ghetto di Patterson. Infanzia difficile come quella di tanti bambini neri, anche negli Stati del Nord. Riformatorio, fuga, arruolamento nell’esercito, congedo, di nuovo carcere, poi la scoperta della Boxe come mezzo di riscatto e l’ascesa nel ranking mondiale di WBA e WBC. Nei primi anni sessanta Hurricane era ad un passo dal titolo, che gli fu soffiato da un verdetto (contestatissimo da pubblico ed addetti ai lavori) di sconfitta ai punti contro Joey Giardiello. Aveva strapazzato poi quell’Emile Griffith che sarebbe poi stato il durissimo avversario contro cui il nostro Nino Benvenuti avrebbe conquistato il titolo nel 1967, quando ormai lui languiva in una cella da più di un anno.
Il 17 giugno 1966, circa un anno e mezzo dopo che i neri d’America avevano perso il primo dei loro leader, Malcolm X assassinato durante un discorso pubblico a Manhattan, non molto lontano da lì nella natia Patterson fu la volta di Rubin Carter di andare incontro al proprio destino. La sparatoria nel Lafayette che alcuni testimoni indicarono opera di due neri subito dopo in fuga su una macchina simile a quella su cui da un’altra parte della città stava tornando a casa Carter, fu l’occasione che poliziotti corrotti e istigati dall’odio razziale aspettavano da tempo, per trasformare il destino di gloria del indomabile e indocile pretendente al titolo mondiale in un destino infame da pluriomicida galeotto a vita.
Alfred Bello e Arthur Dexter Bradley, due delinquenti incastrati e manovrati dalla polizia, diventarono i testimoni chiave di un processo segnato fin dall’inizio, malgrado l’unico superstite della strage, con l’unico occhio buono rimastogli, avesse indicato chiaramente che Carter ed Artis non erano gli assassini. L’unica fortuna di Hurricane fu che nello stato di New York non esistesse la pena di morte, così ricevette ben tre condanne a vita, tante quante erano le vittime del Lafayette.
A nulla valse la mobilitazione dell’opinione pubblica, istigata da star dello spettacolo e dello sport che presero le parti di Carter, in un’epoca in cui le lotte per i diritti civili stavano progressivamente travolgendo un paese in cui ci si cominciava a chiedere se il vero nemico fosse il vietcong che i ragazzi americani andavano a combattere al di là del Pacifico, o non piuttosto qualcuno che stava lì a casa loro, ben protetto dalle istituzioni. Nel 1976, all’epoca del successo mondiale di una canzone – quella di Dylan – che diventò un cult per una generazione, Martin Luther King era stato ucciso da otto anni, Angela Davis e le Black Panthers avevano concluso la loro epopea rivoluzionaria da almeno cinque, stroncati dall’F.B.I. e da processi non sempre più equi di quello subito da Rubin Carter. E lo stesso Rubin si era visto condannare una seconda volta nella ripetizione del processo ottenuta invano dai suoi avvocati.
Perfino Mohamed Alì, che al pari di lui non si era fatto mai scrupolo di sfidare autorità ed istituzioni americane ad ogni livello, gli aveva dedicato pubblicamente una delle sue ultime vittoriose difese del titolo dei massimi, quella contro Ron Lyle. Tutto inutile, per l’ex ragazzo del ghetto di Patterson i giorni in cui doveva lottare per non perdere la ragione e la propria libertà interiore chiuso in una cella si susseguivano uno dopo l’altro, con l’unica prospettiva di durare quanto la sua vita.
La polizia controllava chiunque rimettesse mano agli atti del processo in cerca di nuove prove o per rivalutare quelle disattese tra il 1966 ed il 1976. Testimoni furono intimidati e costretti a ritrattare o a farsi da parte. Finché un altro ragazzino proveniente da uno dei tanti ghetti neri d’America riuscì a stabilire prima un rapporto epistolare e poi un’amicizia con lo sfortunato campione di cui aveva letto le memorie. E grazie agli amici canadesi che stavano aiutando lui stesso a studiare e ad uscire dal ghetto fornì a Carter quell’assistenza legale che finora gli era mancata.
Nel 1985 finalmente il giudice Haddon Lee Sarokin della Suprema Corte Federale dello stato di New York ebbe il coraggio di dichiarare iniqui e annullati i processi subiti da Carter, rimettendolo in libertà. John Artis era già stato scarcerato sulla parola nel 1981, in quanto imputato minore. Carter dovette attendere il 1988 finché la Pubblica Accusa di New York non gettò definitivamente la spugna rinunciando ad un terzo processo palesemente infondato, impopolare, e che sarebbe arrivato perfino dopo un pronunciamento della Suprema Corte Federale degli Stati Uniti favorevole sostanzialmente all’imputato.
Rubin Carter negli ultimi anni di vita
Rubin Hurricane Carter si traferì allora a vivere in quel Canada da cui gli era arrivato l’aiuto insperato quando sembrava ormai che la sua sorte fosse segnata e la sua vita rovinata per sempre. A Toronto, si impiegò attivamente nell’Associazione per la Difesa dei Condannati per Errore. Non potendo riavere indietro i vent’anni di vita trascorsi ingiustamente in carcere, trovò ragione di vita nell’evitare che altri dopo di lui conoscessero lo stesso inferno.
Nel 1993 la World Boxing Council (WBC), fatto unico nella storia della Boxe, gli conferì ad honorem la corona mondiale dei pesi medi, riconoscendo la fondatezza delle sue pretese sportive che erano state spazzate via la notte del Lafayette. Nino Benvenuti ha raccontato come senza Carter da affrontare la sua e l’ascesa al titolo di altri sia risultata oggettivamente molto più semplice. Hurricane ha avuto fama e successo coronando tuttavia nell’arco della sua vita tribolata un’impresa molto più grande della conquista di un titolo sportivo, per quanto prestigioso. La sua figura ricopre un posto nella storia civile d’America praticamente pari a quello di Mohamed Alì, il più grande.

Ma per quelli che erano ragazzi quando Bob Dylan compose la sua celebre canzone c’è un ritornello che ricorre nella testa, e toglie in fondo significato a tutto il resto, anche adesso che Carter ha finalmente trovato riposo. Un giorno avrebbe potuto essere il campione del mondo.

Nessun commento:

Posta un commento