mercoledì 1 luglio 2015

Storia dei Presidenti della Repubblica: Napolitano, il comunista liberale

“Non possiamo non dirci liberali”. Con questa frase, retorica come nel suo stile, Giorgio Napolitano ha riassunto la sua vita in apertura della lunga intervista concessa ad Eugenio Scalfari pochi giorni dopo la sua rielezione a Presidente della Repubblica e pochi giorni prima di compiere 88 anni. Doveva essere la prima intervista privata concessa dal vecchio Presidente al termine del suo mandato e, presumibilmente, della sua lunga e controversa carriera politica, un bilancio della propria vita, del XX secolo che ha attraversato, del XXI° il cui sviluppo futuro sta fortemente condizionando. E’ stata invece, clamorosamente, la prima intervista pubblica concessa dal nuovo Presidente, nelle stanze del Quirinale dove si è appena reinsediato poco dopo aver prestato giuramento ad una Repubblica e ad un Popolo Italiano più sbigottiti che mai.
C’era un sacco di gente quella sera in cui è stato rieletto Presidente a manifestare inferocita in Piazza Montecitorio. Ce n’era peraltro molta di più a Budapest a manifestare nelle strade il 4 novembre 1956 quando i carri armati sovietici arrivarono a stroncare i sogni di libertà del popolo ungherese. La storia di Giorgio Napolitano, politicamente non ancora conclusa, si è snodata finora tra queste manifestazioni, egualmente frustrate anche se in modo decisamente diverso. Nei giorni successivi alla repressione della rivolta ungherese fu proprio il giovane deputato napoletano, in rapida ascesa grazie al favore personale nientemeno che dell’allora leader comunista Palmiro Togliatti, a rendersi autore di una delle prese di posizione più spietate contro gli insorti, elogiando quell’intervento sovietico che aveva “non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ma alla pace nel mondo”.
Cominciò così la carriera politica dell’uomo che sarebbe diventato il primo Presidente della Repubblica eletto due volte, oltre che il primo Presidente della Repubblica proveniente dal mondo comunista. Il P.C.I. dopo i fatti di Budapest visse al suo interno la sua prima grande crisi, con una frattura tra quanti vedevano negli ungheresi dei "teppisti controrivoluzionari” e quanti cominciavano a chiedersi invece se valesse la pena sognare quel paradiso dei lavoratori che aveva mandato in Ungheria più uomini e carri armati (200.000 e 4.000 rispettivamente) di quanti ne avesse mandati Hitler in Unione Sovietica nel giugno del 1941. La frattura fu in qualche modo ricomposta negli anni successivi, per manifestarsi di nuovo dopo la morte di Togliatti allorché nel 1968 fu la volta della Cecoslovacchia di ribellarsi all’U.R.S.S. e fare la stessa fine dei compagni ungheresi di 12 anni prima.
In tutti quegli anni Napolitano aveva prosperato, salendo fino al rango di vicesegretario del partito insieme a Luigi Longo (figura carismatica di ex-partigiano). A suo dire, in questi anni era maturata la crisi interiore che da fedele alla linea l’avrebbe portato a convertirsi al riformismo di Giorgio Amendola (figlio del liberale Giovanni, martire a causa dei fascisti), che con i tempi storici e i metodi bizantini tipici del centralismo comunista stava elaborando la presa di coscienza che il capitalismo non fosse un sistema da abbattere, ma piuttosto da riformare stando al suo interno e cercando di migliorare progressivamente le condizioni di vita delle classi lavoratrici. Era una svolta che nei paesi anglosassoni e nella Repubblica Federale Tedesca era avvenuta fin dagli anni 40 e 50 con il passaggio alla Socialdemocrazia ed il rifiuto dell’Internazionale Comunista. Nel P.C.I. ancora a fine anni 60 se ne discuteva aspramente e in maniera inconcludente. La parte riformista in ogni caso non era certo quella prevalente.
con Nicolae Ceausescu
Quando anche Praga fu occupata dai russi, la spaccatura all’interno del mondo comunista italiano esplose insanabile. Il gruppo che faceva capo alla rivista Il Manifesto, Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Aldo Natoli, Luciana Castellina, Lucio Magri, Valentino Parlato e altri si posero in aperto dissidio con la Segreteria del partito, nel frattempo finita nelle mani di Enrico Berlinguer che aveva rimontato e superato proprio Napolitano. I dissidenti furono espulsi e dettero vita alla sinistra extraparlamentare italiana, Berlinguer criticò l’U.R.S.S. senza metterne in discussione l’alleanza, Napolitano dette vita a una vera e propria corrente alla destra di un partito che fino a quel momento si era vantato di non prevedere correnti. Fu chiamata, con una nota di disprezzo da parte dei suoi avversari interni, la corrente dei “Miglioristi”, di coloro cioè che non volevano più la rivoluzione dal capitalismo ma si accontentavano di un suo miglioramento.
con Enrico Berlinguer
Per tutti gli anni 70 e 80, Giorgio Napolitano sembrò essere diventato un esponente minoritario e in disgrazia di un partito che stentava ad adeguarsi a tempi che stavano prepotentemente cambiando. La sua attività principale consistette in un giro di conferenze in Gran Bretagna, Germania (dove erano gli anni della ostpolitik, l’apertura all’Est sovietico, di Willy Brandt) e perfino negli Stati Uniti (fu il primo esponente comunista ad avere il visto nel 1978) perlopiù incentrate sul tema dell’evoluzione della sinistra europea verso l’Eurocomunismo e delle prospettive della socialdemocrazia nel Vecchio Continente.

Ebbe di fatto anche un ruolo sostanziale di mediatore-ambasciatore tra campi ancora formalmente contrapposti, il P.C.I. (a cui Berlinguer aveva fatto digerire l’ombrello atomico della NATO e lo strappo da Mosca dopo l’invasione dell’Afghanistan ma che stentava a trarne le conseguenze politiche), il P.S.I. che sotto la guida di Bettino Craxi aveva preso la leadership del campo riformista e rimesso in un angolo i comunisti dopo gli anni del compromesso storico ed il delitto Moro, la NATO che viveva gli anni della recrudescenza della Guerra fredda con Reagan e la Thatcher. Fece scalpore la dichiarazione dell’ex segretario di stato americano Henry Kissinger nel 1986, secondo cui Giorgio Napolitano era il suo comunista preferito.

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