mercoledì 1 luglio 2015

Storia dei presidenti della repubblica: Napolitano II (2013-15)

Narra la leggenda che la somiglianza fisica tra l’attuale Presidente della Repubblica e l’ultimo Re d’Italia Umberto II di Savoia non sia affatto casuale, sottintendendo una discendenza reale, ancorché illegittima, per colui che il Times ormai ha ribattezzato Re Giorgio e un noto settimanale politico italiano, scimmiottando la prestigiosa rivista americana Time, ha nominato “uomo dell’anno 2011”. Di leggende simili è pieno il mondo politico, come l’altra che vuole il giornalista Bruno Vespa figlio naturale del Duce (concepito durante la sua prigionia al Gran Sasso), anche in questo caso con nessun altro fondamento che una certa rassomiglianza.
Che Giorgio Napolitano fosse fuori dagli schemi lo si poteva intuire fin da quando Henry Kissinger lo definì il suo comunista preferito. E ancor prima di diventare migliorista, forse fin dagli esordi in politica. La Svolta di Salerno del 1944 lo aveva visto impegnato con il gruppo che fece rientrare clandestinamente in Italia Palmiro Togliatti, colui che sarebbe diventato il suo mentore una volta affiliato al P.C.I. Togliatti era un maestro della politica fuori dagli schemi, al limite della spregiudicatezza. Il suo appoggio clamoroso ad una monarchia traballante (e nelle cui patrie galere era morto pochi anni prima lo scomodo rivale Antonio Gramsci), per quanto dettato da ragioni tattiche, mostrò ad una generazione di comunisti che quando il fine giustificava i mezzi non c’erano regole o schemi che tenessero.
Il destino reale di Napolitano più che nella genetica era scritto nell’esperienza politica, dunque. Troppo giovane per far parte di coloro che scrissero la Costituzione, ha fatto in tempo a farsi promotore di provvedimenti che potrebbero averla stravolta per sempre. Dopo l’annus mirabilis 2011 in cui cavò dal cilindro il governo di salute pubblica di Mario Monti (mentre negli altri paesi europei analoghi governi venivano più propriamente cavati dalle sorgenti naturali, le urne elettorali), il bello aveva ancora da venire, per dirla con Barack Obama, un altro presidente di repubblica assai amante della retorica fine a se stessa.

Nel febbraio 2013, una delle legislature più controverse e sofferte era finalmente arrivata a scadenza, ma le urne elettorali - non più rimandabili o evitabili - avevano dato come responso uno stallo clamoroso: entrambe le Camere divise in tre parti uguali tra Partito Democratico, Popolo delle Libertà e Movimento Cinque Stelle, la nuova formazione fondata dallo showman Beppe Grillo su cui si era riversato il malcontento e la protesta di chi non aveva da ringraziare il salvatore della patria Mario Monti e il suo deus ex machina del Quirinale e tuttavia non se la sentiva di ingrossare le fila dell’astensione (corrispondente ad un altro quarto dell’elettorato).
La pantomima dell’incarico a Bersani, giustificato da quei pochi voti in più presi dal PD al fotofinish elettorale (complice anche il meccanismo di attribuzione dei seggi non a caso definito Porcellum), trascinato per quasi un mese senza esito dall’interessato tra il rifiuto di alleanza ricevuto da Grillo e quello opposto ad un Berlusconi seduto sulla sponda del fiume, era poi stata seguita dall’incredibile nomina dei cosiddetti Dieci Saggi, un organismo di cui non si trova traccia in nessun dettato costituzionale né in alcuna prassi conseguente. L’escamotage, che di altro non si trattava chiaramente in quel momento, poteva spiegarsi soltanto come un voler prendere tempo in attesa della scadenza del mandato presidenziale, non potendo a causa del semestre bianco e comunque non volendo Napolitano sciogliere di sua iniziativa le Camere.
Il 15 aprile, un mese prima di quella scadenza, il Parlamento in seduta comune si riunì per eleggere il nuovo Presidente, che sarebbe stato il dodicesimo della storia. Il gioco stavolta era chiaro: trovare qualcuno che andasse bene sia al centrosinistra (determinato a non perdere l’esiguo vantaggio elettorale) che al centrodestra (determinato a far fruttare la sua posizione di ago della bilancia) e che tagliasse fuori i Cinque Stelle, più che mai determinati ad agire in funzione anti-sistema ed anti-casta. Tra le figure proposte allo scopo, non era infrequente quella di un Napolitano bis, a cui peraltro l’interessato in un primo momento aveva risposto picche. A quasi 88 anni, l’inquilino del Colle sognava di ritirarsi a occuparsi dei nipoti, e con lui e per lui lo sognava probabilmente tanta gente che non aveva molto di che ringraziarlo per questa patria salvata a così caro prezzo negli ultimi due anni.
La Costituzione italiana non dice niente a proposito della rielezione del Presidente in carica. E com’è noto, nel diritto ciò che non è espressamente vietato è permesso. I costituzionalisti in una prima fase si affannavano a sostenere che i padri costituenti non desideravano in linea di principio la rielezione, un mandato lungo quattordici anni sarebbe stato troppo lungo. Ma a parte il fatto che se i costituenti desideravano una cosa del genere avrebbero potuto scriverla e nessuno avrebbe potuto impedirglielo, i costituzionalisti di mestiere trovano le giustificazioni quando le cose sono già successe. Due mesi dopo i loro discorsi sarebbero stati di segno del tutto diverso.
Nelle prime votazioni, la situazione precipitò in maniera tale da scompigliare tutti i giochi. La nomenklatura PD presentò alcuni candidati su cui non era d’accordo nemmeno con se stessa, rimediando una figuraccia epocale e forse compromettendo seriamente lo stesso avvenire del partito. Dapprima Franco Marini e poi Romano Prodi furono esposti al pubblico ludibrio di una bocciatura nata principalmente in casa propria. Nel secondo caso, la sera del 19 aprile l’aria che si respirava nella sede PD era di disperazione. E fu allora che il cavalier Berlusconi decise di agire, calando l’asso.
Colui che da due anni si era posto come il salvatore della patria non poteva resistere alla sollecitazione di un nuovo intervento in tal senso. L’offerta di una riconferma di Napolitano, avanzata dal PDL e prontamente accettata da un PD in stato preagonico, fu accolta nel breve volger di una notte dallo stesso Napolitano. Per spirito di servizio ovviamente. Ogni obiezione costituzionale cadde come per magia, il 20 aprile il presidente uscente fu riconfermato, stabilendo un record storico grazie ai voti dei democratici e del centrodestra. Si consumava l’ultima farsa, che vedeva l’ex comunista Rodotà sostenuto dal Movimento Cinque Stelle e dagli ex alleati del PD Sinistra Ecologia e Libertà contro il suo partito che presentava un altro ex comunista ma voluto da Berlusconi.
Con questo viatico poco rassicurante, Giorgio Napolitano prestò il suo secondo giuramento da Presidente della Repubblica il 22 aprile 2013. La sera prima a Montecitorio una folla inferocita fu controllata con una certa apprensione dalle forze dell’ordine schierate a difesa del palazzo, mentre Beppe Grillo, che aveva promesso di essere in piazza con i manifestanti, fu fermato da una telefonata di qualche autorità che gli sconsigliò la comparsata per motivi di ordine pubblico.
Nel discorso di insediamento, Giorgio Napolitano dette un ultimatum alle forze politiche che l’avevano rieletto che meritava oggettivamente una sorte migliore fin dal giorno dopo essere pronunciato, malgrado l’applauso scrosciante e surreale ricevuto sul momento dall’auditorium. Ma del resto, uno dei suoi primi atti fu la nomina del governo Letta, da lui incaricato sulla base delle cosiddette larghe intese e poco tempo dopo ribattezzato ironicamente il governo senza fretta. Ed era più che evidente che ciò faceva parte del pacchetto comprendente la sua stessa rielezione.
L’uomo che ha compiuto da poco 88 anni e a cui non c’era alternativa, secondo la nostra classe politica, per succedere a se stesso è il simbolo di un mondo e di un’epoca che sono arrivati alla scadenza, ma che non vogliono o non possono abdicare a se stessi, sopravvivendosi secondo un fenomeno storico già osservato più volte. Del resto, la stessa storia ci insegna che sono i popoli in genere a costringere i propri governanti ad abdicare. Nessuna casta ha mai fatto la rivoluzione contro se stessa.  Nessuna costituzione è mai stata riformata da coloro che (magari in modo distorto) ne traevano i maggiori benefici. E nessun capo di stato rinuncia alla corona, se non costretto.
Come avrebbe detto il re d’Italia, in Casa Savoia si regna uno per volta. E’ ancora il tempo di Giorgio Napolitano, dunque, ma per quanto? 

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