mercoledì 1 luglio 2015

Sergio Mattarella eletto Presidente, la Balena Bianca torna al Quirinale

Moriremo democristiani. Sergio Mattarella è il dodicesimo Presidente della Repubblica Italiana. L’applauso parte alle 12,58, allorché la presidentessa del Parlamento in seduta comune Laura Boldrini legge per la cinquecentocinquesima volta il suo nome sulle schede scrutinate a seguito della quarta votazione, la prima nella quale è sufficiente la maggioranza assoluta e non più quella dei due terzi.
In realtà, i consensi ottenuti dal professore palermitano ammontano alla fine dello scrutinio a ben 665, quasi il numero necessario a farlo trionfare già alla prima votazione. Ma le prime tre votazioni sono servite alla nostra classe politica per regolare tutti i conti in sospeso al proprio interno, e per stabilire quelli che saranno in sospeso nel prossimo futuro. Così funzionano le cose nella nostra democrazia “parlamentare”.
E’ una delle elezioni più veloci della storia d’Italia. I giorni della Merla sono stati sufficienti a stabilire chi sarà il capo dello stato dal 2015 al 2022, raccogliendo la difficile eredità di Giorgio Napolitano. E anche a stabilire il fatto che la si può chiamare come si vuole, la si può riformare quanto si vuole (o far finta di farlo): la Repubblica, seconda o terza che la si voglia definire, in realtà è sempre la prima.
La Balena Bianca risorge dalle sue ceneri riportando un suo uomo al Quirinale 16 anni dopo Oscar Luigi Scalfaro. Non è un caso che tra i pochi passanti intervistati dai media in Piazza Montecitorio l’unica cosa di positivo che cittadini distratti trovano da dire a elogio del neo-Capo dello stato è un aggettivo qualificativo tra i più generici e tra i più abusati in questo paese: è una persona “onesta”. Stessa cosa si disse di Scalfaro, stessa mancanza di altre qualità, umane e politiche, da farsi venire alla mente, così su due piedi.
Sergio Mattarella è un politico di lungo corso, la cui carriera cominciò forse il giorno in cui il fratello Piersanti, allora presidente della Regione Sicilia, fu ucciso dalla mafia in un agguato il giorno dell’Epifania del 1980. La famiglia Mattarella era allora considerata a Palermo una sorta di famiglia Kennedy locale, un po’ come i Matarrese a Bari. Il padre Bernardo era stato il capostipite della dinastia politica, ministro nei governi De Gasperi. Era stato per la verità accostato anche ad ambienti e personaggi meno raccomandabili, Gaspare Pisciotta – ex braccio destro del bandito Salvatore Giuliano – aveva fatto il suo nome tra i responsabili dell’eccidio di Portella delle Ginestre, la strage mafiosa di braccianti avvenuta il 1° maggio 1947 nell’isola. Le responsabilità di Mattarella senior non erano poi state peraltro confermate da nessuna indagine successiva.
Per quanto le vicende della Democrazia Cristiana in Sicilia necessitino da sempre del ricorso alla massima cautela in sede di analisi storica, nessuno ha invece mai avuto dubbi che il figlio maggiore Piersanti sia stato nient’altro che la prima vittima di quel bagno di sangue immane che portò all’inizio degli anni 80 i Corleonesi ad assumere la leadership della mafia siciliana e della guerra successiva allo Stato.
Il 6 gennaio del 1980 il giovane professor Sergio decise di seguire le orme del fratello Piersanti appena crivellato di colpi dal killer delle cosche. E lo fece nell’unico partito possibile, almeno dalle sue parti. Sergio Mattarella, ordinario di diritto all’Università di Palermo, divenne ben presto un notabile dello Scudo Crociato. E lasciò subito un segno di sé sulla Repubblica che un giorno sarebbe stato chiamato a guidare. Nel 1990 fu tra i ministri del Governo Andreotti che si dimisero per protesta contro la Legge Mammì, quella che in pratica consacrò l’esistenza delle reti Mediaset a pieno titolo e a pari peso con la RAI.
Nel 1993 fu l’autore della proposta di legge di riforma del sistema elettorale che prese il suo nome. Il Mattarellum dette in apparenza attuazione al referendum consultivo con cui gli elettori italiani avevano chiesto la sostituzione del sistema elettorale proporzionale con quello maggioritario. Ma lo fece alla maniera democristiana, lasciando una quota proporzionale del 25% che era volutamente una mano tesa alla Balena Bianca ed agli altri partiti della prima repubblica che di lì a poco avrebbero visto stilare il loro certificato di morte. Almeno in apparenza.
Nel ventennio in cui la vita politica italiana è stata egemonizzata da quel Silvio Berlusconi il cui impero economico Sergio Mattarella avrebbe voluto strozzare nella culla molto volentieri, il professore onorevole si orientò verso un cursus honorum giudiziario. Dapprima membro di vari comitati parlamentari, poi giudice costituzionale, era uno di quei post-democristiani a cui i post-comunisti avevano consegnato da tempo le chiavi del partito democratico. Inevitabile che il suo nome ricorresse più o meno ad ogni elezione presidenziale degli ultimi decenni, e che prima o poi risultasse essere quello giusto. L’attuale segretario del PD, il Renzi triumphans di cui parlano le cronache degli ultimi mesi e soprattutto degli ultimi giorni, è uno stesso esponente della sua specie politica, a cui non è parso vero di giocare una carta (peraltro accuratamente tenuta nascosta fino all’ultimo) così facile e così produttiva.
Matteo Renzi esce da Montecitorio accreditato di una vittoria clamorosa, con corrispondente sbaraglio di tutti gli altri attori, amici o nemici che siano. La scelta di ricompattare un partito democratico che già in occasione delle precedenti elezioni presidenziali aveva mostrato di cosa era capace (soprattutto contro se stesso) appare pagante nell’immediato, anche se lo riconsegna in ostaggio di quella minoranza interna e di quell’alleato – o presunto tale – esterno, il S.E.L. di Vendola, che presto gli presenteranno il conto.
Silvio Berlusconi viene dato per il maggiore sconfitto di questa tornata elettorale presidenziale. In realtà, il leader di Forza Italia sconta in parte la sua condizione di capo politico in libertà vigilata, almeno finché la sentenza Mediaset produrrà i suoi effetti. Sconta inoltre l’assenza di scrupoli e la spregiudicatezza del suo giovane epigono toscano, che se da un lato fa il paio soltanto con quella mostrata da lui stesso ai tempi d’oro, dall’altro si spinge fino a tirare la corda del cosiddetto Patto del Nazareno alla massima tensione possibile. Cosa succederà quando – presto, ad occhio e croce – il presidente del consiglio Renzi avrà bisogno per le sue riforme e le sue leggi e leggine dei voti di Forza Italia in sostituzione di quelli che il suo partito tornerà a fargli mancare? A Silvio, o a chi per lui, l’ardua sentenza.
Sono ben più rotte comunque le ossa con cui escono Angelino Alfano e il Nuovo Centrodestra da queste giornate della Merla. L’ex delfino di Berlusconi ha dimostrato una disponibilità al compromesso degna di un Mastella d’annata. E una capacità di sottomissione ai diktat di Renzi (o Mattarella o fuori dal governo) che ne hanno fatto giustamente – secondo una definizione estremamente azzeccata proveniente dal Transatlantico di Montecitorio – lo Schettino di questo Quirinale 2015.
Il resto dell’emiciclo resta seduto mentre la Grosse Koalition applaude Sergio Mattarella Presidente della Repubblica. Ma se la Lega esce dall’aula con la faccia pulita di Matteo Salvini che si è chiamato fuori per tempo da questa sceneggiata in seduta comune e che potrà presentarsi con buone chance davanti ad un paese/elettorato che vi ha assistito distratto e sconcertato dai riti di una Casta ormai impresentabile, il Movimento Cinque Stelle si consacra ormai come quella banda sbandata che da due anni a questa parte non ne indovina più una, chiuso nel suo Aventino mediatico. A Sergio Mattarella contrappone infatti un altro arnese da prima repubblica come Ferdinando Imposimato, un altro che in questo paese ha contribuito tra l’altro a mantenere diritto e giustizia sulla falsariga della messa in latino prima del Concilio Vaticano II. Più fastidioso dell’atteggiamento dei grillini c’è solo la voce monocorde di Laura Boldrini, che officia questo rito circondata esclusivamente dalle sue ancelle.
Chissà se c’è uno soltanto dei 1.008 grandi elettori che si chiede stasera, mentre si affretta al paesello natio (a spese dello Stato) ed al meritato riposo, se quel rito officiato nella Basilica di Montecitorio abbia ancora un senso per la plebe immensa ammassata nei villaggi e nelle piazze italiane, che si vede nominare da un senato ormai discreditato al massimo questo ennesimo imperatore scovato nelle aule sorde e grigie di un potere lontano, ingiustificabile, osceno ai più.
E mentre Sergio Mattarella, con la sua aria un po’ sinistra e un po’ sorniona, che sembra dire “ho visto cose che voi umani non potete immaginare”, si appresta a vivere i suoi ultimi due giorni da privato cittadino prima del giuramento da prestare lunedi prossimo alla Camera, neanche un giornalista che gli chieda – e si chieda – come mai non abbia nemmeno da fare la fatica di recarsi al Quirinale dopo quel giuramento. Perché ci vive già. Nella foresteria, come gli spetta in quanto giudice costituzionale. O tempora o mores.
La settimana che si è aperta con le elezioni in Grecia si chiude con quelle del Presidente in Italia. Domenica il popolo ellenico è andato a votare, lunedi ha proclamato la vittoria di Alexis Tsipras, che martedi ha giurato e si è insediato. E venerdi ha già denunciato tutti gli accordi capestro con la Trojka europea e i vari Quisling della Germania. Che differenza con il nostro Matteo Renzi, uno di quei Quisling che nessuno ha votato, che nei giorni della Merla ha fatto eleggere presidente un altro che come lui ha visto giorni migliori e che probabilmente vorrà rivederli.
Moriremo DC.

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